Note e riflessioni su “Il segreto del fiore d’oro. Un libro di vita cinese”, a cura di Carl Gustav Jung e Richard Wilhelm

Il[1] commento all’antico libro sapienziale taoista cinese Il segreto del fiore d’oro da parte di Jung fu, per il fondatore della psicologia analitica, un importante punto di svolta. Jung, allora, aveva cinquantatre anni, essendo nato nel 1875.

Prima, in lui, c’era stata una lunga vicenda, di cui dobbiamo almeno ricordare, in modo assolutamente sommario, le tappe, per comprendere il senso di tale saggio e il carattere di svolta nel proprio pensiero attribuito da Jung alla scoperta di questo antico testo cinese.

Dapprima Jung, dall’inizio del XX secolo, era stato un giovane e brillante psichiatra della maggior clinica di Zurigo e della Svizzera, se non d’Europa (il Burghölzli). Egli si distingueva dai predecessori e colleghi più che altro per la convinzione che i pazzi andassero trattati come persone invece che incarcerati e sottoposti alle ben note vessazioni “terapeutiche”, durate tanto a lungo negli ospedali psichiatrici. Ma, soprattutto, egli era convinto che anche il pensare apparentemente insensato di quei pazienti celasse un’intenzionalità inconscia, da scoprire per farli stare meglio. L’idea di inconscio giungeva a Jung tramite la nozione di una volontà di vita cieca, propria di Schopenhauer, e di volontà di potenza, propria di Nietzsche, pensatore a lui ben noto già da studente universitario, e di cui si sarebbe molto occupato in un arco che va dal suo primo libro, ricavato dalla tesi di laurea del 1899, almeno sino al 1939, con riferimenti in seguito più critici, ma presenti sino alla fine. Vedere la volontà di vita inconscia come essere del mondo o come inconscio non è affatto diverso. La novità introdotta dalla psicoanalisi, da Freud a Jung, non consiste nella scoperta dell’inconscio, ma nel confronto con esso a fini psicoterapeutici.[2]

Jung conosceva sin dall’inizio L’interpretazione dei sogni di Freud, libro uscito solo due anni prima, citato nel suo primo libro, tratto dalla propria tesi di laurea sulla “psicopatologia dei cosiddetti fenomeni occulti”[3]. Finì per diventare freudiano (per sei anni, tra il 1906 e il 1912), direi più da “alleato” che da allievo veramente “ortodosso” di Freud, anche se certo con forte legame con il fondatore della psicoanalisi. Nella psicoanalisi lo attraeva l’idea del poter curare le psiconevrosi facendo dialogare, per il tramite dei sogni dei pazienti, l’inconscio – in certo modo schopenhaueriano-nietzscheano – con la coscienza, tramite il metodo delle libere associazioni agli elementi dei sogni da parte del paziente stesso (il che è il punto comune metodologico dei diversi indirizzi psicoanalitici si può dire sino ad oggi). Per Freud l’inconscio era tutto legato ad una cieca volontà di vivere di tipo erotico (il che in parte era già presente in Schopenhauer), per lui di tipo sessuale o tendenzialmente tale, con frustrazioni, poi generatrici di psiconevrosi, connesse a tendenze incestuose della prima infanzia non superate dal “paziente”.

Jung aveva riserve sul vedere la pulsione dominante dell’uomo, vitalistica, e per ciò stesso erotica, sempre – o sempre in modo del tutto prevalente – come sessualità considerando l’inconscio come mera cantina in cui sono rimossi i desideri e le esperienze inconfessabili, che nei sogni si esprimerebbero liberamente sotto la maschera dei simboli: sogni che – qualora siano emozionalmente rivissuti e chiariti dal paziente in analisi – si dissolverebbero come neve al sole (della maggiore consapevolezza). Tuttavia seguì l’indirizzo di Freud dal 1906 al 1912, venendo considerato da Freud come il suo “erede” e “principe ereditario”.

