Polvere di stelle

Gli amici che leggono i miei articoli sanno che sino al 2013 io ho visto con qualche simpatia la crescita del Movimento 5 Stelle, e che pure negli anni successivi, sino al 2018 – sebbene ormai con molte riserve – non l’ho visto male.

Il Movimento 5 Stelle sino al 2018

Il M5S “aurorale” voleva la democrazia diretta: il popolo sovrano che decide sulle cose importanti da deliberare col proprio voto, come nel Contratto sociale di Rousseau del 1762, Contratto sociale che enfatizzava il potere dei cittadini di fare le leggi in modo referendario. Lo stratega del Movimento 5 Stelle nascente, Gianroberto Casaleggio, aggiornava il modello democratico diretto di Rousseau tramite l’idea della democrazia del web, che per via elettronica consentirebbe ai movimenti riformatori, o pretesi tali, di sentirsi l’un l’altro di continuo, e di votare in rete sulle questioni politicamente importanti. Non sapevo se anche quella forma di democrazia diretta sarebbe stata possibile o impossibile, ma non mi dispiaceva affatto. In fondo “quel Gianroberto Casaleggio” ragionava – ma sui movimenti politici – più o meno come il Maurizio Ferraris di Documanità. Filosofia del mondo nuovo, comparso due mesi fa da Laterza, che vengo leggendo con interesse (non senza un po’ di fatica e con più di un dissenso). Esprimeva, cioè, la stessa idea che la rivoluzione del web apra immense possibilità all’umanità in cammino. Il Gianroberto ragionava sul web come politico, o preteso politico, del “mondo nuovo”; Maurizio Ferraris come il possibile, o preteso, filosofo del “mondo nuovo”.

Inoltre il M5S si presentava con una forte istanza di moralizzazione della vita pubblica (non certo fuori luogo, in un Paese come questo). Aveva ed ha pure una fortissima istanza ecologista, anch’essa più che condivisibile.

Era un movimento carismatico con basi di massa, ruotante attorno ad una diarchia: Gianroberto Casaleggio metteva il sogno e le idee, e anche la tattica prescritta: tattica implicante per lui lo “splendido isolamento” del Movimento, che avrebbe dovuto: basarsi su comportamenti di governo irreprensibili a ogni livello del Bel Paese, pena l’esclusione del “reprobo”; rifiutare ogni alleanza, come contaminazione, e in tal modo agire da polo sempre più attrattore di un popolo italiano per ottimi motivi da molti anni molto “arrabbiato”. (Tanto che ora il primo partito nei sondaggi è un gruppo che nel simbolo ha ancora la fiamma tricolore). Se Gianroberto Casaleggio dava il fine e la linea, Grillo era il suo straordinario propagandista. Non richiamerò la diade Hitler-Goebbels perché qui tutto si svolge in democrazia e tra democratici che sono indiscutibilmente tali.

In quel tempo lessi con molto interesse il libro di Dario Fo, Gianroberto Casaleggio e Beppe Grillo Il grillo canta sempre al tramonto. Dialogo sull’Italia e il movimento 5 stelle edito nel 2013 da Chiarelettere. Studiavo un poco quel Movimento con simpatia, come appare da un mio piccolo saggio, Cinque Stelle nella storia d’Italia. Tra passato e futuro, da me pubblicato su “Critica marxista” nel n. 2 di marzo-aprile del 2013 alle pagg. 21-29, scritto mesi prima delle elezioni.

I risultati del M5S sembravano confermare la mia previsione. Infatti nel 2013, alle elezioni politiche, il M5S ottenne alla Camera il 25,56% dei voti, con 108 deputati, e al Senato il 23,79% con 54 senatori. Nel marzo 2018, più oltre, ottenne alla Camera il 32%, con 227 deputati su 630, e al Senato il 27% con 111 senatori su 314. Sempre con ruolo decisivo di Grillo.

