Non c’è storia senza tempo: “Indiana Jones e il Quadrante del Destino”

I sogni non esistono finchè non diventano realtà, o forse sono sempre esistiti ma non ne siamo consapevoli?
Nei sogni, il pensiero è libero di andare avanti e indietro nel tempo: il Tempo – una dimensione invisibile ma significativa – protagonista indiscusso per l’ultima grande avventura dell’archeologo più famoso che la storia del cinema abbia mai avuto, quell’avventura che se avesse un nome – anche per un’ultima volta – si identificherebbe sempre nel segno cinematografico di Indiana Jones.
Il Tempo è una dimensione essenziale e imprenscindibile in qualunque opera narrativa, dal racconto orale al romanzo, dal film alla serie tv fino al fumetto, e in “Indiana Jones e il quadrante del destino” (2023) la storia non può fare a meno della temporalità, a cominciare proprio dal nostro Professor Jones (Harrison Ford, classe 1942, 81 anni) che riesce anche stavolta a portare a casa, senza ormai bisogno di sforzarsi troppo, dopo la bellezza di sessant’anni di carriera, un’interpretazione degna di nota per il personaggio – paladino, eroe fumettistico, professore e insieme spericolato avventuriero, meticoloso studioso di carte antiche ed estremo conoscitore di lingue per altro antiche anche quelle – creato dallo ‘storyteller’ George Lucas e plasmato dal ‘ragazzo prodigio’ della settima arte Steven Spielberg.
La dimensione temporale di questa quinta ed ultima avventura della saga di Indiana Jones è una struttura narrativa particolarmente imprevedibile che viaggia in avanti e indietro nel tempo; la prima di queste situazioni temporali è il prologo ambientato nel 1944 (cronologicamente cinque anni dopo gli eventi de l’ultima crociata, dove troviamo il nostro Indy – un Harrison Ford sottoposto ad una realizzazione del ringiovanimento digitale sul personaggio che ha richiesto ben tre anni di lavorazione – alla ricerca di manufatto rubato dai Nazisti, la leggendaria Lancia di Longino, che si presume sia la lancia che trafisse Gesù Cristo durante la crocifissione), dove si presenta un glorioso viale dei ricordi della durata di quasi venti minuti, in cui lo spettatore è calato perfettamente nello stile e nel ritmo delle prime tre avventure uscite negli anni ottanta (I predatori dell’arca perduta, 1981, Indiana Jones e il tempio maledetto, 1984, Indiana Jones e l’ultima crociata, 1989), pellicole che, insieme a “Lo Squalo” (1975), “Incontri ravvicinati del terzo tipo” (1977), “E.T. – l’Extra-terrestre” (1982) e altre produzioni, hanno segnato la ribalderia e lo spirito giocoso del cinema spielberghiano.
Come già citato prima, il tempo è tutto nella trama di Indiana Jones e il quadrante del destino ed è tutto anche nella sua archittetura, dopo un prologo stupefacente e adeguato ambientato negli anni ’40 (dove una delle armi più affilate è il ringiovanimento digitale), ci troviamo direttamente davanti ad un secondo effetto visivo affiancato al primo, cioè l’invecchiamento reale, dove il nostro protagonista è un anziano professore di università trasferitosi a New York, alle soglie della pensione e in procinto di divorziare dalla sua amata Marion Ravenwood (Karen Allen) dopo la perdita del loro figlio Mutt (il personaggio di Shia LaBeouf in “Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo”, 2008) caduto in azione durante la guerra in Vietnam; siamo in piena estate del 1969 e lo percepiamo subito da quando il nostro Harrison Ford ottantenne, solo nel suo appartamento newyorkese, viene svegliato di colpo dai vicini alle otto di mattina dalle note di “Magical Mystery Tour” dei Beatles sparato a tutto volume, mentre tutto il mondo festeggia il ritorno degli astronauti dalla missione lunare dell’Apollo 11 e l’archeologia non è più un argomento di conversazione quando si esce la sera, nemmeno le ultime lezioni del professor Jones sembrano dare interesse ai giovani studenti universitari e quindi in quel momento capiamo che il nostro mito non è più Indiana Jones ma bensì il Professor Henry Jones Jr. che sta per andare in pensione, un Henry Jones fuori dal mondo e dal tempo che lo circonda (la fine degli anni sessanta appunto), dove mentre tutti gli altri sognano di andare nello spazio tra le stelle, lui decide di rimanere coi piedi per terra.
