Note e riflessioni sulla guerra russo-ucraina del 2022/2023

A mio parere l’evento clou del 2022 è, e resterà, la guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina: un lungo e disumano conflitto alle porte dell’Unione Europea iniziato nel febbraio 2022 e che purtroppo continua, seguitando a spargere il sangue di tante decine di migliaia di innocenti e mettendo a rischio la pace mondiale, oltre a danneggiare fortemente la vita economica di tutti quanti (dalla Russia “senza amore” a casa nostra).

Certo non si può essere equidistanti tra il lupo e l’agnello, tra l’aggressore e l’aggredito, e neppure stare con le mani in mano se l’aggredito possa essere aiutato a liberarsi; e nemmeno essere insensibili di fronte allo spettacolo straordinario di un popolo, come quello ucraino, che con sacrifici immani ed eroismo memorabile lotta per la propria indipendenza e per la propria libertà. Per l’Ucraina è il Risorgimento, e non risulterà meno glorioso di quello vissuto dai nostri antenati tra il 1821, e soprattutto 1848, e il 1870, per diventare, tramite uno Stato comune e indipendente, nazione a tutti gli effetti. Ora tocca all’Ucraina diventare a tutti gli effetti Stato e Nazione in modo definitivo. Questo essere dalla parte dell’Ucraina non potrà mai essere considerato come qualcosa che possa essere messo tra parentesi, ma dovrà restare un punto fermo qualunque cosa pensiamo sulle ragioni profonde del conflitto e sui modi per risolverlo. Quel punto fermo dovremo tenerlo sempre saldamente in mano come il nostro asse d’equilibrio.

Al proposito, infatti, il nostro spirito critico, cui ripugna il vedere tutto bianco da una parte e tutto nero dall’altra, potrebbe pure fuorviarci, se non stiamo più che attenti. Ma il nostro “patriottismo internazionalista”, per dirla con un forte ossimoro[1], non può farci neppure dimenticare il contesto internazionale. Gli ucraini si battono per l’indipendenza della loro patria da un vicino che vuole espandersi a loro danno. E va bene. Anzi, va molto bene. Ma l’idea che il mondo occidentale – e più di tutti quanti insieme “l’America”, gli Stati Uniti d’America – sostengano l’indipendenza dell’Ucraina per puro idealismo liberaldemocratico, se la beve solo chi sia già ubriaco, invece che apota, di buon mattino. Esiste pure lo scontro tra le grandi potenze per il potere: politico militare economico ed ideale, mondiale. Il globo è pure come una grande scacchiera tra due o più potenze contendenti. In genere i grandi contendenti sulla scacchiera sono due, ma gli altri, per amore o per forza, si schierano con l’uno o con l’altro. “Elementare, Watson”, come diceva sempre Sherlock Holmes, ma siccome l’elementare è spesso “rimosso”, pure tra noi, è bene ricordarlo.

Ora nella storia contemporanea dopo il 1945 c’è stato un lungo confronto tra Occidente liberaldemocratico, ma pure capitalistico e imperialistico, e un cosiddetto “Oriente” che si era preteso – e in Cina ancora si pretende – “socialista” (il che però da Stalin in poi, diciamo dal 1927, voleva soprattutto dire statalista autoritario). Questo scontro tra il 1947 e il 1991 fu soprattutto tra Stati Uniti e Unione Sovietica (URSS al cuore della quale c’era la solita “grande Russia”). Il conflitto fu vinto dagli Stati Uniti, quando “la Russia” – come la chiamava sempre de Gaulle sostenendo che a esistere era solo “lei”, mentre l’URSS era solo una sua forma transitoria e fittizia – prese atto della propria inferiorità tecnologico militare; e, soprattutto, quando la gerontocrazia che da Breznev in poi era rimasta al comando al Cremlino dal 1964 pietrificando il sistema sapendo che cambiarlo l’avrebbe fatto morire, giunse a un tale livello di rimbambimento, come ceto politico, da lasciar liquidare uno dei due imperi più potenti della terra – che dal 1945 si estendeva da Vladivostok a Berlino, e che era costato una decina di milioni di morti già prima del 1941 entro l’URSS, e altri venti milioni di morti dopo l’invasione hitleriana – senza sparare una fucilata, come non era mai accaduto ad alcun impero mondiale dagli antichi egizi in poi. Quello che in un mio allora apprezzato saggio di trentatre anni fa[2], mi era parso un possibile “Lenin liberalsocialista”, Michail Gorbaciov, si rivelò essere come il Romolo Augustolo che nel 476 era stato deposto dal re barbaro degli Eruli, Odoacre, determinando la fine all’Impero Romano (d’Occidente). Ho come sola attenuante il fatto che io lì avevo pure detto che l’esperimento del liberalizzare il comunismo (apertura alle libere opinioni e alle nuove imprese private, alias “glasnost” e “perestroika”), sarebbe riuscito solo se l’URSS fosse rimasta una, riuscendo a frenare la spinta centriguga degli stati membri. Ma comunque il mio errore non fu piccolo.

