Note sull’Antisessantotto

Vorrei provare a discutere un poco sul mondo “in fieri” tenendo particolarmente d’occhio la guerra russo-ucraina che dura da cinque mesi. Lo farò in modo problematico, naturalmente, perché “del doman non v’è certezza” (e per molte ragioni è meglio così). Si tratta di linee di tendenza, che poi “il tempo” potrà confermare o smentire a seconda del movimento delle nuvole in cielo, ossia delle opzioni individuali e collettive dei contemporanei. Sono “solo” previsioni “del mondo”, ma tutte basate su dati di fatto e non sull’immaginazione “creatrice”. Tra l’altro in questo caso sarei felicissimo di essere smentito dalla realtà.

Inizio con una piccola confessione. Mentre vivo nel presente, sono spesso portato ad una sorta di “ricerca del tempo perduto”, che in politica è soprattutto riferita agli anni Sessanta del Novecento: non solo al nostro e altrui “1968” – si badi bene – ma a tutto quel decennio. Non c’è nostalgia, perché poi le cose finirono come finirono, e non certo senza responsabilità di noi tutti. C’è solo un po’ di rammarico, e molta riflessione su una “possibilità che sì” che alla fine risultò per tanti aspetti una “possibilità che no”.

Chi per ragioni anagrafiche non abbia vissuto quegli anni, o ne sia stato solo sfiorato, farà una gran fatica a capire. Quello – e a mio parere solo quello dopo il 1945 e sino ad oggi – fu il DECENNIO in cui tutto nel mondo avrebbe potuto cambiare: non solo nel senso della modernizzazione (neocapitalismo e “Welfare State”, che in effetti emersero e si svilupparono molto, in modo più o meno benefico), ma nel senso del “cambiare la vita in profondità”, attuando progressivamente il potere dei lavoratori stessi dalla fabbrica allo Stato e sistema degli Stati, e consentendo l’autorealizzazione delle persone stesse, libere nella coscienza, a nessuno soggette e reciprocamente solidali, per quanto fosse umanamente possibile. Forse le premesse stesse, ossia l’idea che cambiando la società cambino gli uomini, era sbagliata (e, anzi, per me oggi lo è), ma comunque l’istanza di mutare il mondo e se stessi allora fu grande. E non c’è ragione per credere che ciò fosse impossibile solo perché è fallito. Quello fu uno dei brevi periodi della storia del mondo in cui tutto il riformabile radicalmente, o rivoluzionabile, pareva realizzabile, e non solo ai poveri illusi di turno.

In tutta la storia dal 1800 a oggi mi vengono in mente solo tre periodi, del genere (trent’anni circa in duecentoventidue anni, insomma). Il primo è stato il quarto decennio del XIX secolo culminato nel 1848 europeo. Un altro periodo del genere è stato il primo dopoguerra, dal 1917 al 1922 (o 1926, perché ovviamente si tratta sempre di periodizzazioni indicative). L’altro periodo del genere furono appunto gli anni Sessanta del Novecento nel mondo: in Italia si può dire dal luglio 1960 alla strage di Piazza Fontana del dicembre 1969. Tutti e tre i “periodi critici” indicati finirono abbastanza male per il movimento rivoluzionario “vero” (repubblicano democratico nel 1848; socialista rivoluzionario o riformatore dal 1917, in Europa Occidentale; e neo-socialista e neo-comunista negli anni Sessanta del Novecento), ma lasciando un limo molto ricco, che in Italia, in riferimento agli anni Sessanta del Novecento, fu determinante per cambiare la mentalità generale e per fare le riforme civili o sociali necessarie.

