Note e riflessioni sulla crisi della democrazia e della sinistra nel XXI secolo

Il mio amico Giuseppe Rinaldi il 6 aprile ha pubblicato qui un saggio importante: Prolegomeni a una nuova sinistra. Si tratta di un apporto di prim’ordine su temi decisivi, che non dovrebbe essere lasciato cadere. In una riunione di “Città Futura” ho proposto di considerarlo come introduzione a un dibattito su crisi della sinistra e della democrazia nel nostro tempo. Magari potrebbe pure coinvolgere nostri collaboratori vicini o lontani, o che si sono allontanati. Un tema analogo è stato nei giorni scorsi oggetto di un interessante articolo di Filippo Orlando qui. Propongo, di seguito, la mia “vision” sugli stessi temi, provando a dialogare con “l’introduttore”. Si tratta di una riflessione un po’ ampia, che però spero risulterà chiara e costruttiva.

Rinaldi , come poi Orlando, assume come punto di partenza un piccolo libro di Aldo Schiavone (Sinistra? Un manifesto, 2022), che però Rinaldi approfondisce andando pure ad altri testi dello stesso autore e facendo molte riflessioni proprie.[1] Mi pare che egli sia colpito soprattutto dai seguenti punti:

1) La presa d’atto del fatto che il mondo di cui il marxismo era stato non solo, e forse non tanto, l’ideologia, quanto “la cultura” (come aveva detto Sartre in Questioni di metodo, all’inizio di Critica della ragion dialettica[2]), è finito; e che perciò viviamo non solo nel post-comunismo, ma anche nel post-socialismo. Questo vale (o varrebbe) particolarmente in Italia, Francia e Germania, ma forse pure più in generale, nel senso che anche i molti movimenti socialisti non marxisti sono stati influenzati dalla cultura marxista (ad esempio da opuscoli, saggi, libri di tale matrice, anche non espressamente rivendicata, o persino rifiutata). Non abbiamo neanche più, insomma, l’orizzonte culturale comune in cui discutere. La mancanza di quest’humus comune – certo frutto di ragioni sociali e storiche profonde – relativizza totalmente, o supera (o supererebbe), l’idea stessa del socialismo come nuovo sistema sociale, o fosse pure come nuova civiltà dei lavoratori, in cammino più o meno necessariamente sulle strade della storia del mondo. Ma senza un ideale da realizzare, che non si esaurisca nei pur fondamentali primi articoli della nostra Costituzione, grazie al Cielo ormai “detti” buoni da tutti quelli che stanno in Parlamento, che senso ha dirsi partito? E infatti, poiché il fenomeno del venir meno delle grandi narrazioni non concerne solo l’area che si era mossa nell’orizzonte del socialismo, ma pure quella degli altri “orizzonti comuni”, in Italia la gente o si astiene dal voto addirittura come maggioranza relativa degli aventi diritto, oppure tra un’elezione e l’altra sposta il voto non solo su partiti contigui ma persino opposti, come in Italia dal 1946 al 1993 non era mai accaduto. Oggi essa valuta tutto e tutti sul piano pratico spiccio, nella logica di quel tale che cantava “Questo o quello per me pari son”. C’è qualcosa di profondamente malato in tutto ciò, da non condannare moralisticamente, ma da capire e superare. Ammesso che sia ancora possibile.

2) Al posto dell’orizzonte ideale comune marxista e socialista, emerge, o emergerebbe, l’attualità epocale della democrazia, che Schiavone connette al substrato universalmente umano che ci unisce facendoci essere, in ogni singolo individuo, un che di universalmente umano: membri della specie prima che individui già interiormente: “uomo generico”, ossia appartenente al genere umano, come aveva detto il Marx quasi anarco-comunista dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, pure citato. Questa premessa sull’uomo universalmente umano e prima specie che individuo derivava dall’idealismo di Hegel, ma Marx connetteva ad essa l’ideale di un assetto in cui tutto fosse “di tutti”, senza classi e senza Stato, detto comunismo come realizzazione vera dell’essere dell’uomo.[3]

Schiavone, e Rinaldi con lui, ricava invece, dalla premessa dell’universalmente umano, e della specie in ciascuno, il carattere naturalmente umano del decidere tutti insieme, cioè della democrazia, che poi storicamente è risultata essere la democrazia liberale, perché ogni altra si è subito convertita in dittatura.

3) Questo oppone “naturalmente” la democrazia ad ogni forma di autoritarismo o di totalitarismo, di destra come di sinistra (in fondo “innaturale”). La democrazia assume cioè un valore antropologico. Su tale base – anche al passato, ma tanto più al presente-futuro – avremmo il criterio per dire: “democratico” è “buono”, e non democratico “no buono”. A me non sembra una filosofia diversa da quella implicita nel Partito Democratico nostrano. Ma ciò, qui, poco importa. Schiavone e Rinaldi direbbero che il Partito “Democratico”, “veramente democratico”, non c’è, o non c’è ancora, ma non mi persuaderebbero perché si sa che nella prassi le migliori idee sono sempre un’incompiuta.

Ora in me sarebbe grande la tentazione, persino professionale, di vagliare queste tre tesi alla luce della storia della filosofia, della storia del pensiero politico e pure della storia contemporanea. Ma per non dilagare più del necessario (che sarà già tanto), in proposito mi limiterò a un cenno, precisando:

1) che in filosofia l’idea che l’universalmente umano o uomo-specie viva in ogni singolo è strettamente imparentata con il Logos hegeliano immanente in ciascuno come pensiero infinitizzante, “divino” nel “veramente” umano; e pure con la teoria degli archetipi di Jung, ed ora anche con la nozione post-materialistica di “Coscienza”, sconfinante nel misticismo, presente nell’ultimo libro dell’inventore dei microprocessori, Federico Faggin, Irriducibile. La coscienza, la vita, i computer e la nostra natura (2022)[4]. Ma io stesso non ho detto nulla di diverso né in Il Rosso e il Verde. L’idea della liberazione sociale, ecologica e spirituale dal XIX al XXI secolo (2021) né in Psiche e eternità. Alla ricerca del dio perduto (2022 ma 2023)[5]. Per cui mi complimento per la concordanza, o almeno convergenza filosofica, “tra noialtri”;