L’ultimo segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica e capo dello Stato, Michail Gorbaciov, intorno al 1989 aveva dichiarato che non sarebbe intervenuto militarmente per difendere il preteso mondo “socialista” fuori dall’URSS. E lo disse a Berlino. Gli occidentali se lo fecero mettere per iscritto due volte, mentre lui non chiese loro neanche di fare l’equivalente sul piano della non-espansione della NATO nel suo impero in liquidazione. Come se su cose di tale rilievo storico ci si potesse fidare di qualche informale rassicurazione verbale. Metternich l’avrebbe rimandato alle scuole elementari della politica mondiale (mentre Letta, Togliatti l’avrebbe rimandato alle scuole elementari della politica interna, ma non usciamo “fuori tema”).

Il muro di Berlino allora era stato felicemente demolito, la Germania riunificata con audacia politica bismarckiana dall’ultimo capo della Repubblica Federale Tedesca divisa, Elmut Kohl, il 3 ottobre 1990, e in poco tempo tutto l’impero “russo” era crollato, finendo con la caduta dell’Unione Sovietica nel 1991, come un castello di cartapesta. Non era dovuto alla sola “bontà” di Gorbaciov, ma soprattutto all’avventurismo irresponsabile dei suoi eredi, come Eltsin e gli improvvisati e criminali oligarchi. Ma qui non tengo conto dei dettagli. Gorbaciov, sia pure di malavoglia (ma che importa “la voglia” nella Storia?) aveva pure firmato il decreto di scioglimento del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, in cui “il Partito” era l’unica entità super partes, al di sopra dei singoli Stati membri della Federazione dell’URSS (il che apriva le porte alla rapida dissoluzione dell’URSS). Gorbaciov aveva aperto le chiuse, o consentito di rompere gli argini, e il grande fiume della storia aveva fatto il resto. D’altra parte non mi straccio le vesti come gli epigoni del defunto comunismo perché vedendo le cose “col senno di poi” lo statalismo burocratico autoritario che scippava il nome di socialismo era irriformabile sin dalla caduta di Kruscev (1964): da allora lo Stato di Stati dell’URSS era sempre più una gerontocrazia burocratico autoritaria, una forma-stato in estinzione, in necrosi lentissima ma inesorabile. Tuttavia non brindo neppure alla vittoria del “mondo libero”, che essendo “libero” in libertà era ed è decisamente migliore, ma che in termini di sfruttamento dell’uomo, distruzione dei gruppi umani precapitalisti e imperialismo militare ed economico non è secondo a nessuno.

Allora, al crollo dell’URSS del 1991, il mondo da bipolare era diventato unipolare, come se fosse stato tutto a stelle e strisce, tanto che il politologo “americano” Francis Fukuyama scrisse, in quella fase, il noto libro La fine della storia e l’ultimo uomo (1992)[3]. L’”ultimo uomo” è l’uomo del futuro temuto da Nietzsche nelle prime pagine del Così parlò Zarathustra (1883) come trionfo del sub-umano (anti-mito) qualora l’oltreumano sperato (suo mito), non si fosse affermato[4]. In tal caso si sarebbe appunto affermato quello che, in realtà su quella scia, Marcuse dirà, in un famoso libro-chiave del Sessantotto mondiale, L’uomo a una dimensione (1964)[5]. Fukuyama parlando di “ultimo uomo”, con riferimento nietzscheano-marcusiano, voleva dire “l’uomo americano”, il consumista e individualista, e liberaldemocratico assoluto, senza se e senza ma, che ormai sarebbe stato il modello di uomo, o civiltà, grazie al crollo dell’URSS, un “ultimo uomo” che sarebbe stato prossimo al totale trionfo a livello planetario. Forse il fine preannunciato resta “l’uomo di Biden”. Il mondo avrebbe potuto diventare “uno” in questa forma ormai invincibile. La Cina non appariva ancora così vicina da poter aspirare al dominio mondiale – come sempre economico, politico, militare e ideale – sia perché essa stessa seguiva la via capitalistico privata in gran parte “americana” (sia pure sotto il controllo occhiuto, e la mano dura, del Partito-Stato “comunista”), e sia perché era lontana dall’essere la prima potenza economica del mondo, come oggi potrebbe diventare (o forse già essere).

A quel punto, al crollo dell’URSS, si aprivano due strade. La prima sarebbe stata totalmente percorribile se il buon Gorbaciov invece di essere l’ultimo erede di una stracca burocrazia autoritaria comunista che sin da Breznev – per dirla con una famosa frase troppo caricata di senso pronunciata da Berlinguer nel 1982 – aveva “perso la forza propulsiva” datale dalla Rivoluzione d’ottobre del 1917 – fosse stato all’altezza delle urgenze della storia. In tal caso prima di dire che non sarebbe più intervenuto coi cingolati a favore dei paesi “fratelli” in difficoltà, Gorbaciov avrebbe potuto fare dei begli accordi scritti e sottoscritti con le grandi potenze mondiali, alla Metternich, dicendo più o meno loro: “Io posso pure ritirarmi militarmente nei confini della sola URSS, se voi garantite che tutta questa vasta fascia di paesi, per cui noi russi abbiamo versato il sangue di venti milioni di sovietici quando Hitler dal 1941 ci aggredì, diverrà militarmente come una grande Svezia o Finlandia, non soggetta al Patto nostro già di Varsavia, ma neppure alla NATO”. Gli altri Stati, pur di far finire la lunga occupazione russa mascherata da socialismo che durava dal 1947, sarebbero stati felicissimi di dire di sì.

