Note su Giorgio Canestri

Sono stato amico di Giorgio Canestri, nel consenso e in certe fasi nel dissenso, dall’autunno-inverno del 1961 al 2022, quando ci lasciò. Dunque, per oltre sessant’anni. Sono assolutamente certo che ormai, in Alessandria, non ci sia nessuno che lo abbia conosciuto da più tempo e, almeno in riferimento a tutto il suo iter, più profondamente del sottoscritto. Ho ottantadue anni, e in questi mesi ho avuto diversi acciacchi. Perciò non ho potuto partecipare al convegno che l’ISRAL nei giorni scorsi gli ha dedicato. Sono certo che i contributi saranno stati tutti rigorosi e interessanti, pur nell’assenza degli “ultimi dei mohicani” di Alessandria e soprattutto di Torino con cui Giorgio ha avuto a che fare nel ventennio tra il 1954 e il 1974, e in qualche caso sino alla fine. A suo tempo, al Non So Chi piacendo, leggerò gli atti. Per me e per tutti noi sarà bello discuterne. E sono certo che ciò valorizzerà ulteriormente il lavoro importante degli amici dell’ISRAL.

Il nostro vecchio e stimato amico è stato decisivo pure per l’Associazione Città Futura, che più di vent’anni fa abbiamo fondato insieme e di cui lui è stato il primo Presidente (e io il suo Vice, prima di diventare Presidente a mia volta). Perciò pubblico di seguito un articolo su Giorgio Canestri da me scritto nei primi giorni di ottobre del 2022 e rimasto inedito. Lo ripropongo senza cambiare neppure una virgola. Su tale base interloquirò volentieri con chiunque, pubblicando ogni missiva che riceverò, e studiandomi di riprendere e ampliare ogni commento. Per me, e per tutti noi “civesfuturi”, sarà l’occasione per approfondire ulteriormente il pensiero e l’azione del nostro indimenticabile Giorgio.

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Giorgio Canestri aveva sette anni più di me, essendo nato nel 1934. Io lo conobbi nell’autunno 1961, quando aderii alla Federazione Giovanile Socialista del PSI, di cui nel 1962 divenni segretario provinciale. Canestri era il più rappresentativo giovane leader di un formidabile gruppo di intellettuali socialisti alessandrini, che allora comprendeva, oltre a Canestri, Giuseppe Ricuperati (suo intimo amico credo dal ginnasio e per tutta la vita), Adelio Ferrero (il più veramente carismatico e stimato), Giorgio Piccione (grande cultore della politica internazionale), Luigi Capra e altri. Su di me Giorgio Canestri, da cui pure anni dopo dissentii, ebbe un’enorme influenza, tanto che persino nel fuoco di talune polemiche di partito non smisi mai di volergli bene, e credo che anche lui lo sapesse e ricambiasse. Naturalmente con tutte le asprezze del caso. Quello comunque era un milieu in cui si poteva polemizzare, anche aspramente, senza cessare di stimarsi e, non appena possibile, tornare ad essere amici. La polemica non scadeva mai nel disprezzo e nell’odio reciproci, c’era sempre un certo rispetto anche nei momenti più aspri, non si scadeva pressoché mai sul “personale”, e gli sgambetti reciproci, quando si dissentisse, facevano parte del gioco e spesso erano persino dimenticati. Questo naturalmente lo compresi nel corso degli anni.

Siccome divenni ben presto amico di tutti questi compagni, e ho buona memoria e senso storico, seppi tutto di tutti, e soprattutto di lui. Molte cose le appresi anche dalla segretaria amministrativa, sulla breccia dalla Resistenza, molto capace e molto legata a quei giovani: Wanda Antiporta. Una volta in una supplenza fui pure collega di una compagna di ginnasio di Giorgio, ma non mi sembra il caso di parlare di prima adolescenza. Perciò, comunque, al di là di me stesso, credo di essere in grado di comporre, su Giorgio Canestri, un quadro unitario d’insieme, in cui i pezzi si combinino come in un puzzle, o in un mosaico. Il quadro che per me emerge è il seguente.