2) che nella storia del pensiero politico l’evoluzione delle idee va dall’assolutismo al liberalismo (e federalismo), e poi alla democrazia, e più oltre al socialismo e comunismo, inseguiti e contrastati dai fascismi, e poi all’ecologismo, che considero come il nuovo “ismo” en marche, nella mia “vision” o erede o destino del nuovo socialismo: per cui la riscoperta della democrazia liberale come un che di universale non sembra essere prospettica, ma retrospettiva, ad esempio dicendoci come grandi novità cose che John Stuart Mill aveva già spiegato benissimo[6], proponendo, tanto in filosofia politica che nell’economia sociale, un liberalismo democratico sociale già bello e maturo;

3) che comunismo e nazifascismo hanno storie diverse, essendo stato il comunismo anche una grande speranza e prova di nuova democrazia (fallita in Russia già nel 1921, ma con molte riprese “eretiche” intorno al Sessantotto e sino a tempi recenti); e avendo il comunismo, pure in salsa sovietica, fatto “qualcosa” per far finire Hitler nell’abisso; e che se è vero che c’è un totalitarismo che accomuna rossi e neri, la storia li ha divisi spesso in modo totale. Naturalmente l’amico Rinaldi lo sa, ma ricordarlo per tutti non è male;

4) che vedere una sola forma politica, la democrazia (o il democraticismo) come “buona” per tutta l’umanità – e questo è il punto di discrimine tra noi decisivo politicamente – è sempre stato falso, dal mondo antico ai giorni nostri, perché le circostanze storiche e le vicende socioculturali sono così varie che tutti quelli che hanno pensato di fare indossare a tutti lo stesso vestito – fosse esso assolutista, liberale, democratico, comunista o fascista, o anarchico – hanno spesso prodotto frutti marci: tanto che con i venti gelidi che spirano sul mondo sarà un miracolo se a breve gli opposti unilateralismi non ci porteranno a una nuova grande guerra europea o mondiale. Sull’onda di quella russo-ucraina d’oggi, sempre più pericolosa.

Sono però questioni molto complesse, che io preferisco affrontare in una chiave un po’ diversa, più politica e credo anche più filosofica (alla fine). Partiamo dalla realtà “bella grossa”, che ci colpisce come un forte pugno nello stomaco. È impossibile non vedere che tutto il vento della storia nel XXI secolo è cambiato, tanto che la democrazia, pure in senso liberale sociale come ci piace, è sotto attacco in una misura senza precedenti neanche negli anni Venti o Trenta di un secolo fa, anche senza che siano in circolazione tipi come Mussolini e Hitler “al potere” (ma i regimi di Iran, Russia e Cina non sono uno scherzetto nella Storia d’oggi, per richiamare solo i casi di autoritarismo planetariamente più rilevanti).

Abbiamo avuto nella patria mondiale della democrazia e del capitalismo, gli Stati Uniti, un presidente come Donald Trump, che magari non sarà il delinquente che i suoi avversari vogliono raccontare, ma che, comunque, ha incarnato e incarna un repubblicanesimo di destra populista senza precedenti, con punte eversive rilevanti, che non sono spente, e sono risultate – persino nell’ora della sconfitta – rappresentative di mezza America. Il trumpismo sta sempre lì con l’arme al piede. Per ora è stato sconfitto da un ottuagenario avanzato, che vuole pure ripresentarsi (Biden).

Abbiamo pure visto (e anzi vediamo) le “democrature”, ossia forme ibride tra liberal-democrazia e dittatura, assetti segnati dallo strapotere del potere governativo senza che la libertà di voto sia intaccata, affermarsi in Turchia, in Ungheria, in Polonia, e per me possiamo scommettere l’osso del collo che sia e sarà della stessa stoffa – un’altra Polonia – pure l’Ucraina di Zelensky, quali saranno i suoi confini quando questa trista, triste e internazionalmente pericolosa guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina sarà finita. Francia e Germania forse non hanno ancora capito che presto, se tutto va bene, cioè male, l’area che dalla Polonia va all’Ucraina e che ora comprende pure Svezia e Finlandia potrà bagnare il naso anche a loro (quell’area è l’Europa di domani nello scacchiere mondiale). È questo a rendere realistico il progetto europeo di Giorgia Meloni di realizzare dopo le elezioni europee del 2024 un’Unione Europea non più basata sulla diarchia tra democristiani e socialdemocratici, ma sul centrodestra (e in prospettiva il destra-centro), cioè sull’alleanza tra democristiani e destra parlamentare conservatrice. Questo è l’avversario di domani, per la sinistra.

Abbiamo visto in Italia affermarsi un partito come quello di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia, che anche senza voler esagerare il peso dei cromosomi fascisti è un partito nazionalista di destra democratica con basi di massa. E in Francia non è ancora capitato perché la sapiente costituzione voluta da de Gaulle in vigore dal 4 ottobre 1958 – oggi acciaccata perché ha sessantacinque anni – è costruita in modo tale da rendere molto difficili processi del genere (e inoltre c’è sempre, in campo, il popolo francese, la cui vocazione all’azione politica di massa in prima persona è un fattore storico specifico dal 14 luglio 1789). E poi abbiamo diversi paesi importanti tendenti all’autoritarismo estremo, come l’Iran, e naturalmente la Russia di Putin e la Cina di Xi Jinping, e parecchi altri.

Allora in primo luogo bisognerebbe chiedersi perché tutta questa lunga marcia della destra populista abbia potuto realizzarsi. Insomma, perché vince o è comunque così forte in campo?

Poi perché non ha invece vinto la galassia, pur variegata, delle forze della sinistra e anche della sinistra-centro?

Infine su tale base si dovrebbero porre i nuovi Prolegomeni di una sinistra POSSIBILE e VINCENTE. Tre istanze mica da poco, compagni miei. Ma o si passa di lì o si seguiterà a prendere colpi in testa.

Il contesto è dunque il primo punto da considerare. Naturalmente va evitata una spiegazione monocausale. Più o meno, a me pare che le cose siano andate nel modo seguente.