Ma nel 1912 Jung scoprì, vagliando le fantasie di una poetessa folle a lui sconosciuta pubblicate su una rivista psichiatrica ginevrina, l’operare nell’inconscio di antichi miti ritenuti non appresi ma innati. Per tal via, approfondendo ciò, si convinse del fatto che nell’inconscio ci siano sempre tracce (“impronte”, typòi), che non derivano dall’esperienza personale, anche infantile, rimosse, ma dalla più lontana umana “origine” (arché), pur incrociandosi con vita e storia dei singoli. Nei grandi sogni tali archetipi, legandosi ai problemi del singolo, attiverebbero, soprattutto tramite grandi sogni, miti a tutti comuni, antropologici, per ciò stesso afferenti a un inconscio antropologico, detto collettivo, tramite i quali (grandi sogni e miti coevi) la nostra natura profonda comunicherebbe, in modo simbolico, con la coscienza del singolo, che deve quantomeno confrontarsi con tali fantasie creative, in cui si esprimono a tempo debito nostri specifici bisogni di autorealizzazione nel nostro contesto esistenziale. Il metodo delle libere associazioni ai sogni da parte dei pazienti andava sempre bene, ma non solo per svelare le ragioni più segrete personali del conflitto psichico, ma anche sogni di autorealizzazione personale e spirituale persino più importanti di quelli di una sessualità frustrata. Questi archetipi e miti coevi, inoltre, evidenziavano, una sorta di religiosità ancestrale. Questo fu il principale messaggio del suo libro del 1912 Trasformazioni e simboli della libido, che profondamente modificato quarant’anni dopo sarebbe diventato Simboli della trasformazione. L’emergere di questa nuova impostazione contribuì alla rottura tra Freud e Jung[4].

Jung così dovette staccarsi forzatamente, dopo rottura congressuale drammatica, dall’Associazione psicoanalitica internazionale freudiana, di cui era stato Presidente e direttore della rivista. Era il 1913.

La rottura sua, e dei suoi pochi amici svizzeri, con Freud, coincise con una sua grande crisi interiore, con vere e proprie visioni, che egli avrebbe però connesso a premonizione dei massacri della Grande Guerra venuti poco dopo. Emergevano visioni e sogni a dir poco conturbanti, forse ai limiti della follia, con cui egli volle interloquire come fosse un paziente in analisi (autoanalisi), con metodo poi detto dell’”immaginazione attiva”. Parlava insomma dei suoi sogni con sé stesso in modo sempre più disinibito. Raccontò tutto ciò poeticamente e lo illustrò con vere qualità da pittore, in un grande testo incompiuto, il Libro rosso. Da quest’opera di grande suggestione del 1913-1914, limata e certo un poco modificata sino al 1927, emerge una grande fantasmagoria di sogni, miti vivi coevi riconsiderati, ed anche drammatici conflitti interiori, che possiamo ben vedere come un vero “caos creativo”. Il testo non fu mai terminato, e nel ’28 fu abbandonato, ma nel 1959 Jung vi appose un breve postscriptum in cui dichiarava che lì non aveva trovato il bandolo per superare quei laceranti conflitti, ma che tale bandolo avrebbe preso a trovarlo nel 1928, quando il grande sinologo suo amico Richard Wilhelm, il traduttore de I Ching in Europa (opera di mantica e di sapienza filosofica cinese antica), gli inviò un piccolo antico libro sapienziale cinese proponendogli di farne un commento psicologico, da aggiungere alla parte sua da filologo, e con traduzione del testo: appunto Il segreto del fiore d’oro.