Giorgio fece bene e nei tempi giusti il suo Liceo classico al Plana. Era figlio di un maestro, e siccome non sguazzavano nell’oro, perché credo che in famiglia lavorasse solo il suo genitore, aveva voluto lavorare presto. Così a luglio, credo del 1953, prese la maturità classica, e a settembre quella da maestro, che certo in base all’altra Maturità di quel tempo gli sarà stata data facilmente. Fece questa scelta perché dietro l’angolo c’era un concorso da maestro. Intanto si era iscritto alla Facoltà di Lettere a Torino, diventando un professore di Italiano. In gamba com’era, si era subito abilitato ed era diventato professore di Italiano e Storia all’ITIS Volta, come poi sua moglie, Anna Baroncini, da lui sposata nel 1963. Io me ne ricordo come fosse ieri. Anche lei finì per insegnare lì, e entrambi insegnarono all’ITIS per gran parte della vita, nel caso di Giorgio con due interruzioni rilevanti: una dal 1968 al 1972, quando fu deputato del PSIUP, ed una dal 1977 o 1978 per parecchi anni, quando ottenne il distacco all’ISRAL, di cui fu direttore per non poco tempo.

Come nacque la sua militanza socialista? Mi è stato raccontato che la cosa andò così. Un gruppo di giovani tutti tra i diciotto e i vent’anni s’incontrava spesso sulle panchine intorno alla stazione nelle sere d’estate. Poteva essere il 1953 o 1954. Allora era un posto tranquillo. Si chiamavano Giorgio Canestri, Giorgio Piccione, Adelio Ferrero e credo Giuseppe Ricuperati. Erano tipi uno più in gamba dell’altro e in effetti quando li conobbi molto bene, uno per uno, mi fecero una grande impressione suscitando anche il mio spirito di emulazione. In quel 1953 o forse 1954, a quel che mi fu detto, si ponevano interrogativi sull’impegno politico, optando per il PSI, come partito di sinistra ritenuto “più aperto” e “libero” rispetto al PCI. Si iscrissero insieme, credo. Mi risulta che il segretario provinciale fosse stato allora il geometra Giampaolo Cellerino.

Era il tempo in cui l’organizzazione del PSI faceva capo a un leader di primissimo piano, vicesegretario del partito, uomo eticamente molto motivato e intellettuale di valore, che poi il mio amico Aldo Agosti avrebbe fatto oggetto del suo primo libro importante, Rodolfo Morandi. Il pensiero e l’azione politica, edito da Laterza nel 1971 (che io avrei recensito nel 1972 su “Mondo nuovo”, il settimanale nazionale del PSIUP, il 14 novembre 1971, determinando una discussione a più voci, in cui intervennero Lucio Libertini e lo stesso segretario nazionale, Tullio Vecchietti).

Cellerino era appunto, allora, nel 1953 o 1954 e dopo, il tipico quadro morandiano, molto legato ai comunisti e ancora stalinista e filosovietico, molto capace politicamente e, come potei constatare ai miei primi passi, quando era diventato un fautore dell’alleanza tra PSI e DC anche in Comune, un autonomista molto motivato, che sapeva pure essere duro. Cellerino – che quando nella sua vecchiaia glielo ricordai Canestri chiamava ancora “Giampaolo” – trovatosi a disporre di un gruppo di giovani di quello straordinario livello, magari un po’ inquieti, ebbe subito l’intelligenza di valorizzarli in modo massimo dando loro in mano il periodico “L’idea socialista”. Lì il lettore attento potrà trovare un articolo entusiasta di Giorgio Piccione, andato al congresso nazionale di Torino del 1955 come invitato. Potrà trovare tanti pezzi di Adelio Ferrero, certo il migliore in assoluto tra quegli intellettuali, di cinema e teatro, che forse gli aprirono le porte alla collaborazione sistematica col settimanale della sinistra socialista italiana “Mondo nuovo”, diretto da Lucio Libertini. E potrà trovare articoli di Giorgio Canestri, tra cui uno di vivo apprezzamento del romanzo Metello di Vasco Pratolini (Vallecchi, Firenze, 1955), sull’operaio bravo compagno: romanzo che poi Asor Rosa nel 1965 avrebbe stroncato vedendo in Pratolini e Pasolini, rei di fare una letteratura nazionalpopolare, due “populisti” irriducibili (in Scrittori e popolo, Samonà e Savelli, Roma, 1965).