C’è stato il crollo del cosiddetto comunismo nel lontano 1989-1991 da Berlino a Vladivostock. Questo ha contato non tanto in sé perché da tanti decenni si sapeva che da quelle parti comandava da decenni e decenni una burocrazia autoritaria povera d’anima, ma era sempre si sperato che essendo il sistema statalista una reazione intrasistemica un giorno avrebbe posto fine alla “degenerazione burocratica (come l’aveva detta Trockij, alimentando la grande speranza di tutti che il burocratismo liberticida e che tutto frenava fosse solo una malattia di un sistema socialmente avanzato[7]); ma, soprattutto, quell’incredibile crollo su se stesso di un impero mondiale sovietico – che tra Stalin prima, e Hitler dopo, era costato almeno trenta milioni di morti russi o sovietici, e le cui armate nel 1945 erano giunte sino a Berlino – pose fine all’ordine mondiale stabilito dalle potenze vincitrici a Yalta verso la fine della seconda guerra mondiale, e che concerneva TUTTO quello che accadeva in una vasta area comprendente tutto il mondo americano, europeo e eurasiatico, caratterizzato da due aree d’influenza in cui i poli russo e americano, pur minacciandosi e facendosi continui dispetti, rispettavano l’area avversaria. In sostanza due potenze rappresentative di sistemi sociali-politici creduti opposti garantivano il cosiddetto ordine mondiale, almeno in una vasta area del mondo: allora con continui lamenti, dalla Cina di Mao alla contestazione di sinistra europea, contro tale duopolio imperialistico americano-russo. L’implosione del comunismo da Berlino a Vladivostock tra 1989-1991 fece finire il “mondo di Yalta”. Nel 1991 il mondo parve diventato monopolare (“amerikano”), come in sostanza sostenne un importante politologo giapponese-americano, Fukuyama[8]; ma l’America non sapeva o non poteva esercitare tale ruolo, per cui dopo di allora il mondo è diventato sempre meno governato; è ricominciata la competizione senza ammortizzatori tra tutti gli Stati del mondo, che ci ha portato via via, tramite guerre sempre più pericolose, a un passo dalla terza guerra mondiale.

Intanto avveniva una rivoluzione industriale nuova e non meno importante della prima e seconda, ora di tipo elettronico e quindi informatico, e basata sull’automazione, che non solo poneva fine alle grandi fabbriche basate sulla forza lavoro come massa appena minimamente acculturata, e quindi anche ad una sorta di “mondo operaio” omogeneo che aveva avuto una lunga storia sociopolitica socialista e comunista o similare, ma rendeva e rende: sempre più precario il lavoro; sempre più brevi le distanze tra popoli; sempre più intercomunicanti uomini e informazioni, in inglese. Forse l’intelligenza artificiale potrà abolire una parte cospicua del lavoro umano, rendendo il tempo non-lavorativo più rilevante e importante di quello lavorativo. Sembra che il tempo libero sia destinato ad essere, nell’insieme, più ampio e importante del lavorativo. Abbiamo già chi, come Maurizio Ferraris in Documanità. Filosofia del mondo nuovo (2021) – talora come il Pangloss satireggiato da Voltaire, che in Candido, o l’ottimismo (1759) se la prendeva col genialissimo Leibniz – inneggia spesso al migliore dei mondi possibili.[9] Potrebbe anche esserlo, se il processo fosse “governato”; ma siamo in un mondo che ha persino perso i punti centripeti comuni; siamo in un mondo in cui tutti gli stati e tutte le economia competono con tutti, molto più che nel secolo scorso. Dopo il facile entusiasmo “riformista” per la globalizzazione “come opportunità”, è tornato il protezionismo, con annessi sovranismi nazionali, ed è tornata la guerra in Europa; e gente come Putin e Biden ci possono gettare, ammesso che non ci abbiano ormai gettato, nella tragedia mondiale.

E poi lo sconvolgimento globale ha pure incentivato in modo senza precedenti il fenomeno incontenibile della migrazione dei popoli. Si parla di cento milioni di persone che nei prossimi decenni arriveranno dall’Africa. Chi potrà fermarli?

Il tutto, poi, ha via via reso tragico, o comunque assai drammatico, un fenomeno dell’inquinamento che dura dalla prima rivoluzione industriale, ma che aggravandosi di continuo ci ha portati quasi alla rovina. L’eccesso di emissione di anidride carbonica ha determinato l’effetto serra, bucando in più punti il sottile strato di ozono che protegge la terra dalla sovraesposizione ai raggi solari, con cambiamenti climatici rovinosi che ormai si toccano con mano, come si è visto nei giorni scorsi in Romagna. Certo hanno pesato, anche nella regione d’Italia da sempre meglio governata, i limiti del potere pubblico nel nostro Paese, ma la questione è appunto planetaria, anche se sempre dipendente dall’uomo, che Morin e la Kern già nel 1993 dicevano sapiens demens.[10]

Questo ha spiazzato tutta la geografia politica tradizionale, specie a sinistra, dove sono saltate o comunque si sono ridotte, tutte le forme tradizionali di Welfare State, che nel migliore dei casi sono sulla difensiva e non si espandono.

Ora la destra nell’insieme ha saputo rinnovarsi di più, ripensando un centralismo di governo senza dittatura, e un nazionalismo senza fascismo, e soprattutto un sovranismo reso attuale sia dalla crisi degli imperi russo e americano, sia dai problemi urgenti da gestire. Naturalmente il passato lascia sempre qualche residuo, ma il centro e la forza propulsiva non sono lì. Certo occorrerebbe andare molto più a fondo. Bisognerebbe studiare più seriamente i vari Alain de Benoist (Nuova Destra francese), Steve Bannon (Nuova Destra americana, ma con tendenza internazionale) e Aleksandr Dugin (Nuova Destra russa)[11]; ma bisognerebbe farlo non solo e non tanto per scoprire i nuovi fascisti nascosti nell’ombra (o soprattutto quelli), ma gli ideologi della nuova destra nazionalista-populista all’attacco, con e senza democrazia. Tra noi civesfuturi in parte Rinaldi lodevolmente lo fa. E fa bene non già perché questi, o altri consimili, siano chissà quali pensatori politici, ma perché sono ideologi di movimenti politici di massa reali, anche quando l’area sociale che accoglie i messaggi del genere arrivi a saperne qualcosa di seconda o terza mano, come spesso accade nella diffusione delle idee politiche nella storia.

La mia impressione è che la sinistra mondiale abbia sì intellettuali anche di maggior rilievo, e molto migliori libri nuovi, ma non più ideologi politici che la rappresentino e in cui i militanti quantomeno dirigenti intermedi, che in politica sono sempre stati decisivi, si riconoscano, come un tempo era stato con i grandi leader intellettuali come Marx e Engels, Lenin o Rosa Luxemburg, o lo stesso Mao, o Gramsci, o tanti altri compresi i vari Herbert Marcuse, Lucio Colletti (prima della conversione a Forza Italia) o Althusser, eccetera.