Una volta liberatisi dall’abbraccio soffocante del preteso fratello maggiore comunista (URSS), gli ex fratelli (i fratellastri) non si fidarono. E ancora non si fidano. E la Storia dà certo loro ragione. Essi pensarono: “E se il Russo ci ripensasse? Non ha forse cercato di farlo, ora riuscendosi e ora no, sotto molte casacche, da secoli?” E vollero perciò unirsi all’Europa occidentale prima che l’orso russo ci ripensasse uscendo dal letargo o lunga sbornia che Eltsin ed oligarchi epigoni gli avevano fatto sorbire. Così non solo è nata la grande Unione Europea (che oltre a tutto così vasta e eterogenea com’è non è poi riuscita a diventare “Stato di Stati”, federale, come avrebbe voluto Altiero Spinelli con gli altri padri fondatori dell’Europa unita), ma si è pure espansa la NATO, l’alleanza militare tra Occidente e Stati Uniti, fin dove poteva arrivare. Gli Stati Uniti, pure tra molte oscillazioni, non fidandosi neppure loro dei russi (al pari dei loro “fratellini” dell’ex Europa orientale), puntarono e puntano – soprattutto nell’area dei Democratici (che per complesse ragioni che non starò a spiegare in America sono sempre i più imperialisti della compagnia) – ad obbligare l’ex URSS a rimanere uno Stato importante, ma che non poteva più aspirare al ruolo di grande potenza.

Ma la Storia ha la testa dura. E siccome la Russia è un grande Stato-potenza da quattro o cinque secoli, a un certo punto l’orso russo si è svegliato e ha ricominciato a dare grandi zampate a destra e a manca.

Qui debbo fare un’altra piccola digressione. Sin dall’inizio degli anni Sessanta mi ero molto appassionato a tutta la storia, dottrinaria e storico-politica, di Lenin e dei bolscevichi, come risulta bene da tanti miei articoli, saggi e parti dei miei libri dal 1962 in poi (da molti pezzi del 1962-1970 sull’”Idea socialista” di Alessandria, a miei saggi su Lenin in Italia, a tante parti dei miei libri, sino a quello del 2021 Il Rosso e il Verde)[6]. Ora occupandomi con vera passione di tali temi, io mi ero ben presto accorto che contrariamente a quello che quasi tutti credevano e dicevano il grande scontro del 1917 e degli anni successivi sino al 1921 – vinto dai bolscevichi e culminato nella fondazione di uno Stato federale autoritario (col “Partito” quale sola entità federatrice delle nazionalità incluse), l’URSS (sorta nel 1922) – non era stato tra comunismo e liberal-democrazia, tra Lenin e Kerensky, ma tra Lenin e Kornilov; tra Lenin e Trockij contro Denikin, eccetera. I bolscevichi nel novembre 1917 (per noi la Rivoluzione d’ottobre), avevano preso il potere tramite una sorta di colpo di stato di sinistra quasi incruento volto a fare lì una nuova Comune di Parigi, un’”associazione di lavoratori”, come ammetteva Stalin[7] (davvero con “tutto il potere ai soviet”, e non già al solo Partito Comunista); ma poi ci fu un’epica, e però anche terribile e talora atroce guerra civile, scatenata dai “bianchi”, sostenuti pure dall’Intesa (l’Occidente liberal-capitalistico) contro i “rossi”. Lo scontro era stato tra due autoritarismi: uno nazionalista grande russo, militarista, nazionalista, cristiano tradizionalista ed autoritario, impersonato dai vari generali bianchi; l’altro internazionalista rivoluzionario (“L’Internazionale” era l’inno della Rivoluzione bolscevica e poi dell’URSS), socialista-comunista, che voleva espandere la rivoluzione nel mondo, e soprattutto sino alla Germania, portando quanto più possibile a Occidente il “socialismo”: un assetto dal 1928, puramente statalista autoritario, chiaramente erede dello Stato-Impero zarista, di cui Stalin fu il Capo (il “piccolo padre”). Secondo alcuni storici, come il mio amico Bruno Bongiovanni, in un libro sulla caduta dei comunismi che io recensii sulla rivista di Emanuele Macaluso, la storia, con i suoi paradossi che sempre ci sorprendono, aveva fatto sì che nel 1918 cadessero due grandi imperi mondiali, quello austriaco degli Asburgo e quello tedesco degli Hoenzollern, ma che il terzo impero mondiale importante, quello russo dei Romanov, nonostante lo sterminio della Casa Reale, durasse in realtà sino al crollo dell’URSS del 1991; e anzi durasse con una forza inusitata, arrivando sotto Stalin sino a Berlino e permanendovi sino alla caduta del muro di Berlino del 1989[8]. Ci fu anzi un famoso romanzo antelucano, apprezzato pure da molti comunisti, Dall’aquila imperiale alla bandiera rossa (1922) di Krasnov, in cui si sosteneva che l’URSS era il seguito dell’impero russo sotto bandiera bolscevica[9]. L’autore era un generale cosacco anticomunista, ma lo riconosceva, anche se dopo il 1941, per anticomunismo, si schierò con gli hitleriani invasori e fu impiccato presso le mura del Cremlino nel 1945.