Procediamo comunque da quel 1954-1955. Poco oltre iniziò il grande scontro sul centrosinistra, dapprima in tono minore nel 1956, quando al congresso di Venezia, Nenni, che aveva già aperto a Saragat (incontro di Pralognan), fu messo in minoranza dai “morandiani” (filocomunisti, dialoganti con la DC sin da “Torino 1955”, ma in un quadro sempre di forte unità d’azione col PCI, loro costante stella polare); ma il carisma di Nenni era grande, e non ne approfittarono. Più oltre gli autonomisti, nenniani, aperti al DC-PSI, si organizzarono nella corrente dell’Autonomia socialista e prevalsero al congresso di Napoli del PSI del 1959 veleggiando verso il centrosinistra (che allora era l’alleanza tra democristiani e socialisti, dal 1963 trentennale e tendenzialmente anticomunista). La cosa seguitò nel congresso di Milano del marzo 1961, in modo ancora più netto. In quell’occasione i giovani di cui sopra si divisero. Infatti Giorgio Canestri e Giuseppe Ricuperati divennero per un poco autonomisti nenniani. La cosa fu minimizzata in seguito, ma aveva talune ragioni. Una era un certo fastidio, che Canestri avrebbe sempre avuto, e che era molto frequente negli anni Cinquanta, nei confronti del PCI, pur ritenuto indispensabile alla sinistra. Lui e Ricuperati, con un gusto della battuta “storica” mai venuto meno, dicevano che Alessandria era una “città socialista governata dai comunisti in modo democristiano”. Un’altra ragione dell’apertura temporanea all’autonomismo da parte di Giorgio Canestri e Giuseppe Ricuperati era la volontà di dare una svolta modernizzatrice e democratizzatrice al paese. E infine c’era tra gli autonomisti una sinistra del centrosinistra che certo li attraeva (quella di Riccardo Lombardi).

Ma poi Canestri e Ricuperati furono ripresi nel gruppo di amici un poco più vasto, e più di sinistra. Un poco contarono pure le lotte operaie. Nel 1961 ci fu la grande lotta occupazionale degli operai e operaie della Borsalino, con l’operaio comunista Balbi e un suo amico saliti sulla torretta della fabbrica (poi abbattuta), a fare lo sciopero della fame e, alla fine, col vecchio sindaco socialista riformista Nicola Basile, che sembrava uscito da un quadro del Risorgimento, e a capo dal 1947 della giunta socialcomunista (di cui Luciano Raschio era il popolarissimo vicesindaco), che requisì simbolicamente la Borsalino a nome del Consiglio Comunale. Ebbene, in quella lunga vertenza c’erano assemblee operaie ogni giorno in quello che ora è il salone del Liceo Musicale, e lì quasi ogni giorno andavano pure Giorgio Canestri e Adelio Ferrero a parlare con e agli operai. Forse questo stimolò pure l’unità a sinistra.

Ma, soprattutto, un grande intellettuale, un grande ex costituente, e segretario socialista (da cui nel 1947 si era staccato Saragat), Lelio Basso, aveva una rivista bimensile ed una posizione che attrassero pure Giorgio Canestri e Giuseppe Ricuperati. La rivista era “Problemi del socialismo”. La corrente di Lelio Basso si chiamava “Alternativa democratica”. Lelio Basso era un decisissimo fautore dell’alternanza tra sinistra e destra “al potere”, ma in una forma dinamica. Il governo Fanfani del 1962-63, che si reggeva anche sui voti del PSI in vista del centrosinistra, si poteva accettare (“centrosinistra tattico, ma non strategico”), come tappa intermedia in vista di una grande alleanza della sinistra nel paese e al governo che unisse insieme lavoratori socialisti, comunisti e cattolici. Il tutto però avrebbe dovuto avvenire in fervido dialogo unitario con i comunisti, in vista della rottura della DC e in funzione dell’alternativa tra blocco riformatore e blocco conservatore.