In sostanza la sinistra – credo pure nel mondo – come area politica sembra essersi riformata solo per sottrazione: via Marx, Lenin e Rosa Luxemburg; via Mao; via Gramsci ( o meglio “Gramsci in naftalina”); via il marxismo (e talora in naftalina anch’esso); via il potere operaio; via il socialismo (ormai identificato da tanto tempo con il liberalismo di sinistra); via il comunismo: come se fare una sorta di graduale spogliarello ideologico, senza cambiare alcun abito (o abitudine), non lasciasse alla fine la sinistra nello stato descritto nella bella favola di Andersen I vestiti nuovi dell’imperatore, in cui taluni sarti imbroglioni avevano finto di fare un vestito invisibile al sovrano, che così se ne andava in giro senza niente, complimentato dai cortigiani, finché un bimbo non disse: “Ma il re è nudo!”[12]. Sono stati lasciati cadere tutti i riferimenti, talora retoricamente ricordati (dai più “colti”). E ho taciuto dei grandi socialisti del passato, come Filippo Turati e per me Rodolfo Mondolfo, o come Rodolfo Morandi, Lelio Basso e Vittorio Foa, e Riccardo Lombardi, che per il 95% sono nomi sconosciuti, e per gli altri, i “fedeli”, gli ultimi dei mohicani, ormai sono spesso santini. Tutti questi, da Marx a Riccardo Lombardi, sono più lontani oggi di quanto Garibaldi o Mazzini lo fossero per noi da bambini.

Naturalmente non c’è solo un limite grave di cultura politica, ma ci sono pure ragioni storiche profonde. Il punto chiave è il fatto che nazionalismo e sovranismo sono più facili da rilanciare del grande pensiero socialista e democratico, del federalismo europeo e internazionale, del riformismo sociale ed ecologico, e dei nuovi termini della questione sociale, che ruotano attorno al trovare lavoro, averlo stabile, e accogliere i migranti. Se la cavano meglio i nuovi diritti individuali, che però danno fastidio ancora a troppa gente.

Fare una destra che metta in soffitta il fascismo è meno difficile che fare una nuova sinistra. Infatti la “democratura” la Destra l’ha fatta. Il sovranismo ha più “ascolto” presso “il popolo”. Infatti si basa su un diffuso egoismo nazionale, o fosse pure europeo, che chiude la porta o mette in gran sospetto lo straniero, il diverso, le minoranze emarginate d’ogni genere, e vuol difendere i vecchi valori e cittadini. Persino il far leva su un bisogno di non avere immigrati concorrenti, o comunque sentiti come “diversi”, troppo a ridosso nei propri quartieri, attrae.

Perché la sinistra, in senso più specifico ancora, non ce la fa a rinnovarsi?

Perché per fare un partito, come sappiamo da cento anni (almeno dal Che fare? di Lenin, del 1902[13]), ci vuole una grande idea ritenuta vera, come ideale comune cui arrivare o almeno avvicinarsi (come “furono” sia l’idea comunista che quella socialista); e ci vogliono capi veri (che non nascono come i fagiolini, e che la sinistra italiana quando emergono s’impegna presto a “far fuori”); ci vuole organizzazione stabile, non diciamo come un’azienda (leninista), ma come una grande cooperativa veramente democratica, emiliana; ci vuole un programma condiviso almeno a grandi linee che non sia un libro dei sogni, ma neppure la legge da fare il mese dopo.

Ci vorrebbe pure un grande mito fondativo (o rifondativo), come fu la società senza classi, o il “riscatto del lavoro”, o il “sol dell’avvenire” alle origini del socialismo o – come lo chiamava Gramsci – il “mito del Nuovo Principe”[14], che era poi il Partito, nel movimento comunista. Forse il mito del futuro sarà il mito della nuova terra (come io l’ho definito in un mio libro del 2000 sull’ambientalismo)[15], o forse quello della libertà di tutti e per tutti. Si vedrà, ma ora il grande mito “riformatore” di cui la sinistra ha sempre bisogno, come la destra con i miti suoi, latita. Ci sono o miti su cui giura pure Ignazio La Russa (Costituzione), e la sincerità del giuramento può interessare sua moglie; oppure ci sono ex miti, miti spenti o quasi, con cui si fa poca strada. “Fratelli d’Italia” e il coevo mito della nazione sono un che di vecchio, come forse ogni mito, ma che nel vuoto generale ha trovato i suoi estimatori (è l’antico mito della terra natia, che può essere una forza dello spirito per liberarsi da stranieri oppressori, ma che diventa pericolosissimo se si accompagna a propositi di esclusione di nazioni o etnie altrui, come spesso nella Storia, ottenuta la liberazione nazionale, può capitare ed è capitato). Così tra Ucraina e Russia oggi possiamo vedere due nazionalismi in lotta, ma uno è per liberarsi da un popolo ora ritenuto straniero invasore e l’altro è un nazionalismo imperialistico.

La rinascita ideal-politica della sinistra, però, è più complessa (lo ribadisco). Per ritrovare l’anima perduta la Sinistra oggi dovrebbe interiorizzare l’idea degli Stati Uniti d’Europa, nel senso del fare di essa i nostri Stati Uniti (e da ciò siamo sempre più lontani, tanto più in questa guerra russo-ucraina, in cui siamo la solita ruota di scorta degli Stati Uniti). Dovremmo cercare di avere una politica del lavoro che incentivi le assunzioni a tempo indeterminato. Bisognerebbe lottare contro quelli che stanno minando l’unità d’Italia, tornando indietro rispetto al mutamento dell’articolo 5 della Costituzione voluto in modo demenziale dal PD di Bassanini anni fa, e dicendo dei no secchi al cretinismo di chi, cosciente o meno, vuol disfare l’Italia (e se a ciò non si oppongono i “fratellini d’Italia” saranno falsi “patrioti”, e in primo luogo “su questo” andrebbero snidati). Bisognerebbe stare dentro il disagio sociale, tornando a lavorare tra e per disoccupati, sottoccupati e immigrati, per fare un mondo altro. Diciamo, per essere realistici, che almeno alcune tra tali cose andrebbero fatte.

Gli “altri”, i “destri” o “centrodestri”, invece sono facilitati perché la loro linea consiste nel rifare gli Stati nazionali sovrani (che c’erano, e ci sono, per cui basta ristrutturare la casa, o “la facciata”); chiuderli il più possibile; blandire le tendenze al ritorno alla tradizione e pure xenofobe, riprendendo la linea Dio, patria e famiglia. In sostanza la nuova destra riprende il populismo di destra e il sovranismo e li contrappone al nuovo che disturba o fa concorrenza sul lavoro, nel quartiere, nella vita sessuale, nella relazione con Stati di un campo esterno. In fondo sfrutta le resistenze che un mondo nuovo che non si può fermare, ma si vuole almeno frenare e decelerare, suscitano in tanta gente, piccolo borghese, ma anche proletaria, e ancor più sottoproletaria ma di vecchio insediamento. Il compito della sinistra, in sostanza, è più complesso di quello dei conservatori e reazionari.