Ora era ovvio che la Russia, tramortita dall’esplosione dello Stato nel 1991, come grande Stato da parecchi secoli si sarebbe risvegliata. Siccome il vero scontro “là” era stato tra bolscevismo e panslavismo autoritario, “rossi e bianchi”, nazionalismo con basi di massa e comunismo, per me si poteva pensare che sotto e al di là del cosiddetto comunismo di stato ci fosse quello che in termini di tipi politici si chiama fascismo. E io lo dicevo. I miei amici, come l’esperto di storia russa, figlio del grande storico Franco Venturi, con cui verso il 1995 organizzai dibattiti in proposito per il Circolo del Ponte di Torino che presiedevo, negavano che in Russia potesse probabilmente arrivare una specie di fascismo come sostenevo io. Eppure tendenze o nazionaliste di destra, o nazionaliste autoritarie con basi di massa, sono poi emerse nell’ex Jugoslavia o, come “democrature”, in Ungheria e Polonia, e soprattutto, come da me intuito, in Russia. Che cos’è questo Vladimir Putin, lui e il suo partito, con i suoi ideologi tipo Dugin[10], e con la chiesa ortodossa che benedice i sogni cesaristici della Santa Russia, se non una specie di Mussolini al Cremlino? Oggi c’è pure il Mussolini “nella tragedia”, che potrebbe pure finire come si sa (solo che quello dopo potrebbe pure essere più guerrafondaio ancora). Certo la cosa è da approfondire, magari discutendo libri recenti, ma mi pare proprio che lo si possa dire.

Almeno dal 2014, quando Putin si annesse la Crimea, è tutto un muoversi della Russia per la rinascita dello Stato-Impero. Anche lo Stato-impero meriterebbe una riflessione storico-politica e politologica di grande momento, proprio come una forma di Stato specifica importantissima nella storia. Questa forma dello Stato è antichissima, ma ha pure grandi sviluppi nel mondo moderno e contemporaneo. Se ne potrebbero trovare tracce nella relazione tra ebrei e egiziani al tempo di Mosè, o tra Greci e Impero persiano ai tempi di Sparta e Atene antiche, o poi tra ebrei e Romani quando nel 70 fu distrutta Gerusalemme, o, nel Medioevo, investigando sul senso profondo dello scontro tra Occidente “cristiano” e Oriente musulmano al tempo delle crociate, ma pure in età moderna e contemporanea, al tempo dei grandi imperi dagli Asburgo, Hoenzollern, e Romanov, a Napoleone e più oltre a Hitler, e ad URSS e Stati Uniti dal 1917 al 1991, o tra Cina e Stati Uniti oggi-domani.

Su ciò possiamo rilevare una tendenza generale ricorrente. Spesso ci sono popoli che o volontariamente perché troppo deboli; o involontariamente perché troppo deboli per poterlo impedire; o perché chi aggrega riesce a essere forte solo così, si mettono insieme sotto un gran re o imperatore o führer. La soluzione per funzionare ha poi bisogno di essere consolidata nei tempi lunghi della storia. Ha un aspetto che può essere progressivo o evidentemente regressivo (costrittivo, “prigione dei popoli”, come Mazzini diceva l’Impero Asburgico, senza immaginare, al pari dei suoi fan “interventisti democratici” della Grande Guerra, che crollati i vecchi imperi sarebbe arrivata non l’Europa delle libere patrie sorelle, cui Mazzini e gli interventisti democratici successivi aspiravano, ma Hitler e Stalin). L’aspetto progressivo della forma-stato “impero” consiste nel mettere insieme in grandi aggregati entità altrimenti storicamente irrilevanti. Questo risultato dello Stato di Stati, o dominante molti Stati vassalli, potrebbe essere ottenuto pure federando i “plurimi in uno” in modo volontario, com’era prospettato come sola soluzione razionale e liberale (lì detta “repubblicana”, ma per dire “Stato di diritto”) da Kant, sin dal famoso saggio del 1795 Per la pace perpetua[11].