Questa complessa e dinamica tendenza in Alessandria attraeva molto i giovani di cui ho detto. Dapprima la corrente di Basso fu diretta dal giovane professore Luigi Capra di Valenza, insieme al carismatico intellettuale Adelio Ferrero, che era diventato l’organizzatore e l’anima di un Circolo del cinema che univa tutti gli studenti minimamente motivati della città, e Giorgio Piccione, appassionato di politica internazionale e molto legato ai vecchi socialisti. Ma quando, credo alla fine del 1961, i due autonomisti Giorgio Canestri e Giuseppe Ricuperati aderirono alla corrente di Basso, con una Lettera di due ex autonomisti pubblicata su “Problemi del socialismo”, Canestri, direi nella provincia di Alessandria ne divenne il leader. Nel 1963 la corrente di Basso si unì con quella di Tullio Vecchietti, Dario Valori e Vittorio Foa (la Sinistra, più unitaria con i comunisti quasi su tutto, favorevole pure al dialogo con la DC, ma solo se non escludesse il PCI). Ero presente alla riunione con Basso sull’unione da fare con la corrente della Sinistra, svoltasi in via Faà di Bruno con Canestri ormai leader. Poco oltre ci fu la nascita del PSIUP, e di nuovo il vero leader fu Canestri. Allora ci appariva come un vero tribuno. Era vero per me e per quelli della mia generazione, come Mariangela Ariotti, Isa Iori, Anna Baroncini, Roberto Prigione, Adriano Marchegiani, Andrea Foco e Giancarlo Canestri, il fratello più giovane di Giorgio. Dopo la contestazione del 1968 sarebbe arrivato tra noi un giovane che ne era stato leader e che nel 1970 io stesso feci partecipare alle liste comunali del PSIUP come indipendente, il caro e compianto amico Luciano Stella.

Com’era stato ed era in quegli anni Giorgio Canestri en politique?

Intanto era uno che s’interessava in primo luogo di riforma della scuola, su cui scrisse pure da storico, con Ricuperati, una storia documentaria, La scuola in Italia dalla legge Casati a oggi (Loescher, Torino, 1976), e su cui s’impegnò da parlamentare del PSIUP dal 1968 al 1972. Canestri aveva fondato in Alessandria, credo verso il 1959, l’ADESPI, l’Associazione Democratica per la Difesa e lo Sviluppo della Scuola Pubblica in Italia, di cui era stato Presidente. Poi sarebbe stato tra i promotori a livello nazionale del Sindacato Scuola della CGIL, nato in gran parte per iniziativa del PSIUP, anche se qui nei primi anni, in totale sintonia sindacale anche con lui, fu diretto da tre compagni di una corrente psiupparda diversa dalla sua (che era “libertiniana”), come Adriano Marchegiani, Pippo Amadio e Andrea Foco. Nel 1963 “passò” la presidenza dell’ADESPI a Franco Molinari, un maestro che in seguito sarebbe diventato professore di filosofia al Liceo Classico Plana. Ormai, infatti, Canestri era il capo della Sinistra che veleggiava verso il PSIUP, partito che poi diresse nella provincia di Alessandria, insieme a Mario Verna, sino al 1966.

In secondo luogo si sentiva moltissimo che Giorgio Canestri era un letterato, secondo me persino con un modo di percepire “tutto” esteticamente. Diventati amici, nei primissimi anni ci scherzavamo anche sopra. Io avevo stravisto per Nietzsche e Dostoevskij, e lui che cosa aveva amato prima degli autori cari allora alla sinistra, come Brecht, o come il Pasolini delle Ceneri di Gramsci (Garzanti, Milano,1957)? Ridendo mi diceva che il suo romanzo preferito “prima”, e che ancora amava, era stato, ed era, I legami pericolosi di Laclos (1782 e BUR, Milano, 1976). Si sentiva che gli piaceva molto quel che lo emozionasse, e gli piaceva emozionare, con la parola, anche con un gusto che talora mi lasciava perplesso per le frasi belle e contorte, molto aggettivate, che usava, come se percepisse, appunto esteticamente, la stessa politica. Parlava, anche in piazza, in un modo complesso ma molto affascinante, ricco di quella che egli stesso chiamava “eloquenza”.