Il Movimento Cinque Stelle di governo e la parabola di Conte

Nel frattempo nella storia però accadde qualcosa che inverava almeno in parte la famosa intuizione di Voltaire, nel suo Dizionario filosofico (1764), sul “naso di Cleopatra”. Questa regina d’Egitto aveva fatto girare la testa persino a Giulio Cesare, con cui aveva pure fatto un figlio (Tolomeo Cesare); e l’aveva poi fatta “perdere” a Antonio, il capo del partito cesariano dopo l’ammazzamento del Giulio: un Antonio che voleva persino fare con lei un regno egiziano non soggetto a Roma. Voltaire, enfatizzando la potenza del caso nella storia, in pratica si chiedeva: “E se Cleopatra avesse avuto un bruttissimo naso?”, cioè fosse stata racchia? Come a dire che per cambiare la storia basta poco, contro le illusioni di chi la vede sempre legata a un disegno divino, o comunque dominata da misteriose leggi dinamiche interne che s’impongano a tutti, come penseranno poi gli storicisti (idealisti come materialisti storici). Qui il “naso di Cleopatra” fu l’improvvisa morte di Gianroberto Casaleggio, colpito da ictus nell’aprile 2016. In apparenza la cosa non pesò molto, ma quando il geniale tribuno propagandista, “Beppe”, nel marzo 2018 ebbe portato alla Camera 228 peones assoluti, diventati improvvisamente partito di maggioranza relativa, l’assenza del Casaleggio vero (Gianroberto, da non confondere col figlio Davide), si fece sentire.

Quella vittoria fu al tempo stesso una benedizione e una maledizione per il M5S. La vittoria fu strepitosa, ma lo obbligò a governare mentre era ancora un Movimento del tutto acefalo, rispetto al quale i capi di Lotta Continua del 1969 tipo Adriano Sofri o Luigi Bobbio diventavano Lenin e Trockij. Se quelli del M5S avessero preso meno voti avrebbero potuto diventare un movimento d’opposizione che via via, anche ridimensionando il profetismo del fondatore Gianroberto Casaleggio o il dilettantismo del geniale propagandista Beppe Grillo, avrebbe fatto emergere un’élite vera, un gruppo dirigente collettivo vasto, competente e capace.

C’era sì un’altra via, nel 2018, per salvare il Movimento senza costringerlo ad alleanze “innaturali”, e sono convinto che il Gianroberto Casaleggio l’avrebbe preferita: consisteva nel tornare a votare, come fanno in Israele o in Belgio o in altri paesi democratici. Ma qui, da noi, scattò qualcosa che deve avere a che fare con la nostra storia nazionale profonda, di popolo antico, anche se di relativamente recente unificazione politica (1861/1870): un popolo che in duemila anni di storia ne ha viste di tutti i colori e per ciò è sin troppo aperto al cinico disincanto, e quindi è rotto a ogni compromesso creduto conveniente o preteso necessario: la ripugnanza a tornare alle urne se appena se ne possa fare a meno (tanto più da parte di parlamenti di nominati dai capi partito, proposti il “listoni” votati in blocco, in cui i singoli parlamentari non hanno la minima base elettorale solida, dopo la riforma elettorale del leghista Calderoli del dicembre 2005, da lui stesso detta una “porcata” pochi mesi dopo, e per ciò soprannominata “Porcellum”: superata ma senza reintrodurre né il collegio uninominale né una preferenza). Perciò nel 2018 fu cercato, da parte del M5S, un premier esterno e un alleato. Si fecero diverse ipotesi (compresa quella eccellente di Milena Gabanelli, che purtroppo non accettò), e infine si individuò in un avvocato brillante, professore di diritto privato dell’Università di Firenze, Giuseppe Conte, il premier.

Il M5S – al pari dei primi Verdi del 1979 in Germania – diceva di non essere né di destra né di sinistra, ma avanti; ma lo slogan – che avrebbe dovuto segnare la diversità dagli opposti raggruppamenti tradizionali – nelle mani di una vasta schiera di ragazzi senza né arte né parte trovatasi all’improvviso al vertice del potere, divenne idea per cui “questo o quello per me pari son”. Così scelsero tra i due maggiori avversari (PD di Renzi e Lega di Salvini) quello che “ci stava”. Grillo era riluttante, ma non avendo le idee ferme di Gianroberto finì per cedere. Si ebbe così un primo governo Conte imperniato sull’alleanza tra M5S e Lega, con due angeli custodi come vicepresidenti: Luigi di Maio (per il M5S) e Matteo Salvini (per la Lega): esecutivo che governò dal 31 maggio 2018 all’agosto 2019. Dopo di che – com’è noto – Salvini aprì, dalla spiaggia, una crisi di governo al buio tra le più irrazionali della storia d’Italia, chiedendo persino, in caso di vittoria in elezioni politiche anticipate che voleva, “pieni poteri”; e mal gliene incolse. Credo sia stato l’errore politico più grande della sua vita.