Ma ove questo non sia possibile, per immaturità o forte senso d’identità dei soggetti da aggregare, spesso lo Stato più forte della compagnia dell’area ricorre alla forza bruta. In linea di tendenza si può dire che in un mondo sempre più interdipendente la prospettiva non è data tanto dal formare molteplici Stati indipendenti, che spesso giustamente vorrebbero esserlo, ma quella di formare unioni da plurimi in uno (Stato di Stati, Stato federale democratico). In pratica se i popoli membri sono obbligati a stare insieme anche nolenti, oppure a essere subordinati a un “grande Stato” vicino, si ha lo Stato-Impero; e se le unioni sono consensuali si ha o un’unione tra Stati sovrani, più o meno debole (Confederazione) o uno “Stato di Stati” vero, come gli Stati Uniti, specie dal 1865 in poi, ma idealmente sin dalla Costituzione del 1787 e sin dal grande libro collettaneo scritto dai “padri fondatori” per sostenerla con i loro articoli (il Federalist)[12]. Naturalmente può pure prevalere l’indipendenza di tante piccole patrie o Stati sovrani (come sperava Mazzini, ma anche de Gaulle, e oggi i sovranisti della destra “costituzionale”); ma a lungo andare i piccoli stati diventano sempre o soggetti o succubi di vicini troppo forti, che per lo più non sperano in altro. Così va il mondo. A mio parere si può dire che in termini di forma-stato, sempre più continentale o mondiale in un mondo sempre più interdipendente, pure da Napoleone a oggi, due forme di Stato siano in lotta: lo Stato-impero aperto od occulto sotto un grande Stato leader, oppure lo Stato di Stati, federale. Tendo a dare per scontato che se una tra le due forme di Stato di Stati (o imperiale autoritaria oppure federale liberaldemocratica) cresce, l’altra diminuisce.

Si capisce che le nazionalità incapsulate nello Stato-impero molto spesso non gradiscano, forse come già gli ebrei sotto gli egiziani al tempo di Mosè, o la Grecia sotto l’impero persiano al tempo di Temistocle (e Eschilo), o i germani sotto Roma, o il Regno di Giuda al tempo di Tito verso il 70 dopo Cristo, o, facendo un gran salto in avanti, l’Italia detta da Metternich “un’espressione geografica” ai primissimi prodromi del Risorgimento (rispetto all’Impero Asburgico), o la Finlandia o la Polonia o l’Ungheria o la Germania Orientale rispetto all’Impero tedesco e soprattutto russo (quando quest’ultimo si chiamava zarista, e poi Unione Sovietica). E si capisce che tali nazionalità “liberate dalla Russia” nel 1945, non appena hanno potuto si siano precipitate sotto l’ombrello dell’Unione Europea e dell’alleanza militare occidentale della NATO, sino agli ultimi arrivi in quest’ultima della Finlandia e Svezia dopo l’invasione dell’Ucraina del febbraio 2022.

Ma nella storia, come nella vita, bisogna essere saggi anche per chi non lo sia (si sa). Solo che, come dicevano Morin e la Kern, l’uomo non è solo sapiens, ma sapiens demens[13]. E la Storia, come diceva Trockij con tipico umorismo ebraico, in tal caso da vero rivoluzionario, è sì la grande “maestra di vita”, “solo che è una maestra senza allievi”. Sarebbe stato necessario porre tra la piccola Europa dei nove Stati fondatori (1973/1981), e la Russia, un’area di Stati democratici neutrali, senza basi militari né occidentali né russe. Ma non è stato fatto. Non possiamo “mettere le braghe alla storia”, come diceva Marx. L’Europa, via via arrivata a sedici, tra il 2004 e il 2007 si annesse tutta l’Europa orientale diventando di 27 stati. Naturalmente più si estendeva e più restava Confederazione (patto tra Stati sovrani, Unione “debole”), e meno diventava Federazione (Stato di Stati, plurimi in uno, come Stati Uniti o Svizzera dopo il 1848).

Sarebbe stato necessario che gli americani, e il loro grande vecchio fratello maggiore britannico, capissero (e lo sarebbe pure ora) che il grande Stato russo, plurisecolare, sarebbe necessariamente risorto; non sarebbe sempre stato com’era stato dopo il crollo dell’URSS nel secolo scorso. (Così avrebbero dovuto fare gli estensori del Trattato di Versailles del 1918, che preferirono stringere la Germania vinta alla gola, facendo il gioco del grande dittatore in panchina “Adolf”). Sarebbe pure stato necessario che l’Ucraina agisse con le popolazioni russofone interne come l’Italia, tramite gli accordi De Gasperi-Gruber del 10 febbraio 1947 aveva fatto con le popolazioni di lingua tedesca dell’Alto Adige, dopo la politica di “snazionalizzazione” di Mussolini negli anni Trenta e i rigurgiti antitedeschi o antiaustriaci nostrani sino agli anni Sessanta, però per quella via vinti e domi. Invece gli ucraini nel Donbass praticarono una politica di snazionalizzazione nelle scuole e istituzioni rispetto alla maggioranza russofona. L’Occidente, in parte distratto, in parte perché non poteva importargliene di meno, in parte perché ben contento di avere una forza di contenimento armata contro “il russo” chiamata Ucraina, non se ne curò. Il compromesso con la Russia non fu tentato neanche negli otto anni tra il 2014 (quando i russi si erano ripresi la Crimea, gentilmente donata da Kruscev alla sua Ucraina al tempo dell’URSS quando era come mettere insieme Emilia e Romagna), e neppure nei mesi in cui le esercitazioni russe ai confini dell’Ucraina prolungate per mesi indicavano la volontà aggressiva. Si scelse la via dell’armare sino ai denti e addestrare l’alleato potenziale ucraino: cosa incredibilmente sottovalutata dagli informatori di Putin. Così quando nel febbraio 2022 Putin ha attaccato l’Ucraina, ha trovato pane per i suoi denti.