Ultimo punto, concernente l’Italia. Il nostro Paese è uno straordinario laboratorio per tutti, dal 1300 ai giorni nostri. Lo diceva già Engels nel 1894 nella Prefazione al terzo libro del Capitale di Marx[16]. Dal Rinascimento all’Illuminismo, da Giordano Bruno a Cesare Beccaria, da Carlo Cattaneo a Giuseppe Mazzini, eccetera eccetera, qui di cose ne sono state fatte. Anche a sinistra quel che hanno fatto i socialisti più o meno dal 1890 al 1920 e poi soprattutto dal 1956 in poi non è stato poco, neanche per il pre-Welfare State (all’ombra di Giovanni Giolitti) e Welfare State (all’ombra di Fanfani e Moro). Qui – dopo quelli di Russia e Cina – c’è stato il più importante comunismo del mondo, con Bordiga Gramsci, e poi soprattutto Togliatti, politico forse un tantino cinico, quasi uomo tragico nel suo realismo politico, ma politicamente geniale. E qui è nato pure il fascismo, disgrazia per ogni democratico, ma comunque di significato internazionale. E poi ci sono stati statisti come De Gasperi e Moro. Tuttavia proprio le identità forti sono le più difficili da mutare. Così è la sinistra. (Ma forse vale persino per il cattolicesimo democratico, la “democrazia cristiana”).

Il primo grande errore è stato commesso dai fautori di una terza via tra leninismo filosovietico e socialdemocrazia: una terza via che non esisteva, e bisognava capirlo subito e farsene una ragione. Già all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso. Costoro – da un grande uomo morale, ma modesto leader epocale, come Berlinguer, a Occhetto, e sino al 1991 D’Alema – non avevano compreso che arrivati ad essere votati da un italiano su tre (1975) la rottura traumatica con l’URSS era improcrastinabile anche solo di un giorno, mentre con molta cautela il cosiddetto “strappo” dall’URSS – non detta non-socialista e imperialista neanche allora, ma priva di “forza propulsiva” – arrivò solo nel 1982, dopo l’assassinio di Moro (1978) quando il compromesso storico era già fallito almeno da tre anni, e nella Storia quando il treno ha fischiato ed è passato per il viaggiatore sono guai. Questo errore fu fatale. Quest’errore, una volta commesso e consolidato, fu irrimediabile.

Il secondo grande errore, coevo, consistette nel non capire che dopo il PCI poteva esserci solo un grande partito socialista e democratico senza se e senza ma (come nel mondo reale ovunque), un partito socialista e democratico, eventualmente persino senza Craxi, che desse alla svolta dello scioglimento del PCI uno sbocco positivo, da “scissione di Livorno alla rovescia”, possibilmente di ri-unificazione di tutta la sinistra, che sarebbe stato certo accettabile per il 90% dei comunisti e degli stessi socialisti, che per molte ragioni non avrebbero neanche potuto sottrarsi. Persino oggi questo errore sarebbe rimediabile, anche se tornare indietro, riproponendo un’idea socialista, certo da rinnovare, come base comune, sarebbe fondamentale. Per avere un futuro, amici miei, bisogna anche avere un passato. Non per piangerci sopra di tanto in tanto dicendo “Com’era bravo Riccardo Lombardi”, “Com’era bravo Vittorio Foa”, “Com’era bravo Enrico Berlinguer”, rimuovendo magagne ed errori del passato come in ogni “Amarcord”, ma per connettersi a grandi idee-forza da riscoprire e da rinnovare per il futuro, senza le quali si resta ripiegati sui problemi del giorno, senza alcuna identità ideal-politica.

Il terzo grande errore consistette e consiste nel non capire quel che a modo loro hanno capito i sovranisti: che la riforma dello Stato, tanto più in un Paese sgovernato come il nostro, è la prima riforma di struttura da fare. Rendere stabile il governo dello Stato tra una legislatura e l’altra è più importante per i lavoratori che per tutti gli altri. Affaristi e banditi d’ogni genere, evasori fiscali grandi medi o minuscoli, hanno bisogno di governi deboli, che chiudano gli occhi al centro come alla periferia, compresa una giustizia che ci metta dieci anni per fare un processo penale. La sinistra da tanti anni ha l’interesse a far funzionare lo Stato avendo perciò un governo democratico forte e stabile, perché proprio la sua base di massa è più penalizzata dall’impotenza dei governi, impotenza che cresce addirittura nel tempo. D’istinto il suo popolo l’ha capito, e alla fine ha cercato la soluzione altrove. L’ingovernabilità del Paese dà il vero alibi alla destra. È sempre stato così.[17]

Per molti anni nella prima Repubblica la debolezza cronica dei governi – voluta dapprincipio dai costituenti perché allora l’area moderata intorno alla DC temeva il colpo di stato comunista in caso di vittoria elettorale di una sinistra in gran parte stalinista e in quella di sinistra temeva quello clerico-fascista – era servita alla sinistra per avere una rendita d’influenza in campo avversario, tanto che venuto a preparare il convegno nazionale sulle lotte di massa del 1969, incontrando l’Esecutivo Regionale del PSIUP a Torino, il vicesegretario nazionale del PSIUP, Dario Valori, ci diceva che la sinistra in Italia aveva sempre “avuto bisogno di governi deboli e movimenti di massa forti”.

Altri tempi, già inattuali almeno dal 1975 in poi, dopo che la diga dello strapotere moderato democristiano era caduta in seguito a decenni di opposizione di sinistra, e per la contestazione operaia e giovanile tra Sessantotto e Autunno caldo. Da allora l’ingovernabilità fece malissimo alla sinistra e benissimo al centrodestra. I governi deboli resero difficile da sconfiggere pure il minuscolo terrorismo delle opposte fazioni, anche se alla fine ovviamente sbaragliato. Ma la faccenda ormai dovrebbe essere compresa a sinistra pure da sordi e ciechi, se ancora vi fossero forti élites politiche come un tempo.