Un’altra sua caratteristica era un’incredibile apertura ai giovani. Forse era pure legata al ruolo che dava all’educazione, ma forse c’era molto di più. Sta di fatto che io non ho mai conosciuto nessuno nella mia vita. ormai da ottuagenario, che fosse così aperto ai giovani. A volte sembrava persino che non fosse lui ad influenzare i giovani, ma i giovani lui. Gli piaceva confrontarsi con loro come un amico più maturo ed essi lo comprendevano “al volo”.

Nel 1963 Canestri, che aveva allora ventinove anni, era allo zenit. Faceva pure parte del Comitato Centrale della Sinistra Socialista, come poi di quello del PSIUP. Fu il carismatico e tribunizio leader di quella scissione.

Nel PSIUP si trovò presto alla sinistra, specie per la grande influenza di un grande oratore e buon economista che era sempre controcorrente, ma anche perché era in incubazione un “Sessantotto”. In quel contesto iniziò presto una specie di assurda rincorsa a chi faceva i discorsi più estremi. Talora a parole si parlava già troppo di rivoluzione, che però in Occidente in senso forte, a mio parere, non si poteva fare. Questo proposito era a mio parere sterile e anche involontariamente demagogico, mentre avremmo semmai dovuto lottare per organizzare l’antagonismo nei luoghi di lavoro, tra gli operai delle fabbriche, con i nostri giornalini, come io e altri “foani” in tante città provavamo a fare. Su ciò Giorgio Canestri concordava, ma poi non s’impegnava, perché nel suo carattere era forte la capacità di assumere la posizione che pareva più radicale, ma dopo averla enunciata, e favorita, e propagandata nelle piazze, la cosa per lui e per molti era finita. Era un grande propagandista, ma non un organizzatore e attivista nella vita quotidiana. Questo talora sembrava massimalismo, anche se certo “colto” e niente affatto rozzo. Solo su un punto, però assolutamente decisivo, Canestri e il suo amico Libertini, e tutti i loro amici, avevano totalmente ragione, e noi torto marcio, coinvolgente pure me ed Angiolino Rossa: nel considerare ormai l’Unione Sovietica come un Paese – diceva Giorgio – dominato da “burocrati spenti”, mentre molti tra noi – specie in quanto l’URSS sosteneva in modo decisivo l’”eroico Vietnam” contro “l’imperialismo americano” – colpevolmente non ne vedevano la totale decadenza, neanche nel ’68, quando l’URSS represse con i carri armati la “primavera di Praga”. La cosa non indebolì il PSIUP, anche perché il giustificazionismo era contorto (tanto che intitolavamo il nostro manifesto “I problemi del socialismo non si risolvono con i carri armati”). Inoltre nel tempo di Che Guevara, Castro e soprattutto del Vietnam, di Dubceck non importava quasi a nessuno. E infatti poi ci fu l’autunno caldo, in cui il PSIUP fu in primissima linea. Ma quel giustificazionismo, anche un po’ farisaico, sull’URSS e sulle sue imprese, che ora direi imperialistiche, fu gravissimo storicamente.

Comunque nel 1966 nel PSIUP di Alessandria fu rovesciato quello che qui pareva massimalismo, taluno diceva “filocinese”. Così accadde che nel 1966 la segreteria Verna-Canestri fosse messa in minoranza, a ridosso del congresso nazionale. Potrei scendere nei particolari della “trama”, e del primo drammatico Direttivo in cui quella segreteria di Federazione “Verna-Canestri” venne messa in minoranza. Ma da un lato il mio spazio è limitato. E dall’altro a che servirebbe? Si sa che nei partiti, tanto più socialisti, le contese vanno e vengono. Angiolino Rossa, che sin lì aveva diretto la Federbraccianti della CGIL, subentrò a Mario Verna. Io entrai nell’Esecutivo (avevo venticinque anni) e più oltre, dopo il ’68, divenni vicesegretario di federazione. Ero pure, sempre come volontario, dal 1964 al 1972, il responsabile del lavoro politico di fabbrica. E tra il 1969 e il 1971 feci pure parte della segreteria regionale.