Allora ha ragione Putin?

Neppure per idea. Come non l’aveva Metternich o chi per lui nel nostro Risorgimento. Non va mai dimenticato il famoso saggio di Ernest Renan del 1882 sull’idea di nazione, laddove diceva che la nazione è un implicito patto di unione che i cittadini sottoscrivono ogni giorno[14]. Stanno insieme perché lo vogliono. (Per questo “da noi” non sarebbe stata da sottovalutare l’idea, e forte espansione nella regione più forte, della “Padania”, indizio di volontà di divorzio nella nazione). I legami “indissolubili” sono tutti residui medievali premoderni. Si può discutere se l’Ucraina fosse nazione. Quando mi capitò di essere in vacanza a Barcellona vidi un’esposizione di molte centinaia di libri in catalano. Non so se esista un solo libro importante scritto in ucraino. Ma non importa. Questa guerra ha dimostrato – dopo vicende anteriori relative alla lotta delle guardie bianche contro i bolscevichi e, ahinoi, dei battaglioni ucraini amici dei nazisti invasori dell’URSS – che l’Ucraina vuol essere nazione sovrana e indipendente dalla Russia quanto lo voleva la Polonia al tempo della Prima Internazionale di Marx o del polacco Chopin, e almeno quanto l’avevano voluto i nostri antenati nel Risorgimento. Quindi è giusto sostenere e aiutare e aiutare gli ucraini, però non “senza se e senza ma”. L’aiuto “disinteressato” e ancor più “assoluto” è un’assurdità cui possono credere solo i bambini.

Ad esempio ora è tempo di far finire la “sporca guerra” iniziata dai russi nel febbraio 2022, senza rompersi la testa per pesare le colpe pregresse e attuali, ma cercando una soluzione possibile. Anche a dispetto degli ucraini e almeno altrettanto degli americani, che vanno sostenuti, ma non con “fedeltà cieca, pronta e assoluta”, bensì badando ANCHE a due valori fortissimi, insieme a quello dell’indipendenza dell’Ucraina: la salvaguardia della pace mondiale e i nostri interessi materiali e politici di europei. Dobbiamo, insomma, ormai, compendiare (o “bilanciare”), la necessità di sostenere l’Ucraina per garantirne sovranità e indipendenza, e la necessità sia della pace nel mondo che della salvaguardia dell’Unione Europea: non sono una sola istanza, ma tre. Sostenere l’Ucraina in materia di fonti energetiche ha costi altissimi per l’Europa, e non per gli Stati Uniti, che il gas lo esportano. L’Occidente ha già dato moltissimo anche in materia di armamenti.

Ormai l’Ucraina, come pure la Russia, debbono dire qualcosa di serio sul modo di arrivare alla pace. Ad esempio, l’Ucraina rinuncia o no alla Crimea? L’Ucraina è pronta a riconoscere che i paesi del Donbass dicano tramite referendum sotto controllo internazionale se vogliono essere nell’Ucraina o stati indipendenti o della Russia? Possono chiarire il genere di autonomia da garantire a quelle aree? E così via. Se, invece, si insiste, come fa Zelensky, nel voler tornare ai confini del 1991 (notizia del primo giorno del 2023), si opta per una lunga guerra che, a mio parere, non potrà finire con la mera sconfitta della Russia, neanche se dovesse cadere Putin. Sarebbe, infatti (se finisse così), la prova che il sogno di far tornare la Russia sovrana nelle zone russofone, e grande potenza com’è stata per secoli, è fallito. Non credo che questo potrebbe essere accettato neanche dopo Putin.

Mi pare evidente che un compromesso di pace, che può avvenire solo se i contendenti mollano qualcosa d’importante, sia nell’interesse dell’Unione Europea. Ma l’Unione Europea nella grande partita mondiale ha saputo solo accodarsi agli americani e, nobilmente, agli ucraini, ma senza essere forza di mediazione in campo. Hanno pesato (poco) solo Francia e, più ancora, la Turchia, ma l’Unione Europea non pesa. Anzi, cheta cheta, è arrivata una notizia di cui stranamente i media paiono non essersi neanche accorti: la decisione della Germania, manco a dirlo sotto un presidente socialdemocratico, di procedere con un investimento di 102 miliardi di euro al riarmo tedesco (una decisione presa pochi giorni dopo l’invasione russa dell’Ucraina, il 27 febbraio 2022). In pratica i tedeschi si sono detti che l’invasione dell’Ucraina segnava la fine della globalizzazione come base forte di coesistenza, e il ritorno al vecchio scontro tra Stati-Nazione, cui un grande Paese deve prepararsi. Ma questi sono sintomi di ulteriore decadenza dell’Europa (e dell’Unione Europea).