Per fortuna abbiamo una società civile molto vitale e antica, ma i pubblici poteri sono troppo spesso anchilosati, per questo i servizi funzionano come funzionano, le opere pubbliche non finiscono mai, costano troppo o sono fragili o mal gestite, il lavoro nero e l’evasione fiscale sono abnormi, e la criminalità organizzata è in certe aree troppo forte. Ora, con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza concordato con l’Unione Europea abbiamo 200 miliardi di euro da spendere bene, ossia 400.000 miliardi di vecchie lire, da spendere, il che non ha avuto uguale dal tempo del piano Marshall subito dopo la Seconda guerra mondiale, come andrà a finire? Ce la faremo con uno Stato che funziona come da decenni funziona il nostro?

Sarebbe molto saggio rimboccarsi tutti le maniche facendo finta di non essere faziosi, anche per evitare che se chi è al potere eventualmente ce la farà da solo nasca un partito moderato di massa di durata democristiana, e in fondo equipollente della vecchia DC di destra, con “allure” nazionalista democratica.

Tutto questo è accaduto e accade perché la governabilità dello Stato, il darsi istituzioni che in un modo o nell’altro facciano venir fuori governi democratici di legislatura e messi in grado di decidere rapidamente ed efficacemente, ripugna troppo alla nostra sinistra. Abbiamo visto non solo bocciare le riforme del genere berlusconiane (ed era giusto fermare un Caudillo di destra liberale, ma sempre Caudillo), ma pure la riforma dello Stato di Renzi e del suo PD nel dicembre 2016. E poi abbiamo visto lo stesso PD e le varie famiglie della sinistra non già correggere i pasticci che conteneva la riforma Renzi – la mancata soglia almeno del 40% per accedere al premio di maggioranza al secondo turno, la mancata abolizione del Senato senza se e senza ma – bensì ritirarla come Partito dopo la sconfitta. E la stessa mancanza di politica riformatrice la vediamo ora sia in questa materia che sulla guerra russo-ucraina.

Ad esempio la destra ripropone il suo obiettivo storico della repubblica presidenziale, ma aprendo subito al premierato, a quanto pare sino al cancellierato. Per me non solo il presidenzialismo “alla francese” sarebbe un progresso (lo teorizzo dal 1990, come aveva pure fatto Gianfranco Pasquino)[18]; non solo mi era piaciuta l’idea del “sindaco d’Italia” di D’Alema e poi la riforma di Renzi del dicembre 2016, ma sono aperto a ogni dialogo su tale terreno. E pur avendo deplorato e deplorando ogni scissione dal PD, da sinistra come quella di Bersani e del mio amico Fornaro o da destra come quella di Renzi, persuaso che persino per chi dissente il farlo nella “casa madre” renda sempre di più per chi – pure a suo danno esce – oltre a fare il bene comune, sul dialogo in materia di riforme istituzionali sto con Renzi pure adesso.

Ho ascoltato la replica di Elly Schlein dopo un primo abboccamento col governo Meloni in materia, una Schlein che naturalmente paventa giustamente un vero gollismo in salsa Fratelli d’Italia, e sottolinea le obiezioni forti sull’elezione diretta del premier (che c’è solo in Israele e non dà o rafforza la stabilità), e può pure essere che in questo la figlia della mia ex collega di Dipartimento all’Università di Milano abbia ragione; ma se poi la proposta è la solita “sfiducia costruttiva” alla tedesca, la montagna partorisce il topolino. Intanto noi non metteremo mai una soglia del 5% come i tedeschi. Non abbiamo nulla di simile al principio di “lealtà costituzionale” posto nella Costituzione tedesca, in cui in caso di contrasto tra Regioni (lȁnder), o Camera dei lȁnder (là il Bundesrat, rispetto alla Camera dei deputati o Bundestag), vince sempre il Bundestag. Non abbiamo la Camera delle Regioni. E poi per moltissimi anni hanno dovuto ricorrere all’alleanza tra i due partiti più in alternativa, che da noi è sempre stata fonte di trasformismo e corruzione. Abbiamo persino un regionalismo dissociativo e sempre più dissociativo (da dissociati in casa). E poi non siamo tedeschi. Avrebbe senso dire dei bei no al riformismo presidenziale o semipresidenziale o al premierato solo se si proponesse come sinistra una grande riforma credibile: tipo un maggioritario a doppio turno con premio di maggioranza, che tra l’altro sarebbe la via per spingere in modo brusco i due campi per aggregarsi persino come partito, ricreando i partiti forti: partiti che nel XX secolo sono l’anima della democrazia. Ma non si farà, per angustia di visuale ideal-politica e pratica.

Questa chiusura al leaderismo è quello che ha reso così instabile il vertice del PD nel tempo. E la chiusura non solo al presidenzialismo, ma persino a un modesto premierato all’inglese, come quello tentato da Renzi nel 2016 (da razionalizzare, ma non da buttare nella pattumiera, né in quel referendum né dopo), è la ragione fondamentale delle disfatte del PD: disfatte rimediate a malapena con le manovre tattiche (governi “tecnici”), che però alla fine fanno il gioco di chi sta fuori da un trasformismo che non finisce mai, persino se abbia i cromosomi generali di Fratelli d’Italia. Perciò Renzi ora ha fatto bene ad aprire al dialogo in materia di riforme dello Stato, e dovrebbe farlo tutta la sinistra, non già per accettare il presidenzialismo, ma per contrapporre soluzioni forti valide per tutti. Come potrebbe certo fare.

C’è poi un ultimo punto chiave strategico. Nelle democrazie avanzate la sinistra vince solo con il centro, e il centro “riformista”, se davvero riformista, vince solo con la sinistra. Questo è assodato. Ora questo centro può essere “fuori dal partito” o dentro il partito. Se è fuori si torna alla Democrazia Cristiana (il che è ormai per molti motivi impossibile), e infatti dal 1994 in poi è sempre stato impossibile a tutti quelli che ci hanno provato, e lo sarà pure per il neocentrismo di Renzi o Calenda, che nel PD sarebbero stati preziosi, e fuori sono velleitari e concorrenti, e soprattutto force négligeable, marginali. Se poi il “centro” è dentro la sinistra – com’erano stati Prodi, ma pure Renzi – può essere un’ottima cosa, ma solo se esso accetta la cultura e i miti del socialismo democratico, e quest’ultimo accetta le riforme dello Stato coeve, la democrazia del leader. Noi abbiamo già la democrazia del leader, ed anzi semipresidenziale, in ogni Comune e nelle Regioni. Il non averla per l’Italia non funziona. O in forma di presidenzialismo o semipresidenzialismo o di premierato o premierato “all’inglese”, ciò s’imporrà. Se la sinistra non lo vorrà, magari riuscirà ad impedire all’attuale centrodestra di farlo, ma in tal caso preparerà il terreno perché il conservatorismo nazionalpopulista duri a lungo, rischiando di farlo diventare la nuova DC di centrodestra.