Anche in tal caso il parlamento si guardò bene dall’andare ad elezioni anticipate, come pare che il “leader” del PD, Zingaretti avesse dato per scontato pure parlando con Salvini. Renzi, allora, volle sbarrare la strada alla “destra al potere”, con “quel Salvini”, pronunciandosi – seguito poi dal PD – per un governo tra M5S, PD, oltre che Articolo 1 Liberi e Uguali (Bersani, Speranza e compagni) e Italia Viva (il suo gruppo). Così fu fatto.

Nel dibattito parlamentare del 20 agosto 2019 che segnò la caduta del Conte “uno”, il Conte fu molto abile nel bacchettare Salvini come se fosse stato uno scolaro di seconda media che non avesse studiato e fosse anzi meritevole di bocciatura, prendendolo in contropiede. Nella “società liquida” in cui ci ritroviamo, tanto bastò – per una sinistra e area progressista “senza qualità” – per ridare a Conte – già alleato abbastanza supino di Salvini per oltre un anno al governo – la verginità politica. Così si formò un secondo governo Conte forte del sostegno di tutta la sinistra o quasi, oltre che del M5S, durato dal 26 agosto 2019 al 26 gennaio 2021. Gli storici ci diranno se la pandemia che ha fatto più morti di una guerra, sia stata gestita bene con il regionalismo “spinto”, con competenze concorrenti con lo Stato, che purtroppo ci ritroviamo: senza che però si pensasse o si osasse, nell’evidente emergenza, di centralizzare l’azione di vaccinazione come la Costituzione e persino la Consulta consentivano (e sotto Draghi, con il generale degli alpini Figliuolo, si fa). Certo su quel terreno si operò, anche sotto il secondo governo Conte (e “con Speranza”), meglio che in Francia e Spagna. Inoltre la signora “Storia” ci dirà se sia stata efficace la preparazione del piano per ottenere “davvero” oltre duecento miliardi di euro di prestito dall’Unione Europea, e la predisposizione delle molte riforme che l’Unione Europea ci chiede per rendere effettivo il prestito da vero Piano Marshall, in modo da farci apparire credibili come “buoni pagatori”, ossia finalmente di nuovo capaci di forte sviluppo economico: forte sviluppo che richiede il superamento dei fattori burocratici e di mal funzionamento della giustizia – e io aggiungerei “di ingovernabilità”, o troppo fragile governabilità – che inceppano il Paese. Gli storici del futuro discuteranno pure di “reddito di cittadinanza”, voluto dal governo Conte, e che non è stato affatto male nonostante i troppi furbi che ne hanno approfittato, anche se per me chi riceva sussidi deve dare lavoro corrispondente, in termini di ore effettive, magari per incarico del suo Sindaco e rispondendone a lui. La logica dovrebbe essere questa: “Caro disoccupato, o anche “inoccupato”, io Stato ti posso pure dare ottocento euro al mese, ma tu mi devi dare quindici giorni di lavoro, che farai nell’azienda privata o pubblica che subito t’indicherò in base alle tue competenze. Prendere o lasciare”.

Dopo di che il governo Conte, che a Renzi e molti altri appariva inadeguato specie in politica economica, fu messo in crisi dal piccolo partito di Renzi stesso, che gli tolse la fiducia. Come abbia potuto accadere il “conticidio” – che certo non dipese solo dal “niet” di Renzi e compagni – non è chiaro. Può anche darsi, senza indulgere al complottismo clerico-reazionario, che taluno in Europa abbia pensato che per dare oltre 200 miliardi di euro in prestito a un Paese da trent’anni economicamente zoppicante, e con 2681 miliardi di debito pubblico (il 15 giugno 2021 secondo la Banca d’Italia), ci volesse almeno un Capitano della nave all’altezza, e che Renzi – come faceva Socrate quando cercava di tirar fuori “il concetto” dal travaglio mentale di qualcuno – sia stato il “maieuta”, la levatrice (la mamma di Socrate evocata da Platone nel Teeteto). Tenendo conto della pandemia, cambiare il Capitano della nave durante la tempesta, non era cosa “buona e giusta”; o meglio, non era “cosa giusta”, ma risultò “cosa buona”, come tutto il mondo sa, a parte i soliti irriducibili pronti a dare credito a un democristiano pugliese che ha governato disinvoltamente, in due anni, con la destra come con la sinistra, e a negarlo ad uno statista ed economista che va bene per tutto il mondo, a partire da Obama.