Solo una cosa mi pare necessario ricordare di quelle contese, perché secondo me ebbe enormi conseguenze sia nella vita di partito alessandrina che in quella di Canestri forse persino al di là del PSIUP. Nel 1966, dopo che già era stato deciso di mettere l’umanissimo, vitale, capace, coinvolgente e popolare oratore Angiolino Rossa al posto di Verna come segretario provinciale e funzionario, ci fu il congresso nazionale di Bologna, al quale andarono come delegati o invitati Angiolino Rossa, Giorgio Piccione, Angelo Migliora (segretario della Fillea-Cgil), Verna e Canestri (delegato di diritto anche come membro del Comitato Centrale). Canestri subì una scelta che gli fece un gran male e che mi dispiacque moltissimo perché quantunque giovane intuii non solo la bastonata in testa che gli si dava (anche col consenso a distanza di persone che quasi venerava, come forse per fortuna non seppe mai): l’esclusione, per richiesta dei delegati – ovviamente salvo Verna – dal Comitato Centrale. Si preferì che “per quel giro” Alessandra non fosse rappresentata nel CC. Mi fu detto che nell’elenco in ordine preferenziale dei membri del CC presentato da Vecchietti, che naturalmente partiva dai 25 della Direzione per allargare la rosa al centinaio del CC, Canestri era il numero 26, cioè era quasi un membro candidato della Direzione. Mi dissero che non farlo sarebbe stato vanificare l’operazione del cambio di Federazione. Quando ci fu la Conferenza di organizzazione provinciale per ratificare il tutto, intervenendo mi sentii persino male.

La segreteria di Rossa e poi Rossa e mia si diede molto da fare in ogni ambito e crebbero quadri molto importanti, con tanti dibattiti al Circolo Mondo Nuovo, un mio spazio notevole per il lavoro operaio nelle fabbriche, innumerevoli comizi dappertutto, festival musicali e un’apertura totale anche ai migliori contestatori, su cui potrei raccontare molto. Ma quella divisione non fu più rimarginata. Più oltre però Giorgio Canestri ebbe la sua grande rivincita diventando deputato nel 1968. Era così forte il suo legame con la contestazione del ’68 che non è esagerato vederlo come il deputato del “Sessantotto”, e non solo per ragioni di date.

Poi dal 1970-71 il PSIUP entrò in crisi sempre più mortale, scendendo dal 5% circa del ’68, che era poco, ma era molto per un partito che al 90% degli attivisti era di quelli che oggi si direbbero giovani, nonché il trait d’union tra sinistra extraparlamentare e sinistra dei partiti della sinistra e dei sindacati; inoltre quel partito, senza esaurirla, era certo parte non piccola della contestazione culminata nel Sessantotto e partita di lì. Quando si vide, tra elezioni amministrative del 1970 e parziali del 1971 che si era al 2,5% partì il dibattito, prima sotterraneo e poi manifesto, sulle confluenze (nel PCI o PSI) o sulla “continuazione” (in accordo, come presto emerse col Manifesto, con cui i “continuatori” costituirono l’effimero Partito di Unità Proletaria). Canestri fu incerto, ma alla fine non volle cedere alle mie grandi insistenze, per cui avevamo persino messo Rossa (filosocialista) in minoranza, per entrare nel PCI, come voleva pure il suo grande amico e compagno di riferimento Lucio Libertini, che scelse il PCI. Perché Canestri fece così, e con quali conseguenze?