Non credo che il democraticismo, caro a Schiavone come a Rinaldi (e ieri a Veltroni), abbia un futuro. Non lo credo perché nella Storia, persino nolenti (e dopo vari zig zag), si innova sempre sul proprio humus. Altrimenti vengono a mancare le radici. A sinistra si può fare e si poteva fare solo un nuovo socialismo, che io ho definito rosso-verde (“socialismo + ecologismo”, e tra i due, nell’innesto, si vedrà chi darà “il la” nei tempi più lunghi).

Il discorso ha anche una portata ideal-politica, d’identità filosofica e culturale collettiva. Dopo lo scacco storico del marxismo, che era pure un materialismo economico e filosofico a rovescio rispetto a quello borghese dominante, la rivoluzione culturale possibile secondo me può essere solo spirituale. Persino “il verde” chiama una sacralizzazione della natura, che invece è stata considerata come un mucchio di spazzatura, come se gli animali fossero cose e i vegetali merda. E si è visto, con tale paradigma materialistico dove siamo arrivati.

Persino il Sessantotto vivo è stato solo una rivoluzione dei costumi, che cercava pure una rinascita dell’anima, un Oriente dello spirito, in America (ad esempio con la beat generation). Non è che si debba tornare al rosario sulla pancia, o a un cristianesimo tradizionalista, cui ridicolmente guardano persino taluni ex marxisti passati dalla ricerca del vero marxismo con Costanzo Preve all’apologia di Ratzinger, con giovanilismo ininterrotto, come Diego Fusaro in La fine del cristianesimo (2023)[19]. Ma l’istanza spirituale per me s’imporrà pure a sinistra, se questa resterà “in campo”, e non in un’eterna perdente difensiva.

Persino su tale terreno si può solo procedere guardando indietro ma per andare avanti, come l’Angelus novus di Klee in Walter Benjamin.[20]

Per parte mia, del tutto soggettivamente, come “filosofo”, nella “pancia” della storia “en marche” io oggi intravedo tre istanze forti: la libertà, la fratellanza e l’infinitizzazione (o eternità, o religiosità).

Vedo il valore della libertà perché la storia ormai mostra che i popoli più civili e ricchi sono stati anche i più liberi rispetto al loro tempo; che i più ricchi sono stati e sono i liberaldemocratici; che i cittadini che hanno vissuto sotto sistemi autoritari, almeno dopo certe brevi fasi, sono sempre tornati a preferire forme di vita liberaldemocratiche; che i popoli retti su libere istituzioni, o più libere rispetto ai loro avversari, sono sempre prevalsi; che pure oggi come oggi i diritti che crescono sono quelli per tutti i singoli. Questo per me è un punto fermo, anche se credo che Stati di recente nati oppure rinati (lo sapeva già Machiavelli), e soprattutto Stati composti da molti popoli magari con religioni e livelli diversi, possano pure seguitare ad essere autoritari, senza che li si debba combattere per forza come fossero il Maligno. È “la Storia”, “bellezza”.

Vedo il valore della fratellanza perché contro tutta la visione di Marx da un lato, e di Carl Schmitt dall’altro, “Polemos”, la guerra – il conflitto irriducibile tra classi come tra Stati – ha portato molto male. La lotta sociale è sacrosanta, ma solo come tratto intrasistemico (altrimenti ammazza il malato che vorrebbe guarire); questo oggi mi pare palese. Può darsi che le guerre civili come quelle inter-statali, talora s’impongano, ma non sono una festa e chi pensa che lo siano fa il male sue e altrui. Ormai mi sembra dimostrabile.

Ma anche ammettendo che questo sia sbagliato, come certo lo è stato ed è per tante persone cui ho voluto molto bene e ho stimato (fanatici e violenti per vocazione sempre esclusi), oggi come oggi mi sembra palese che tutte le grandi questioni implichino “soluzioni” trasversali, “unitive” (come dice Edgar Morin). Ad esempio il problema più importante di tutti, quello ecologico, è di tutti (e non di una classe, e neanche di destra o sinistra necessariamente). Gli Stati Uniti d’Europa, altro punto decisivo, pongono istanze che attraversano destra e sinistra; possono valere per Giovanni Agnelli o Luigi Einaudi come per Spinelli o per Sergio Pistone, Lucio Levi o per il mio amico Corrado Malandrino e per la stimabile scuola sua[21]. La pace concerne tutte le parti in lotta, e oggi magari il papa può trovarsi più vicino a Luciano Canfora che ai suoi cardinali o a Biden. In tutti e tre questi “casi” – ecologia, federalismo inter-statale e pace – l’accordo non può essere un obbligo né un accordo perpetuo, ma implica una sorta di accordo volontario tra diversi e spesso opposti, la cui realtà porta o porterebbe bene a tutti, e la cui carenza può portare qualche male a tutti, e la negazione porta certo male a tutti quanti.

Anche sul piano sociale l’accordo è valido, purché non sia obbligatorio (camicia di forza corporativa, che obblighi all’accordo le parti): ci vuole il disaccordo per l’accordo (è la democrazia, ma anche la socialdemocrazia). Ma è così sempre, pure tra Stati. Spesso l’homo sapiens demens lo dimentica, ma poi “la paga”.

L’uguaglianza è un eccellente criterio giuridico e una valida istanza economica, ma è da assumere, per il resto, “con misura”: non ha la stessa validità pressoché “su tutto” e pressoché “sempre” della libertà e fratellanza, che più ci sono e meglio è.