Solo che oltre al limo c’erano pure i veleni, la diossina di tipo politico e morale. Erano elementi talmente letali da rendere assurda la tesi – argomentata pure con intelligenza da Toni Negri in La differenza italiana (Roma, Nottetempo, 2005) – del “lungo Sessantotto”, che da noi sarebbe arrivato sino alla fine degli anni Settanta del secolo scorso. Infatti in tutti gli anni Settanta (e oltre), si determinarono pure gravissimi processi involutivi, come quelli che alla fine travolsero la Repubblica dei partiti nata dalla Resistenza, quali: le criminal-politiche bombe fasciste e dei servizi segreti deviati dal 1969 al 1974; l’orrido terrorismo omicida e lo squadrismo “di sinistra” dal 1971 al 1988, e il ladrocinio capillare che divorava lo Stato (tre volti dello stesso cupo venir meno dello spirito libero, liberatore, liberale e libertario degli anni Sessanta). E infatti quelli che cercarono di forzare le cose passando dal libero comunitarismo anti-sistema, o tendente all’alternativa di sinistra, indulgendo alla violenza “rivoluzionaria”, comunque intesa – terrorista nei gruppi armati e squadrista “da sinistra” nella cosiddetta Autonomia operaia – fecero un danno enorme alla democrazia, nonché a troppi innocenti, e molto presto anche a loro stessi, rovinandosi per sempre o per decenni della loro vita.

Ora accade spesso, purtroppo, che nella storia si diano fasi non solo involutive o conformiste rispetto ai periodi d’innovazione radicale di cui si è detto (anni “Sessanta”), ma specularmente opposte. In fondo sono fasi come quelle “liberatrici” di cui ho detto, ma “a rovescio”. Proprio oggi sembra che siamo entrati in una fase così: non solo cioè d’involuzione “normale” dopo le epoche “dei portenti”, ma di “alternativa democratica e riformatrice, o rivoluzionaria, al contrario”. Mi pare che da molto tempo, un passo alla volta, stiamo scivolando “sempre più in basso”; e ora pare iniziato addirittura il ribaltamento, la “fuga nell’opposto” o “enantiodromia” rispetto agli “anni Sessanta”: “l’Antisessantotto”.

Si tratta di una “maturazione” il cui embrione si sviluppa da molto tempo. Proprio qui, agli inizi di questo sito di “città futura”, il 19 novembre 2005 io pubblicai un articolo intitolato Viviamo in un’epoca calamitosa, spiegando che tutto il mondo “ordinato” a Yalta nel 1944 era finito, dal crollo del comunismo del 1989-1991 ad allora, e che il pianeta era ormai “sgovernato”, senza grandi potenze anche reciprocamente ostili, ma coscienti della loro segreta interdipendenza (e persino antica alleanza), che “al dunque” erano state capaci di accordarsi tra loro evitando catastrofi annunciate irrimediabili (ossia la vera, e più pericolosa, anarchia internazionale). Potrei fare molti esempi, ma ci siamo capiti. Credo che potrei ripubblicare oggi quell’articolo del 2005 parola per parola.

Anche questo smentisce la tesi di un mondo del Capitale che si regolerebbe da sé (come già si diceva del neocapitalismo), come una figura geometrica solida, complessa ma con una logica intrinseca, segnata dalla complicità pure tra pretesi avversari, e che solo la rivolta operaia o delle moltitudini potrebbe spezzare: tesi propria del pur notevole libro di Antonio Negri e Michael Hardt Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione (Milano, Rizzoli, 2003). Invece non c’è proprio nessuna autoregolazione sistemica. Se il mondo non ha né imperi interconnessi regolatori, né tantomeno federalismo internazionale tra gli Stati, il conflitto si fa selvaggio, o latentemente tale, da “mors tua, vita mea”. Al di là delle tesi arzigogolate di un’estrema sinistra che ha sempre creduto nella razionalità o autoregolazione del capitalismo più dei capitalisti stessi, resta sempre da meditare ben bene il Friedrich Meinecke di Cosmopolitismo e Stato nazionale (1908, Firenze, La Nuova Italia, 1975) e anche l’opus magnum del geniale politologo neo-reazionario Carl Schmitt di Il nomos della terra nel diritto internazionale dello jus publicum europeum (1950, Milano, Adelphi, 2006). Il succo di tali ragionamenti mi pare il seguente: l’ordine c’è o non c’è se lo fa essere la Forma-Stato (negli Stati o tra gli Stati); e se no, non c’è. Può pure essere uno Stato “minimo” o un sistema degli Stati minimamente “correlato”. Non è necessario pensare ai Leviatani, né in politica interna né internazionale. Se questo sistema degli stati, periodicamente ristabilito (in genere dopo grandi guerre mondiali, come le napoleoniche e poi le due mondiali del Novecento), è usurato e infine salta, e non è sostituito da unioni federative interstatali o almeno confederali internazionali, si va verso la catastrofe. E tutto questo nel 2022 ora a mio parere volendo vederlo si può toccare con mano.