Indiana Jones and the Dial of Destiny (titolo originale della pellicola) è un film sul tempo che passa, inesorabile, per tutti. Indiana Jones era già un anacronismo nel 1981, un eroe, un mito uscito dai pulp magazine con un’avventura ambientata negli anni ’30, ma quarant’anni e quattro sequel più tardi lo è diventato ancora di più; e il regista che sa di partire proprio da questo concetto è James Mangold – che viene annunciato come nuovo regista del film nel febbraio 2020 dopo il ritiro in extremis del grande intrattenitore Steven Spielberg (molto probabilmente stra-impegnato con i due progetti imminenti “West Side Story”, 2021 e la sua autocelebrazione di un ragazzo innamorato della settima arte “The Fabelmans”, 2022) – che sa benissimo due cose: che cos’è il Cinema e cosa sia, in ultima analisi, un film di Indiana Jones.
Un altro aspetto temporale che attraversa il film è certamente quello legato al macguffin di turno dopo arche perdute, pietre magiche, calici miracolosi e teschi di cristallo sovrannaturali: il quadrante del destino, o comunemente chiamato nella storia Meccanismo di Archimede o Antikythera utilizzato in versione fittizia nel film (come giusto che sia), in grado di localizzare fesssure temporali; un oggetto su cui tutti vogliono metterci le mani sopra, a cominciare dalla sua figlioccia Helena Shaw – una Phobe Waller-Bridge che con un sua “faccia da schiaffi” riesce a fare da spalla all’anziano Indy, anche troppo forse fino anche a rubargli qualche scena – che con l’ingannare il povero dottor Jones, riesce a rubarglielo solo per scopo di lucro, uno scopo meno grave e sicuramente meno pericoloso dell’intenzioni del cattivo di quest’ultima avventura di Indy, Jurgen Voller interpretato da Mads Mikkelsen (a suo agio, come Le Chiffre di “Casinò Royale”, 2006, nel ruolo di villain), scienziato tedesco ossessionato dall’idea di utilizzare il quadrante per tornare indietro nel tempo nel 1939 per eliminare Hitler, diventare lui un ‘nuovo Fuhrer’ e così cambiare le sorti della Seconda Guerra Mondiale.
L’unico elemento che costituisce, non un elemento di temporalità, ma bensì di longevità, risiede forse in quello che è il vero simbolo dell’intera mitologia di Indiana Jones: il suo cappello; quel cappello entrato nell’immaginario collettivo, che in quest’ultimo film ci viene presentato come un vero e proprio personaggio nonchè protagonista (James Mangold c’è lo fa vedere più volte attraverso la pellicola, soprattutto quando non è adosso ad Harrison Ford), l’ultima inquadratura del film, non a caso, vede il famoso ‘Fedora’ appeso fuori da una finestra ad asciugare.
Harrison Ford, con Indiana Jones, ci mostra che in realtà nulla è cambiato, come per gli altri film, con la sua stessa voglia di fare quello che faceva nelle sue precedenti avventure, ma lo fa come un uomo della sua età: avrà perso alcune capacità ma non ha perso l’astuzia, non ha perso il suo coraggio e sopratutto non ha perso la sua convinzione. Quindi lui è ancora Indiana Jones, ma non è lo stesso Indiana Jones.
Il tempo è la parola chiave di questo film: il tempo è passato, scandito da eventi che il nostro Indy più volte ha dovuto studiare, risolvere e imabattersi in prima persona; ma il tempo è anche il presente, un presente che Indy non vive appieno ma solo nel ricordo, nella nostalgia di un passato che non c’è più; e infine, il tempo è anche il futuro, un futuro che deve riprendersi grazie anche ai personaggi che lo circondano. tutto questo riguarda il tempo, così tangibile, tanto da dover sentire, dall’orecchio di un cinefilo attento, il ticchettio delle lancette di un orologio (appunto di un quadrante) al passaggio dei loghi Disney, Paramount e Lucasfilm per accentuare ancora di più il tema del film.
Indiana Jones e il quadrante del destino funziona perchè affronta in primis la realtà dell’invecchiamento con dignità e grazia, e in seconda analisi, il significato di non lasciare cose importanti incompiute e di non condurre una vita lasciandoti una scia di lacrime alle spalle, un film che cerca di unire passato e presente come un ponte concettuale meta-cinematografico, un film che vuole essere diverso anche a livello narrativo per dimostrare il fatto che non ci sarebbe la possibilità di raccontare una storia senza l’elemento essenziale del tempo.

Riccardo Coloris

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