Ma la cultura della fratellanza è una cultura religiosa, non necessariamente come credenza e amore per il biblico “Signore”, ma come consapevolezza dei “plurimi” di essere “in uno”, sia quest’ultimo l’uomo universale in ciascuno, l’uomo-specie in ciascuno, l’uomo nella natura (del Deus sive Natura, “Dio ossia la Natura”, ma pure “la Natura ossia Dio”, di Spinoza come di Giordano Bruno, o anche dell’ecologia profonda di Arne Naess, di Gary Snyder e di Fritjof Capra, per me “eccellente”)[22], o anche “Dio” in senso antico, su cui non so che dire, mentre nella forma di Uno in Tutti mi piace. A ciascuno l’infinito suo che ci accomuna. E buona fortuna a tutti.

di Franco Livorsi

  1. G. RINALDI, Prolegomeni a una nuova sinistra, “Città Futura on line”, 6 aprile 2023. Si confronta con: A. SCHIVONE, Sinistra? Un manifesto, Einaudi, Torino, 2022, ma pure con i libri dello stesso: Eguaglianza. Una nuova visione sul filo della storia, ivi, 2019; Italiani senza Italia, ivi, 1998.Si veda pure: F. ORLANDO, Crisi della sinistra e crisi della democrazia come crisi del moderno?, “Città Futura on line”, 21 maggio 2023.
  2. J.-P. SARTRE, Critica della ragion dialettica (1960), Il Saggiatore, Milano, 1963. Il seguito, II rispetto all’originale francese, è apparso in italiano, con Introduzione di P. Rovatti, Marinotti, Milano, 2016.
  3. K. MARX, Scritti filosofici giovanili. I. Critica della filosofia hegeliana del diritto di Hegel; Manoscritti economico-filosofici del 1844, a cura di G. della Volpe, Editori Riuniti, Roma, 1963. Rinvio pure a: F. LIVORSI, Il Rosso e il Verde. L’idea della liberazione sociale, ecologica e spirituale dal XIX al XXI secolo, Golem Edizioni, Torino, 2021, specie pp. 50-63. Su “Città Futura” molti tra tali testi erano comparsi nel 2019, compresi taluni che poi nel libro ho escluso, ma che il lettore potrà facilmente ritrovare.
  4. Mondadori, Milano, 2022.
  5. Moretti & Vitali, 2022 ma 2023.
  6. J. STUART MILL, Sulla libertà (1859), con Prefazione di G. Giorello – M. Mondadori, Il Saggiatore, 1981. Ma si confronti con: M. T. PICHETTO, Verso un nuovo liberalismo. Le proposte politiche e sociali di John Stuart Mill, Angeli, Milano, 1996.
  7. L. TROCKIJ, La rivoluzione tradita (1936), Schwarz, Milano, 1956.
  8. F. FUKUYAMA, La fine della storia e l’ultimo uomo (1992), Rizzoli, Milano, 1992.
  9. M. FERRARIS, Documanità. Filosofia del mondo nuovo, Laterza, Roma-Bari, 2021.VOLTAIRE (F.-M. AROUET), Candido (1759), Garzanti, Firenze, 1992.
  10. 10 E. MORIN – A. B. KERN, Terra-Patria (1993), Cortina, Milano, 1994.
  11. Di A. de BENOIST si possono vedere: Visto da destra. Antologia critica delle idee contemporanee, Akropolis, Napoli, 1981; Manifesto per una rinascita europea, Nuove idee, 2005; con A. DUGIN, Eurasia. Vladimir Putin e la grande politica, Controcorrente, Roma, 2014; Critica del liberalismo. La società non è un mercato, Arianna, Roma, 2019.Su Steve Bannon: I. GREEN, Il diavolo. Steve Bannon e la costruzione del potere, Luiss University Press, Roma, 2019.Dell’ideologo di Putin si vedano: A. DUGIN, Teoria del mondo multipolare, Aga Editrice, 2019; Putin contro Putin, Aga, 2018.
  12. H. C. ANDERSEN, I vestiti nuovi dell’imperatore (1837), in: Fiabe e storie, Feltrinelli, Milano, 2015.
  13. Lo si può vedere nell’edizione critica a cura di V. Strada, Einaudi, Torino, 1971.
  14. A. Gramsci, Quaderni del carcere (1929/1935, ma 194/1952, e soprattutto edizione dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Einaudi, 1975, quattro volumi. Si vedano le parti sotto “Note su Machiavelli”.
  15. F. Livorsi, Il mito della nuova terra. Cultura, idee e problemi dell’ambientalismo, Giuffrè, Milano, 2000.
  16. K. MARX, Il capitale, III (1894), Editori Riuniti, 1965.
  17. Rinvio pure a: F. LIVORSI, Crisi di governabilità dello Stato liberale e avvento del fascismo, in: UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CATANIA, “Studi in onore di Enzo Sciacca”, a cura di F. Biondi Nalis, Giuffré, Milano, 2008, pp. 309-320.
  18. F. LIVORSI, Socialismo e presidenzialismo, “Critica Sociale”, n. 7, luglio 1990, pp. 23-29; Unità socialista e repubblica presidenziale. Perché no?, “Il Ponte”, a. XLVII, n. 8/9, 1991, pp. 102-121. Tutta la serie di articoli sulle proposte di riforma dello Stato qui, con particolare riferimento a quella del 2016 proposta da Renzi, pur con talune contraddizioni, attestano continuità del mio pensiero in proposito. Ma si veda: G. PASQUINO, Una splendida cinquantenne. La quinta Repubblica francese, Il Mulino, Bologna, 2010.
  19. Piemme, Milano, 2023, qui recensito da Giuseppe Rinaldi.
  20. W. BENJAMIN sostenne ciò in Tesi sulla filosofia della storia (1939/1940), in: Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi e con un saggio di F. Desideri, Einaudi, Torino, 2014.
  21. L. LEVI, Crisi dello Stato e governo del mondo, Giappichelli, Torino, 2005; C. MALANDRINO, Federalismo. Storia, idee, modelli, Carocci, Roma, 1998; con S. QUIRICO, L’idea di Europa. Storie e prospettive, Carocci, 2020.
  22. A. NAESS, Ecosofia (1976), RED, Como, 1994; Spinoza and the deep ecology movement. Delft, Eburon, 1993; G. SNYDER, Nel mondo selvaggio (1990); RED, 1992; La grana delle cose, a cura di A. Cacopardo, Gruppo Abele, Torino, 1995; F. CAPRA, Il Tao della fisica (1975), Adelphi, Milano, 1982; Verso una nuova saggezza. Conversazioni con G. Bateson, I. Gandhi, W. Heisenberg, Krishnamurti, R. d. Laing, E_ F: Schumacher e altri personaggi straordinari (1988), Rizzoli, 1988; B. DEVALL – G. SESSIONS, Ecologia profonda. Vivere come se la Natura fosse importante, Gruppo Abele, 1989. Ma si veda il molto che ho scritto su ciò ne Il mito della nuova terra ed anche in: Il Rosso e il Verde, cit., pp. 242-262.

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