Poi ci sono gli americani, che sono contenti che l’Ucraina, per salvare sacrosantamente sé stessa, faccia fallire la rinascita di una Grande Russia, e ciò senza dover impiegare i propri boys come in Vietnam o Afghanistan, eccetera: oltre a tutto mettendo in ginocchio il solo grande Stato del mondo amico della Cina. Infatti vogliono pure, o soprattutto, danneggiare la Cina, il loro vero avversario. Ma gli americani in politica estera da moltissimi anni non ne indovinano una, facendo sempre scelte che producono per tutti, anche per loro stessi – sempre a riprova di quel che accade ai grandi imperi in crisi – più danni che vantaggi. Così capitò quando sostennero gli afghani musulmano-medievali contro i sovietici, per poi ritrovarsi Bin Laden e persino l’abbattimento delle torri gemelle. Così quando fecero fuori l’Iraq di Saddàm Hussein. E così via. Sembrano sempre agire senza badare alle conseguenze strategiche, quasi sempre peggiori dopo il loro intervento, almeno dal loro punto di vista liberaldemocratico e capitalistico.

Anche in questo caso, se invece di incoraggiare Zelensky a trattare facendo capire che qualcosa di importante in tal caso lo dovrebbe pure mollare, lo incoraggiano a lottare sino alla vittoria finale grazie ai loro armamenti e soldi (con la NATO al seguito, e l’Unione Europea più convinta che persuasa, ma impotente-consenziente), che cosa potranno ottenere?

Nel caso peggiore, lo scoppio della terza guerra mondiale, chiaramente paventato da papa Francesco. In effetti nel mondo siamo come nella primavera del 1914 o come nel 1938, pure sperando che questa volta finisca meglio. Ma lo si sperò sino all’ultimo anche allora. Bisogna “stare in guardia” perché nella storia quando le guerre non si fermano, si esasperano e si estendono, e se ne perde il controllo. Se la Russia si sfascia di nuovo, per “gli americani” può essere un affare, nella logica del “divide et impera”, che vale sempre. Così se domani si sfasciasse la Cina e ne nascessero più stati, il ruolo di prima potenza economica politica e militare, oggi a rischio, sarebbe messo “in sicurezza”. Ma in genere sono conti fatti senza l’oste, cui per misteriose ragioni gli americani sembrano molto portati, tanto che per illustrare ciò ci vorrebbe un libro intero. Sono sì diventati lemme lemme, secondo il vecchio Francesco Saverio Nitti da tutti inascoltato (da Lenin a Hitler), sin dal 1918, la prima potenza mondiale[15]; ma lo sono diventati da un lato perché i regimi autoritari nella storia sono quasi sempre più deboli di quelli relativamente meno autoritari di loro, e inoltre sono i più liberi; e, dall’altro, per l’immensa, e a lungo non compresa, superiorità della loro economia capitalistica interna. Gli Stati Uniti sono stati e sono, insomma, un Grande Paese che grazie alla superiorità della democrazia rispetto alle dittature, e soprattutto grazie alla maggior potenza economica e per ciò stesso tecnologica, vincono. Ma poi non sanno gestire la vittoria, o spesso non lo sanno fare, e la cosa si ritorce a loro danno. O comunque negli ultimi decenni è capitato spesso, e anzi, troppo spesso, segnalando la grande crisi latente del loro Impero, poco tempo fa cacciato a calci nel sedere da montanari fondamentalisti musulmani fermi al Medioevo e spacciatori di eroina, in Afghanistan.

Posso sbagliarmi, ma non credo che i russi potrebbero tornarsene a casa come gli americani dal Vietnam o loro stessi, come poi gli americani, dall’Afghanistan. Penso che siano troppo deboli per poterlo fare, e che se Putin sarà sconfitto, e magari liquidato, lo Stato russo si sfascerà di nuovo per decenni. Ma pure la sua classe politica lo sa, e non credo possa permetterselo. Nel conto c’è pure il fatto che in caso di nuovo sfasciamento, la Cina potrebbe pure dilagare verso la Siberia e le sue immense risorse ora poco fruttuose, ma che essa saprebbe far fruttare, sicché può pure darsi che sostenga la Russia di Putin pronta però a approfittare della sua possibile disfatta. Ma può pure darsi che invece la Cina decida che la Russia non debba cadere, nella logica, rovesciata, del grido di Carlo Rosselli al tempo della guerra di Spagna in cui Mussolini e Hitler sostenevano Franco: “Oggi in Spagna, domani in Italia”. Può darsi che americani da un lato e cinesi dall’altro – gli uni vedendo ciò come speranza, e gli altri come incubo – si dicano – augurandosi la disfatta di Putin, pure da LUI meritata – “Oggi in Russia e domani in Cina”. Sono tutte forti precondizioni da terza guerra mondiale. Chi scherza con tali fuochi è pazzo.

Ma mettiamo pure che tutto vada bene e che i russi, come il lupo “cattivo”, debbano ritirarsi sconfitti. Come pensare che essi in tal caso non diventino puramente e semplicemente uno Stato vassallo dell’Impero cinese? L’Occidente è interessato a ciò?