Il libro cinese in oggetto, con commento di Jung e Wilhelm, è comparso in una bella traduzione di Augusto Vitale e Maria Anna Massimello uscita, con Introduzione di Augusto Romano, nel 2001.[5]

Il libro sapienziale antico in questione è un breve, ma denso, testo cinese taoista, che sarebbe stato scritto da un mistico dell’VIII secolo d.C., tal Lu Yen, detto pure Lu Tzu, in forma scritta riscontrabile dal XVII secolo d.C. e a stampa nel XVIII secolo (pp. 84-85). Per quella via Jung superava la sarabanda di figure divine pagane e cristiane del Libro rosso, che non a caso, quando nel 2009 l’opera è stata finalmente pubblicata postuma, ha entusiasmato sia Hillman (teorico del politeismo archetipico psichico) che lo straordinario curatore, l’indiano Sono Shamdasani, oltre a tutto educato in origine al politeismo induista[6]. Hillman e Shamdasani vi hanno visto addirittura l’equivalente junghiano del Libro dei morti dell’antico Egitto o dei tibetani.[7]

Tuttavia Jung supera tale politeismo psichico. Come dice nel poscritto del 1959 al Libro rosso, proprio a partire dal commento a Il segreto del fiore d’oro. Infatti tramite l’alchimia psicologizzata, ab ovo cinese, a partire da quel testo, scopre una sorta di monoteismo psicologico di tipo prevalentemente immanente, ruotante attorno alla nozione del Sé, inteso come punto alfa-omega dell’inconscio collettivo, fonte dei grandi sogni e visioni, ma ora assunto come punto focale creativo-creatore unitario, sintetizzatore a priori infinito, della psiche: punto d’infinità viva, detto appunto Sé, cui l’Io si rapporta dialetticamente (come all’altro polo interiore della psiche totale): diventando – nella “congiunzione” (coniunctio) con quel primo principio intimo, quale sia la profondità del contatto col Sé – sé stesso, cioè incamminandosi sulla via della rinascita e autorealizzazione interiori.

Il Sé, spiega Jung nel commento del ’29, in Cina era detto il Tao, “la via”, l’Essere; in India e altrove, tra i buddhisti, il Nirvana, e nel cristianesimo Cristo in quanto Deus interior, vero Dio e Vero Uomo, Logos intimo in ciascuno (per così dire a priori). Ma con una particolarità: il Sé taoista – ma di lì in poi in certo modo junghiano – non è né un puro stato mentale di beato superamento totale dell’Io nel senso di Ego (come il Nirvana buddhista) né una persona (come il Cristo pure interiore del cristianesimo), ma è esperienza del divino, la convinzione di percepire in vita un che di senza tempo, eterno, infinito. Perciò Jung precisa, confrontando ciò con le richiamate esperienze diverse del divino (del buddhismo e del cristianesimo): “Nel taoismo si tende invece a trasfigurare per così dire l’idea della persona, le ‘impronte’ delle esperienze. Si tratta della luce che ritorna a sé stessa insieme alla vita, e che nel nostro testo è simboleggiata dal fiore d’oro (p. 94).” Infatti il testo cinese stesso, citandone uno più antico ancora, diceva: “Se si continua a vivere nel mondo, restando però in armonia con la luce, allora ciò che è rotondo resta rotondo, e ciò che è angolare resta angolare; si conduce tra gli uomini un’esistenza visibile eppur segreta, diversa eppure simile, e nessuno la può giudicare perché nessuno rileva la nostra segreta condotta (p. 122).”

Questo è proprio il punto chiave di contatto con Jung. Ossia, come nota Augusto Romano nella sua interessante Introduzione, la psicologia della religione “si configura in Jung come una psicologia dell’esperienza religiosa”. L’Essere per lui, ma pure per lo Yoga, sebbene un po’ diverso dalla psicologia analitica, consiste nel percepirlo; ma direi che c’è qualcosa di più rispetto al vecchio empirismo inglese che diceva “esse est percipi” (essere è essere percepito), nel senso che nella percezione, o percezione del genere, vale il senso “dell’Essere” (il percepito), la fortissima e innegabile percezione psicologica di aver intuito l’Essere: come se uno lo sentisse e toccasse (sia ciò illusione, però antropologica, oppure contatto vero con l’Essere eterno). In termini psichici il contatto è sentito come vero, anche se in termini puramente logici si è costretti a sospendere il giudizio, che però si basa su un humus molto favorevole al credere che l’Essere, il Sé, in quanto è stato percepito, sia reale in sé e per sè.