Può darsi che proprio la guerra tra Russia e Ucraina iniziata nel febbraio 2022 segni l’irrompere di un “decennio di controrivoluzione” (e/o di guerre), ossia di un vero “Antisessantotto mondiale”. Anche qui mi permetto di citare un mio romanzo del 2014 che era una vera distopia (antiutopia): tema in me e per me non nuovo perché la dialettica tra utopia e totalitarismo m’interessava da tanto tempo: Kali Yuga. Il crepuscolo del nostro mondo (Moretti & Vitali). Solo che io, inguaribile ottimista, pensavo che la terza guerra mondiale nucleare, tra un nuovo totalitarismo populista (nel romanzo tedesco-russo-cinese), e un Occidente incentrato sull’America, e in particolare su un presidente supercapitalista, democratico e quasi verde (a parole), sarebbe esplosa nel 2064 per responsabilità di entrambe le parti in lotta: senza che la Comunità di Rinascita verde e spirituale potesse impedirla, pur avendo ragione per moltissimi (ma “dopo”). Naturalmente io evocavo la catastrofe per mettere in guardia dalla sua possibilità, nel che è il senso delle distopie, o utopie alla rovescia; e anche ora spero che il peggio non solo arrivi tra molti decenni, ma che sia evitabile anche in futuro, quando in questo mondo qua non ci saremo più. La catastrofe annunciata, come lo è pure quella ecologica, sarà evitabile se riusciremo, come umanità, a “farci furbi” prima che il mondo esploda in un 1914 nucleare.

Comunque, a prescindere dal finale epocale più tragico, sostengo che in questi “nostri” anni, e probabilmente proprio dal 2022, è iniziato l’Antisessantotto mondiale. Nel pianeta avanza un nuovo movimento reazionario con basi di massa, comunque lo si chiami o chiamerà, e chiunque si illuda di fermarlo con le minestre riscaldate del passato avrà un brutto risveglio. Si potrebbe farlo solo fermando le tendenze distruttive-autodistruttive (da un lato) e rispondendo su un terreno democratico alla forte istanza di governabilità (dall’altro). E se no, no.

Ho detto che l’Antisessantotto inizia con la guerra russo-ucraina cominciata nel febbraio 2022, ma se vogliamo farlo iniziare dall’assalto al Congresso americano del gennaio 2021 – ad opera dei seguaci di Trump, cioè di un’estrema destra repubblicana con basi di massa sconfitta ma non doma, e che ben presto purtroppo potrebbe tornare al potere, dopo l’uscita di scena del pericoloso vecchietto, non si capisce se rimbambito o cinico, che ora comanda a Washington – si può pure fare.

Il momento clou è stato proprio l’attacco proditorio del dittatore russo Vladimir Putin a un paese molto vicino all’Europa, l’Ucraina. Ritengo, al pari del papa e di tanti studiosi di geopolitica, che l’allargamento della NATO sino ai confini della Russia, da parte di tanti paesi (che sarebbe stato meglio “neutralizzare”), sia stato un grave errore, una minaccia oggettiva per il plurisecolare Stato dell’“orso” russo; e trovo persino sbalorditivo che ciò tardi ad essere capito – a meno che non sia “una finta” – da chi sappia anche solo un poco di ragion di Stato, politica di potenza degli Stati e magari un tantino di geopolitica. Anche la politica di derussificazione del governo ucraino, con conflitti sanguinosi in Donbass dal 2014, ha avuto il suo peso. Ma ciò posto nulla può giustificare l’aggressione russa all’Ucraina, come gli errori delle democrazie verso la Germania alla conferenza di pace di Versailles dopo la Grande Guerra non giustificarono certo l’imperialismo di Hitler. Non è che un giovane sano di mente, frustrato dalla sua scuola, se imbraccia un mitra e stermina decine di compagni di scuola e insegnanti, sia giustificato, o che un uomo abbandonato dall’amata che compia femminicidio diventino brave persone.

