Sono passati ottant’anni e non è ancora morto: il fascismo è oggi più vivo che mai. E non è solo Mussolini, protagonista di romanzi e film come non sarebbe stato immaginabile un tempo, ma è l’ur-fascismo dell’autoritarismo illiberale che cova sotto traccia.
Il fascismo fu un regime che si instaurò con la violenza facendo leva sulla paura “rossa” della piccola e grande borghesia – ventun anni di usurpazione dello Stato, dittatura e annichilimento degli oppositori – e che portò il Paese in guerra al fianco di Hitler. Un regime che si resse grazie ad un apparato sostenuto dal “ventre molle” di ceti medi, industriali e agrari e ad una retorica ruralista e familista per sottomettere le masse operaie, bracciantili e contadine analfabete.
Quando le cose si misero male, il duce fu messo da parte e il re e Badoglio vollero patteggiare in segreto con il nemico, con il tedesco in casa che smantellò l’esercito italiano lasciato a sé e mise Mussolini a capo della Repubblica fantoccio di Salò. L’apparato resse e buona parte di quei ceti che erano stati conniventi rimasero dov’erano, imboscandosi come poterono.
Una parte del Paese, però, reagì. A migliaia militari sbandati e giovani che si diedero disertori per non combattere coi “repubblichini”, uomini e donne stanchi di soprusi e violenze andarono a formare le bande di ribelli che per diciotto mesi diedero vita alla Resistenza, contro un nemico ogni giorno più feroce. Certo, ci furono i partiti – sopravvissuti in clandestinità, all’estero, uniti nel nome dell’antifascismo – che misero insieme il CLN e si diedero un’organizzazione militare sostenuta dagli Alleati che fu parte attiva nella liberazione del Paese.
Come sarebbe stata la nuova Italia se il 25 aprile 1945 a Milano non avessero marciato uniti i leader del CLN – da Longo a Parri a Mattei – ma vi fossero stati i generali inglesi e americani a stringere la mano all’ex maresciallo Badoglio? L’Italia repubblicana nata dalla Resistenza poté scrivere nella sua Costituzione parole di uguaglianza, libertà e progresso, perché insieme aveva combattuto una guerra che – come ci insegnò Claudio Pavone – era stata di liberazione (dai tedeschi), civile (contro il fascismo) e di classe (contro i ceti dominanti sostenitori del regime).
Il fascismo, tuttavia, non scomparve, perché in tanti che lo avevano tenuto in piedi rimasero ai loro posti. Molti si convertirono al conservatorismo democristiano; altri, i più “nostalgici”, già dal 1946 seguirono nel Movimento sociale italiano Almirante e i reduci fascisti.
Ovunque, in Europa, il fascismo è finito con la morte dei suoi artefici. In nessun Paese sono stati ammessi nostalgici per ricostituire vecchi partiti: non in Germania; non in Spagna, ove il franchismo è morto con Franco nel 1975; non in Portogallo, ove l’Estado Novo di Salazar venne sepolto dalla rivoluzione dei garofani nel 1974. E neanche in Francia, dove l’eredità del maresciallo Petain si dissolse con la vittoria degli Alleati, di De Gaulle e dei partigiani del “maquis” sui tedeschi.
In Italia, no. La Liberazione venne per anni relegata a celebrazione retorica, mentre i “nostalgici” allevavano turme neofasciste e la “strategia della tensione” (il MSI arrivò nel 1972 all’8,6%; nel 1992 era ancora al 5,3%). I post-fascisti sono stati poi “sdoganati” da Berlusconi, grazie alla conversione dell’MSI in Alleanza nazionale e poi in Fratelli d’Italia, ma destra estrema è rimasta.
Ciò che colpisce, nell’estrema destra italiana di oggi, è il bisogno di riferirsi a un passato di cui ci si dovrebbe vergognare. Essa non aspira solo a un regime totalitario per i nuovi tempi, ma lo vorrebbe ancora in orbace e munito di manganello e olio di ricino. Certo, è ancora minoranza, ma ha la tracotanza di poter fare (quasi) quello che vuole e deve procedere a piccoli passi lungo la china illiberale. Ma, intanto, si sta mangiando la destra non estrema.
È al conservatorismo più autentico che dovrebbe premere di sedare le pulsioni autoritarie e ridare vigore alla democrazia, con i progressisti. Il 25 aprile dovrebbe essere la nostra festa nazionale, come il 14 luglio lo è per i francesi tutti, perché è dalla Resistenza che è nata questa Repubblica. Una festa nient’affatto divisiva ma l’unica davvero unificante che ha questo Paese.
di Pier Giorgio Ardeni
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