Naturalmente nell’ottica orientale credere di percepire il divino come esperienza psichica e credere che il percepito sia un che di esistente in sé e per sé, sono la stessa cosa. E infatti in riferimento al libro taoista Il segreto del fiore d’oro, Jung afferma: “Il nostro testo promette di ‘svelare il segreto del fiore d’oro del grande Uno’. Il fiore d’oro è la luce, e la luce del cielo è il Tao” (p. 46).

Questo credere di aprire davvero la porta all’Uno attraverso la meditazione (di cui il testo taoista in oggetto descrive pure la tecnica, in sostanza di distacco “dolce”, come il lasciar andare, dalla quotidianità usuale, per lasciar entrare il reale in sé e per sé, acquisendo una sorta di “sguardo altro”, potremmo dire armonico, incontaminato, puro, disinteressato e pure disincantato, “autentico” sulle cose), naturalmente per l’orientale è un fare l’esperienza del divino al di là di ogni ragionevole dubbio. Mentre noi occidentali, specie da Kant in poi, sappiamo che è sempre il nostro umano pensiero a fabbricare i nostri pensieri; e quindi anche in presenza di tale percezione dell’Essere o “eterno” andiamo molto più cauti, l’orientale naufraga volentieri nel suo infinito al di là della ratio. A noi quella full immersion, che ci fa eterni nell’eterno, per contro è più difficile, perché ormai non possiamo annullare la centralità del soggetto conoscente abbandonandoci fiduciosi al mare dell’eterno; e quando ci rendiamo facile tale esperienza, scimmiottando l’Oriente, come faceva la teosofia (che Jung critica) o la New Age, invece di realizzare noi stessi, secondo Jung cadiamo in un infantilismo inautentico, come uno che scambi la parte che recita con la realtà. Jung lo ribadisce mille volte. Noi sappiamo che l’Io, la consapevolezza, è un ospite che non si può mettere fuori gioco, e su ciò Augusto Romano nella sua Introduzione, come altrove in polemica con Hillman[8], mostra di ritenere che annullare la coscienza nel divino, in stati mentali al di là della razionalità, sarebbe una follia divina, che potrebbe pure facilmente diventare follia anche troppo umana, e comunque essere per noi un nuovo inganno dell’Io, una nuova illusione, una forma più subdola di alienazione mascherata da full immersion nel divino stesso.

Tuttavia Jung forse è più “orientaleggiante” di quanto lo faccia lo stesso Romano, anche se l’abbandonarsi fiduciosi all’inconscio come mondo degli archetipi-dèi, poi hillmanniano, almeno dal 1929 crede di averlo superato. Egli non mette in alternativa l’essere coscienti e l’abbandonarsi alla costellazione archetipica dell’inconscio collettivo e ai suoi miti ritenuti più o meno perenni, ma mette piuttosto in alternativa coscienza meramente d’intelletto (intellettualistica) e coscienza più elevata, in cui – come spiega espressamente nel suo commento – intelletto, sentimento e intuizione si contaminano felicemente; lo dice anche in relazione al suo opus Tipi psicologici[9], in cui l’assolutismo di una sola funzione mentale, o poco più – sia essa pensiero, sentimento, intuizione o sensazione – ingenera disadattamento cronico, nevrosi, mentre gli opposti sono da integrare.