Sia come sia, già l’involuzione di Putin, diventato classicamente un dittatore nazionalista autoritario, una specie di Mussolini russo, è significativa: non più la “semplice” democratura come in Ungheria, Polonia e Turchia, ma un vero nazionalismo autoritario del XXI secolo allo stato nascente insediatosi nuovamente, con colore più nero che rosso, in un grande Stato “europeo” del mondo (perché l’Europa, come diceva de Gaulle, va “da Parigi a Vladivostok”). Lo scopo è quello di far tornare la Grande Russia, niente affatto etnocentrica (comprende un centinaio di popoli), ma qual è stata nei secoli, nelle aree contigue più o meno russe per lingua, religione, cultura e potere centrale dominante per secoli, com’era stata sino al 1917. E al modo autocratico là considerato da sempre intollerabile da una rilevante minoranza occidentalizzante, ma del tutto normale dalla grande maggioranza.

Questo progetto espansionista a danno dell’Ucraina si doveva fermare, impedendo a Putin di insediare un regime fantoccio a Kiev e di papparsi, in quanto prevalentemente russofone, le zone del Donbass e magari sino a Odessa, dopo che nel 2014 si era già ripreso la Crimea. Per questo sono stato favorevole all’invio di armi “leggere” all’Ucraina (meno alle “sanzioni”, che finiscono sempre per colpire i popoli “sanzionati” e “sanzionanti”, e per gettare una potenza, sanzionata e messa al bando, nelle braccia di una più grande, come, dopo la guerra d’Etiopia del 1935 si fece con l’Italia di Mussolini che, isolata e colpita dalle cosiddette “inique sanzioni”, fu spinta o si spinse sempre di più nelle braccia della Germania di Hitler; e oggi-domani, se seguitano questi chiari di luna, così farà la Russia nei confronti della Cina). Gli aiuti militari, anche massicci, all’Ucraina, avrebbero dovuto avere lo scopo non già di trasformare il comico, ex comico, Grillo ucraino, Zelensky, in un novello Napoleone a Marengo (tanto per restare in zona ad Alessandria), ma di farlo restare al potere a Kiev e almeno nelle aree non russofone dell’Ucraina: magari ridimensionato, ma in sella. Questo obiettivo è stato raggiunto, e ora si dovrebbe andare verso una pace che consenta a Putin di conquistare qualcosa di importante e all’Ucraina di restare sovrana ed europea per gran parte: una cosa che lasci un bel po’ di amaro in bocca ai russi come agli ucraini, come alla fine – segnatevela – comunque avverrà.

Ma la situazione si è sempre più aggravata. È infatti entrata in campo la solita vocazione interventista democratica dei Democratici americani, i quali vogliono sempre portare la democrazia anche a chi non la vuole e non l’ha mai voluta (o avuta), sulla punta delle baionette (o dei razzi esplosivi), e così provocano enormi guai nel mondo. Per gli States la tentazione, per la verità, era ed è forte. Gli Stati Uniti avevano appena fatto una tremenda figura ritirandosi a precipizio, dopo un lungo conflitto, dall’Afghanistan, un paese diretto da fondamentalisti islamici fermi al Medioevo che vive smerciando eroina nel mondo (manco fosse stato il Vietnam di Ho Chi Minh e dei Vietcong). Avevano e hanno l’occasione di far dimenticare lo scacco storico, che poteva anche configurarsi come la caduta del loro muro di Berlino; potevano e possono riuscirci infognando gli aggressivi autoritari pericolosi nazionalisti russi in un Afghanistan tutto loro: l’Ucraina. Hilary Clinton l’ha detto apertamente, all’inizio di questa guerra. Così gli States si sarebbero liberati (o libererebbero) del rinascente nazionalismo autoritario grande russo, e senza far versare una goccia di sangue ai loro “boys”: spendendo solo tanti soldi per armare sino ai denti i nemici dei loro nemici, che versino il loro sangue “anche”, e per quel che li riguarda “soprattutto”, per loro. Riuscendo, l’impresa sarebbe pure una minaccia non piccola contro la Cina, che lemme lemme sta togliendo loro da sotto il bottom lo scranno di prima potenza mondiale. Oggi a Putin, e domani chissà.