Ma perché cadde il secondo governo del premier indicato dal M5S, Giuseppe Conte?

Per me Conte ha pagato le debolezze non sue, ma del suo governo. Nell’insieme è innegabile che come premier Conte se la sia cavata piuttosto bene. Si tratta certo di un avvocato navigato, ottimo comunicatore, capace di mediare con furbizia ed efficacia, e che parla un fluente inglese. Nell’Unione Europea si è mosso bene, e i 200 miliardi di euro di prestito per l’Italia sono stati ottenuti perché è risultato credibile, anche se sono pur sempre soldi “prestati”, oltre a tutto a un Paese che non deve crollare perché dato il suo ruolo strategico e le sue dimensioni, e tanto più dopo l’uscita della Gran Bretagna, il crollo farebbe crollare pure l’Unione Europea. Sia come sia, Conte si è dimostrato un governante di valore, che non sfigurerà in nessun governo. Anche se la sua disinvolta capacità di governare con la destra come con la sinistra, e domani non si sa con chi (dopo il 2023 chi vivrà vedrà), non ne fa certo un nuovo Prodi o un leader riformatore, come creduto con poca lungimiranza da Zingaretti segretario del PD e forse pure da Bersani. Se non fosse per certe amicizie poco raccomandabili del fu Giulio Andreotti, si potrebbe dire che ne è l’erede politico e culturale. E Andreotti era un grosso personaggio. Ma mi fa ridere e piangere che gente che si dice ed è di sinistra dia più credito a un tale brillante trasformista di quanto ne abbia dato a Renzi segretario del PD e Presidente del Consiglio. Una volta erano i miei amici comunisti a preferire Andreotti a Craxi. Si vede che la lezione non è bastata, tanto che ora coinvolge persino diversi ex socialisti e verdi.

Ma pur riconoscendo molti meriti a Conte, quando si è trovato di fronte al fuoco amico, che è sempre quello che rovina un uomo politico, tutte le sue debolezze politiche intrinseche sono venute fuori. Quando il suo governo è entrato in crisi, pur avendo avuto dal Presidente della Repubblica tempo e modi per mediare, ha sciupato l’occasione. Avrebbe potuto cavarsela con un buon rimpasto. Prima si è incaponito nel voler escludere Renzi e il suo piccolo partito dal suo governo rinnovato, cercando i “responsabili” in Senato, specie tramite il giro di “Mastella” (altro che “sinistra”). Diversi grandi giornalisti e filosofi erano certi che ci sarebbe riuscito. (Una sera persino Paolo Mieli, nella trasmissione della Grüber, disse che ci sarebbe stata “la fila”).

Alla crisi del secondo governo Conte, in mancanza di qualunque proposta di compromesso da parte sua e dei suoi – nemmeno dopo che il presidente della Camera, Fico, era stato incaricato dal Presidente della Repubblica di cercarla – a Conte non restò che cadere. Ci si aspettava stupidamente che chi l’aveva fatto cadere (Renzi) si pentisse e si distruggesse da solo; oppure si era del tutto inetti a mediare. Privo di ogni soluzione proveniente dal gioco parlamentare, a Mattarella non restò che dare all’ottimo Mario Draghi l’incarico di formare una sorta di governo di emergenza, di cui solo Fratelli d’Italia, di Giorgia Meloni non ha voluto far parte, diventando così, nei sondaggi, il primo partito italiano (per ora).