Ma Jung ritiene pure che in modo più o meno implicito, o non del tutto esplicito, anche i taoisti e orientali affini, quali l’autore de Il segreto del fiore d’oro, siano stati psicologi dell’anima. Infatti proprio nel capitolo conclusivo del suo saggio (“Il compimento”) dice: “L’ammirazione che nutro per i grandi filosofi orientali è tanto indubitabile quanto irriverente è invece il mio atteggiamento verso la loro metafisica. Ho infatti il sospetto che essi siano psicologi simbolici, ai quali non si potrebbe fare torto maggiore che prenderli alla lettera” (p. 71). Insomma, anche per loro, come per lui, non conterebbe la fede in Dio (o nel Tao in senso forte), ma l’esperienza psicologica che si fa o crede di fare di una dimensione di eternità, o vita eterna psicologizzata. Tanto che aggiunge: “L’ipotesi dell’esistenza di un dio assoluto, al di là di ogni esperienza umana, mi lascia indifferente. Né io agisco su di lui, né lui su di me. Se invece so che è un possente impulso della mia anima, me ne devo interessare, poiché allora egli può acquistare un’importanza spiacevole persino nella vita pratica, il che suona estremamente banale, come ogni fenomeno che rientri nella sfera della realtà (p. 71).”

Comunque nel saggio Jung sottolinea continuamente che scambiare l’esperienza psichica del divino con realtà in sé e per sé va al di là di ogni psicologia che si proponga come scienza, e che però egli, della scienza, vuol dilatare i confini, in un’epoca come la sua, che apprezza, e che oggi noi nel campo degli studi diciamo di “reazione al positivismo” (e a quanto pare l’indeterminismo scientifico della fisica quantistica oggi rafforza molto tale approccio, come in Federico Faggin[10]). Nota infatti Jung: “Mentre il bilanciarsi degli opposti è segno di grande cultura, l’unilateralità conferisce certo una forza d’urto, ma è per ciò stesso segno di barbarie. Non possiamo fare a meno di considerare la reazione che si sta formando in Occidente contro l’intelletto e a favore dell’Eros o dell’intuizione come un segno di progresso culturale, un ampliamento della coscienza oltre i limiti troppo angusti di un intelletto tirannico (pp. 32-33).”

La psicologia che parla di religione, in quanto scienza è agnostica. Ma certo il ritenere di fare esperienza del divino, o eterno, è un che di così straordinariamente coinvolgente che poi si concilia con una qualche fede religiosa, che pure in psicologia – scienza umana quanto si vuole, ma pur sempre scienza – non è né affermata né negata.

Si fa comunque esperienza, tra i cultori del “fiore d’oro” come della psicologia analitica, di una dimensione altra, di “luce” (spesso di “luce bianca” pure mentre la si fa), diversa da ogni altra esperienza; è come se mutasse il modo d’essere considerato normale, spazio-temporale, e si accedesse a tutt’altro modo di vedere, rischiarato dalla pura luce dell’essere infinito ed eterno scovata alla prima radice di sé stessi: non già in astratto – il che non conta quasi niente – ma di “vissuto”. Si fa esperienza di un quid al di là dell’esperienza, al di là del tempo, al di là della morte o senso di morte, come nel testo cinese in oggetto è teorizzato. Su ciò lo psicologo, dice espressamente Jung – “può solo far rilevare che le posizioni del nostro testo relative all’atemporalità della coscienza distaccata sono in armonia con il pensiero religioso d’ogni tempo e con la stragrande maggioranza del genere umano, e che quindi chi non dovesse pensarla così resterebbe al di fuori dell’ordine umano e verrebbe in tal modo a soffrire di disturbi dell’equilibrio fisico. In qualità di medico, faccio quindi tutto il possibile per rafforzare la convinzione nell’immortalità, specialmente nei miei pazienti più anziani, per i quali questi problemi si fanno minacciosamente vicini. Considerata in una corretta prospettiva psicologica, infatti, la morte non costituisce una fine, ma una meta, e l’inclinazione della vita verso la morte ha inizio, appunto, non appena si è sorpassata l’altezza meridiana (p. 66).” Qui si riferisce alla seconda metà della vita, con eco per noi familiare sin dal primo verso della Divina commedia di Dante, anche se per fortuna oggi “il mezzo del cammin” si è spostato più avanti (non c’è fretta di passare oltre, anche giunti all’atto quinto del dramma).