Certo dal riarmo degli ucraini contro i russi sarebbero venuti (verranno, stanno venendo) tanti problemi molto gravi al mondo, africano ed europeo. Ma nessun problema del genere tocca o toccherà gli Stati Uniti. Perciò sin dall’inizio Biden si è messo a trattare Putin come fosse stato Hitler (come un gangster, un criminale sanguinario, un uomo da cacciare dal potere), come gli americani non avevano mai fatto con i capi del comunismo mondiale tipo Kruscev e Breznev neanche ai tempi dell’invasione sovietica dell’Ungheria o della guerra del Vietnam (né i capi di Stato sovietici con i presidenti americani), poiché né gli uni né gli altri erano matti da legare. (Ma dopo il crollo del duopolio mondiale deciso a Yalta, non sostituito da nuovi patti mondiali “veri”, tutto è possibile: è tornato lo scontro tra gli stati-potenza di altre epoche “pericolose”, come prima della Grande Guerra, persino con gli antichi conflitti doganali).

Poi gli americani, gli inglesi, con gli europei al seguito pure riluttanti, hanno deciso di fornire agli ucraini anche armi pesanti, sia pure con più saggia tiepidezza da parte di Francia e Germania.

Una guerra del genere è sempre più difficilmente circoscrivibile, perché se la logica diventa “O cade Zelensky o cade Putin”, il conflitto diventa non più tra nazioni confinanti che possono perdere qualche “pezzo” pur decisivo – nazioni che oltre a tutto erano state unite, sia pure con molti problemi, per secoli, con una lingua più o meno comune, una religione e uno Stato comuni – ma tra due mondi nemici: tra l’Occidente e la Russia, con l’Ucraina che lotta non solo per sé, ma per “l’Occidente”, col sangue suo e dei suoi figli.

L’Unione Europea, non essendo un vero “Stato di Stati”, ma in gran parte una confederazione (una grande alleanza tra stati in gran parte sovrani), ed essendosi fatta difendere sempre soprattutto dagli americani, sembra aver fatto buon viso a cattivo gioco nei confronti degli americani e inglesi stessi. Anche se è dubbio che essa, in presenza di pesantissime conseguenze in materia energetica e persino di investimenti in Cina a rischio (per non dire dei danni a tanta povera gente europea), potrà seguitare a sostenere con forza il bellicismo – giusto o sbagliato che sia – angloamericano. L’augurio che formulo non è un no dell’Italia alla NATO e agli Stati Uniti, che considererei anzi fedifrago e dannoso per il nostro Paese, ma una forte iniziativa pacificatrice dei singoli paesi più interessati alla pace – Francia Germania e Italia – nell’ambito dell’Unione Europea.

Naturalmente sto parlando di cose che conosco in modo troppo limitato, pur sapendo tante cose sulla storia del pensiero politico contemporaneo, che studio da una vita. Perciò parlo col dovuto “timor errandi”, però confortato dal fatto che pure il papa da una parte e Henry Kissinger dall’altro sembrano pensarla così. Impediamo a Putin di stravincere (e questo è stato fatto), ma operiamo perché questa pericolosissima guerra ai confini dell’Europa finisca al più presto. Altrimenti il rischio che si allarghi e duri tanto a lungo da danneggiare molto le nostre economie, e “genti”, è molto alto. Per non parlare della possibile terza guerra mondiale.

Oltre a tutto se la Russia di Putin, trasformata in nemico militare di tutto l’Occidente, dovesse poi vincere, che cosa potrebbe fermare il declino degli Stati Uniti, e con esso della democrazia come valore forte comune “nostro”?

Sarà bene fermarsi prima che sia troppo tardi, seppellendo al più presto l’ascia di guerra e curando i mali, e in primis la troppo bassa governabilità, delle nostre democrazie, prima che le grandi masse possano raggiungere un tale livello di insoddisfazione per come vanno le cose da ripudiarle tout court.

di Franco Livorsi

2 Commenti

  1. Ho dichiarato il mio “timor errandi”. Può darsi che la memoria mi abbia giocato uno scherzetto, e infatti in una prima rapida indagine su Internet la formula giusta sembra essere quella ricordata da Sburlati. Comunque volevo sottolineare la necessità di vedere la Russia come parte della “casa comune europea”, come Gorbaciov, citando de Gaulle, sottolineò nel 1985.

  2. Ma non era secondo de Gaulle l’Europa dall’Atlantico agli Urali
    Già allora arrivava al Pacifico e comprendeva la Siberia?

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