Ci sono diverse ragioni. Una era pure legata alla maggiore esperienza. E infatti una volta, seduto a quella che era stata sino a poche settimane prima la scrivania di Rossa in via Savonarola, mi disse: “Caro Franco, nella vita si può diventare qualsiasi cosa, ma non comunisti. Comunisti si nasce, non si diventa”. Inoltre subiva un fortissimo condizionamento interiore da un amico che venerava, e che invece spesso aveva dissentito da lui: Adelio Ferrero, il “vero bassiano” della compagnia, ostile alla confluenza sia nel PSI che nel PCI. Pesò certo moltissimo la sua esclusione dal Comitato Centrale e quasi dalla Direzione del PSIUP dal 1966, che lo privò dell’effetto di trascinamento legato al ruolo. Ma c’é anche una ragione più profonda, che “in parte” ha riguardato TUTTI coloro che erano stati psiuppardi non per caso, ma con profonde motivazioni, anche confluiti nel PCI e talora nel PSI. Questa cosa, in lui più esasperata, spiega una faccenda persino un poco misteriosa: perché uno così, che era stato un leader del socialismo di sinistra, provinciale dal 1959-1960 (dai 25 e 26 anni) e nazionale dal 1965/68 al 1972 (dai 31 ai 38 anni) abbia poi, a parte la piccola parentesi del PdUP durata due anni, smesso di far politica, in senso forte, dai 42 agli 86 anni, cioè per 44 anni consecutivi.

In quei quarantaquattro anni naturalmente qualcosa fece, sol che si pensi agli anni d direzione dell’ISRAL oppure a quelli in cui insieme fondammo l’associazione Città Futura (di cui fu il primo Presidente, con me come Vice una ventina d’anni fa). Ma quella non era più politica in senso forte. Io me lo spiego col dramma di una tendenza della sinistra che non poteva e non avrebbe mai potuto essere né compiutamente comunista né compiutamente socialdemocratica, mentre dopo il 1972 in termini di realpolitik era fatale essere o l’una o l’altra (ammesso che fossero due e non una a due facce, pur diverse). Molti tra i compagni di tale area strinsero i denti e scelsero, ma quasi nessuno fu più “quella roba là”, cioè esponente di una sinistra post-socialdemocratica e post-comunista. Per non vestire un abito stretto (socialdemocratico o comunista), più d’uno restò senz’abito, per così dire politicamente nudo, magari cadendo in depressione, come un cavaliere senza cavallo. Sono le aporie della storia.

di Franco Livorsi

2 Commenti

  1. Ti ringrazio, caro Mauro, ma non non siamo stati così elitari. Noi abbiamo fondato il Sindacato Scuola della CGIL, diretto da nostri elementi per molti anni (Marchegiani, Amadio, Foco). Poi la nostra storia, anche se ci stava “stretta”, è seguitata nel PSI e nel PCI. Lì Rossa qualcosa ha fatto. E il sottoscritto, dieci anni in Comune, prima come assessore alla cultura e poi come capogruppo consiliare, ha potuto partecipare al completamento e fondazione di un Teatro, alla fondazione dell’Istituto storico della Resistenza, a far venire tre grandi Facoltà complete da Torino ad Alessandria. E Foco è diventato vicesindaco. Per un piccolo partito, ti pare poco? Quanto alla Comunità San Paolo mi pare che abbia dato l’impronta, anche grazie a te, all’ACSAL, che non è piccola cosa. Certo se si considera lo scioglimento del PSIUP come termine “ad quem”, hai ragione. Comunque ti ringrazio per l’apprezzamento del mio contributo, che mi fa molto piacere, e spero di vederti presto.

  2. Quello di Canestri, Livorsi e altri fu movimento più di intellighenzia (professori, intellettuali di vari interessi culturali) che non di massa: incise nella coscienza di molti giovani in quegli anni, ’60 e ’70 in particolare, ma non produsse poi effetti duraturi o rilevanti, salvo eccezioni, sul piano politico, istituzionale (forse anche per questa ragione una delusione in Canestri?). Parallela e per taluni versi analoga dinamica avvenne in Italia, e pure in Alessandria, in seno al mondo cattolico, nella corrente più progressista del post-concilio Vaticano II. Per Alessandria il pensiero va alla comunità San Paolo che ha manifestato analoga parabola: avviata da giovani “di belle speranze” cui seguì un evidente declino. Due pezzi di storia alessandrina, per molti versi intrecciantisi, e della sua intellighenzia progressista che non andrebbero dimenticati. Bravo comunque Franco Livorsi con questa sua ricca e documentata ricostruzione. Mauro Fornaro

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