Com’è noto Jung chiama questo “incontro-contatto” o addirittura fusione tra Io e Sé profondo, in fondo tra finito e infinito interiore, tra contingenza e eternità (o tra “senso della contingenza” e “senso dell’eternità”), “individuazione”. Il processo individuativo, cioè del diventare sé stessi, del rinascere a sé stessi, si configura non come una guarigione, cioè come la restaurazione di una salute mentale perduta, bensì come un superamento, una sorta di coscienza di sé ben più matura e solida. La chiara luce yogica, nel taoismo frutto di una meditazione che distacca la mente dalla realtà ordinaria per farle acquisire un modo puro di guardare il mondo, corrisponde a quello che l’analisi – per Jung – può chiamare “innalzamento del livello della coscienza”. Il disagio mentale – dice Jung di sue analisi di pazienti per così dire riuscite – ha lo stesso tratto taoista di accesso a un altro modo d’essere: “Non veniva dunque risolto in modo logico, per sé stesso – dice – ma sbiadiva di fronte a un nuovo più forte orientamento della coscienza” (p. 37).

Questo è molto importante perché l’andare oltre il tempo, l’accedere ad un tempo senza tempo in forma di esperienza interiore veramente vissuta, dà senso alla vita e vince la stessa morte mentre siamo ancora in vita (la vince almeno come esperienza psichica effettivamente fruita). Ci fa sentire che non siamo solo una manciata di atomi, ma che partecipiamo ad un che di eterno. Non siamo contingenza pura. Almeno nell’autopercezione psichica possiamo giungere a tanto (sia ciò, o meno, oggettivamente “vero”).

Inoltre ci libera da un pluralismo assoluto di archetipi, e relativa fantasmagoria di immagini, sogni e miti ad occhi chiusi e aperti, che hanno un senso perché c’è un Uno, o Sé interiore, che li sintetizza a priori; e ciò supera d’un balzo un relativismo assoluto il quale è necessariamente nichilista in modo selvaggio, che in fondo oggi ci prende d’assedio tutt’attorno. In altre parole il politeismo psichico, il fare troppo conto dei “molti” archetipi personalizzati (“dèi”), è secondo me anche troppo prossimo ad una mente in frantumi, un po’ schizoide se non proprio schizofrenica (a rischio di follia vera). E, però, il monoteismo tradizionale, del Dio trascendente personale, o è poco credibile, o non è più creduto da moltissimi, compresi i tanti che vi credono in modo così blando da cambiare poco o nulla della loro vita, come se fosse un brodino interiore. Si chiama o ateismo di massa o comunque secolarizzazione (un pensare, in ogni ambito, in modo secolare, cioè come se Dio non fosse). È così dopo dopo la “morte di Dio” (Nietzsche) e la religione “oppio dei popoli” (Marx), dopo le rivoluzioni della scienza e il connesso “disincanto” universale. Mentre il divino come esperienza psichica monoteistica ma di tipo immanente, o psicologicamente immanente – in sostanza come realtà del Sé, cioè di un quid che in noi è come un punto senza spazio né tempo aperto a tutto il mondo, ed aperto a noi stessi se ne facciamo profonda esperienza, o ne sentiamo almeno l’allure – è totalmente credibile e possibile; ed è, in termini psicologici, qualcosa che fa bene, ad esempio in quanto in termini esistenziali relativizza la morte. Pare, anzi, che questo fosse il senso degli antichi misteri. In fondo, se non erro, anche la psicologia analitica vi si connette, e non certo “appena appena”. E questo per chi la viva e mediti in interiore homine – da solo, con uno psicologo analitico o anche in gruppo – non è male. Persino per passare magari oltre, ad esempio ad una più serrata riflessione filosofica o cosiddetta scientifica.