Per me su tale terreno URGE IL COMPROMESSO TRA I DUE BELLIGERANTI, O SARANNO IMMENSI GUAI. Questa è, almeno, la mia profonda convinzione.

di Franco Livorsi

  1. Si dice ossimoro un’espressione che mette insieme parole inconiciabili, come qui patriottismo e intenazionalismo.
  2. F. Livorsi, Socialismo e libertà nel mondo di Gorbaciov, “Il Ponte”, n. 6, 1990, pp. 19-49.
  3. F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo (1992), Milano Rizzoli, 1992.
  4. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra (1883/1892), tr. di L. Scalero, Longanesi, Milano, 1979, pp. 41/43.
  5. H. Marcuse, L’uomo a una dimensione (1964), Torino, Einaudi 1967.
  6. F. Livorsi, Gli scritti di Lenin sul socialismo italiano, “L’idea socialista”, Alessandria, n. 3, novembre 1962; Lenin e l’attuale estremismo di sinistra. A proposito di una ristampa degli Editori Riuniti, ivi, n, 17, 19 ottobre 1963; Attualità di Lenin, ivi, n. 4, aprile 1970; Lenin in Italia. Le componenti della sinistra di fronte alla concezione leninista della classe e dello Stato, “Classe” (Edizioni Dedalo), a. III, n. 4, giugno 1971, pp, 325-389; Note “conclusive” sul bolscevismo da Lenin a Stalin, in: Utopia e totalitarismo. George Orwell, Maurice Merleau-Ponty e la storia della rivoluzione russa da Lenin a Stalin, Tirrenia Stampatori, Torino, 1979, pp. 169-232; Stato e libertà nel comunismo da Lenin a Stalin, in: Stato e libertà. Questioni di storia del pensiero politico, ivi, 1992, pp. 137-170; Comunismi, in: E. A. Albertoni – F. Livorsi, “Politica e Istituzioni. Lessico”, Eured, Milano, 1998, pp. 247-258; Liberazione sociale e liberazione della coscienza nella storia della socialdemocrazia e del comunismo. Note e riflessioni, in: Coscienza e politica nella storia. Le motivazioni dell’azione collettiva nel pensiero politico contemporaneo, Giappichelli, Torino, 2003, pp. 155-252; Sentieri di rivoluzione. Politica e psicologia dei movimenti rivoluzionari dal XIX al XXI secolo, Moretti & Vitali, Bergamo, 2010, pp. 73-176; Dialogo con Franco Livorsi sul centenario della Rivoluzione d’Ottobre di Lenin, a cura di M. Ciani, “Appunti Alessandrini” (on line), 4 novembre 2017 (e in “città futura on line”, 7 novembre 2017); Il Rosso e il Verde. L’idea della liberazione sociale, ecologica e spirituale dal XIX al XXI secolo, specie alle pagg. 11-26 e 87-126.
  7. Stalin nel 1923 scriveva: “Nel 1917 noi sognavamo di formare una Comune, un’associazione di lavoratori, sognavamo di farla finita con la burocrazia (…: Siamo ancora lontani dalla realizzazione di questo ideale. Ciò che occorre per liberare lo Stato dagli elementi burocratici è un alto grado di civiltà nel popolo e una condizione di pace e sicurezza assoluta tutt’intorno a noi: in questo modo non avremmo più bisogno di larghi quadri militari (…) i quali danno la loro impronta anche agli altri istituti governativi”, come di legge in: I. Deuscher, Stalin (1965), Longanesi, Milano, 1969, p. 384.
  8. B. Bongiovanni, La caduta dei comunismi, Garzanti, Milano, 1995. Si veda pure la mia recensione: F. Livorsi, La caduta dei comunismi, “Le Ragioni del Socialismo”, a. I, n. 3, aprile 1996, pp. 43-45.
  9. P. N. Krasnov, Dall’aquila imperiale alla bandiera rossa (1922), Salani, Firenze, 1930 e poi 1974.
  10. A. Dugin, La quarta teoria politica, Nuova Europa Edizioni, 2017.
  11. I. Kant, Per la pace perpetua (1795), a cura di N. Merker, con Prefazione di N. Bobbio, Editori Riuniti, 1992. Si confronti pure con: F. Livorsi, Pace perpetua e unione mondiale, in: AA.VV., “Stati e Federazioni. Interpretazioni del Federalismo”, a cura di E. A. Albertoni, Eured, Milano, 1998, pp. 3-31.
  12. (a. Hamilton, J. Madison, J. Jay), Il Federalista (1788), con Introduzione di L. Levi, che completa l’edizione curata anteriormente da M. D’Addio e G. Negri, Il Mulino, Bologna, 1997. Si confronti con: C. Malandrino – S. Quirico, L’idea di Europa. Storie e prospettive, Carocci, Roma, 2020.
  13. E. Morin – A. B. Kern, Terra-Patria (1993), Cortina, Milano, 1994.
  14. E. Renan, Che cos’è una nazione? (1882), a cura di S. Lanaro, Donzelli, Roma, 2001.
  15. F. S. Nitti, La decadenza dell’Europa: le vie della ricostruzione, Bemporad, Milano, 1922; La tragedia dell’Europa: Che farà l’America?, Gobetti, Torino, 1924; La disgregazione dell’Europa. Saggio su alcune verità impopolari, Faro, Roma, 1946.

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