di Franco Livorsi

  1. Il presente testo è la rielaborazione della relazione da me tenuta al convegno annuale, sulla psiche e l’Oriente, del Centro Italiano di Psicologia Analitica (CIPA), sabato 21 ottobre 2023 a Torino.
  2. Per molti dati biografici, soprattutto sino al 1913, rinvio pure a: F. LIVORSI, L’avventura di Jung. Romanzo verità, Falsopiano, Alessandria, 2012.
  3. C. G. JUNG, Psicologie e patologia dei cosiddetti fenomeni occulti (1902), in “Opere”, I. Studi psichiatrici, Bollati Boringhieri, 1982, pp.15-98. Di Arthur SCHOPENHAUER naturalmente è da vedere soprattutto. A. SCHPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione (1818, ma 1819), a cura di S. Giametta, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2002, due volumi. I nessi tra cieca volontà di vita e sessualità sono già evidenziati nell’opera, fondamentale tanto nella formazione di Freud che di Jung, per non dire di Thomas Mann. Di F. NIETZSCHE è sempre decisivo: Così parlò Zarathustra (1883/1885), Longanesi, Milano, a cura di L. Scalero (ne “Il meglio” 1956 e poi in volume autonomo 1979). Ma per la teoria della volontà di potenza si veda soprattutto, dello stesso F. NIETZSCHE: Al di là del bene e del male e “Scelta di frammenti postumi 1885-1886”, Adelphi, Milano, 1987 (nell’ambito della grande edizione internazionale a cura di G. Colli e M. Montinari); Il crepuscolo degli idoli (1887) insieme a: “Scelta di frammenti postumi 1887-1888”, ivi, 1970. Si veda pure: C. G. JUNG, Lo Zarathustra di Nietzsche. Seminario tenuto nel 1934-39, a cura di J. L. Jarrett, 1988 (postumo) e, a cura di A. Croce, Bollati Boringhieri, 2011/2013, quattro volumi, che si può confrontare pure con: F. LIVORSI, Dialogo tra Jung e Nietzsche sul problema dell’individuazione, “Rivista di psicologia analitica”, n. 30, vol. 90, 2014, pp. 193-206; Il filosofo e il suo analista. Sei anni di seminari di Jung sul “Così parlò Zarathustra” di Nietzsche, “l’Ombra”, Moretti & Vitali, n. 5, 2015, pp. 9-31.
  4. C. G. JUNG, Trasformazioni e simboli della libido, 1912, poi: Simboli della trasformazione (1952), in: “Opere”, cit., vol.5, 1970.
  5. Per l’edizione cit. de Il segreto del fiore d’oro, oltre a queste indicazioni si veda la n. 1. Ma si veda pure: C. G. JUNG, Il libro rosso. Liber novus (1913/1928, ma con Poscritto del 1959 che ne spiegava l’interruzione), 2009 (postumo), a cura e con Introduzione di S. Shamdasani, con Prefazione di U. Hoerni, tr. di M. A. Massimello, G. Schiavoni e G. Sorge, Bollati Boringhieri, 2010.
  6. C. G. JUNG, Il libro rosso. Liber novus (2009, postumo), a cura e con Introduzione di S. Shamdasani, con Prefazione di U. Hoerni, tr. di M. A. Massimello, G. Schiavoni e G. Sorge, Bollati Boringhieri, 2010. Si veda pure: F. LIVORSI, Morte e rinascita di “Dio” nel “Libro rosso” di Carl Gustav Jung, “Anima e Terra”, a. I, n. 1, aprile 2012, pp. 21-43.
  7. J. HILLMAN – S. SHAMDASANI, Il lamento dei morti. La psicologia dopo il Libro rosso di Jung, Bollati Boringhieri, 2014.
  8. Si vedano ad esempio le pagine di A. Romano in: AA.VV., Caro Hillman … Venticinque scambi epistolari con J. Hillman, a cura di R. Mondo e L. Turinese, con Prefazione i S. Ronchey, Edizione LSWR, 2021.
  9. C. G. JUNG, Tipi psicologici (1921), in “Opere”, cit., vol. VI, 1921.
  10. F. FAGGIN, Irriducibile. La coscienza, la vita, i computer e la nostra natura, Mondadori, Milano, 2022. L’autore è l’inventore dei microprocessori.

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