Conte e Grillo

Ma data la popolarità acquisita sul campo, Conte era stato incaricato e fu incaricato di diventare il leader del M5S, Movimento che essendo stato dimezzato nei voti in due anni di governo (secondo i sondaggi), aveva bisogno di essere radicalmente rinnovato e governato. Glielo chiedeva pure “l’elevato” del M5S, Beppe Grillo. Conte, dopo qualche dubbio, accettò. Era persuaso di dover essere leader unico, mentre Grillo evidentemente voleva un Conte non già come prestanome, come oggi lamenta Conte, ma come primus inter pares, com’era stato lui con Gianroberto Casaleggio. Conte sottovalutò e sottovaluta politicamente Grillo; e come sempre non c’è peggior vizio in politica della sottovalutazione dei potenziali “concorrenti” (e infatti “chi se ne intende”, per usare la terminologia di Machiavelli, preferisce sempre sopravvalutarli, essendo ciò “più salutare”). Grillo fu da lui trascurato. Conte elaborò tutto lo Statuto del nuovo M5S senza discuterne faccia a faccia con Grillo. Su ciò non furono consultati neanche i gruppi parlamentari del M5S, che neanche oggi, 4 luglio, dispongono del testo (una procedura stravagante nella storia dei movimenti politici del mondo). In extremis Conte chiese pubblicamente a Grillo di non essere padre padrone che vuole sempre subordinare il figlio, ma padre generoso che lo lascia crescere in autonomia. Anche perché – diceva e dice Conte – in un movimento politico non ci può essere una diarchia, ma deve esserci un solo leader (che sarebbe lui). Solo che “il padre” era ancora in età lavorativa e non disposto a intestare l’azienda e tutto quanto al figlio, oltre a tutto già immensamente beneficiato, in riferimento a Conte, tramite due presidenze del consiglio. Lo voleva sì come numero uno, ma solo come primus inter pares. Forse era sottinteso dall’inizio, ma il cattedratico, con la ben nota prosopopea, non l’aveva capito.

Ancora una volta il limite del politico è emerso, in Conte, in piena luce. Conte avrebbe dovuto e dovrebbe capire che poteva e può essere solo “primus inter pares”, e che la diarchia non è affatto impossibile oppure una forma di sovranità limitata. Roma repubblicana aveva due consoli. La Francia ha dal 1958 un sistema politico che in caso di disomogeneità tra maggioranza che ha eletto il Presidente della Repubblica e quella che ha eletto l’Assemblea Nazionale dei deputati prevede proprio la diarchia (un Presidente della Repubblica di un colore e un Presidente del Consiglio di un altro, che lavorano ogni giorno gomito a gomito: una coabitazione che funziona bene da sessant’anni). I pensatori politici elitisti, poi, hanno sostenuto, da Gaetano Mosca a Robert Michels, che tutti i sistemi di governo, e anche partiti, sono oligarchie (non principati, ora democratici). L’idea che Conte non potesse avere in Grillo un alter ego oltre a tutto un po’ “discosto”, lontano da Roma e spesso con la testa altrove, che certo via via sarebbe stato meno ingombrante, non era realistica. Come poteva pensare che il fondatore di un movimento politico che grazie al proprio carisma è diventato – nonostante l’evidente modestia grande del suo personale politico – maggioritario tra il 2013 e il 2018, potesse donare a un altro la vera impresa della sua vita senza se e senza ma? Come poteva pensare che chi più di ogni altro aveva fatto tutto questo “miracolo”, accettasse di farsi imbalsamare senza chiedere e ottenere un ruolo decisivo, magari da secondo di bordo, ma sempre importantissimo? E questo per riconoscimento di non si sa quale virtù politica speciale di Conte, che “a livello di movimento politico” è tutta da verificare. Eppure se fosse stato umanamente più dialogante faccia a faccia, e più accorto, e persino più paziente e aperto al confronto (con Conte e con i gruppi parlamentari del M5S, e proprio sul “partito da rifare”), la primazia sarebbe tranquillamente arrivata (appena con qualche guaio da gestire di tanto in tanto); e comunque anche una relazione da primus inter pares non aveva e non avrebbe niente di disdicevole, tanto più che persino in caso di elezioni una forza della natura come Grillo a Conte sarebbe sempre stata e sarebbe più necessaria del pane (ma l’idea di averla “gratis”, senza il minimo contraccambio politico, sarebbe infantile).

Oggi, 4 luglio 2021, non so come la partita andrà a finire. Se il reale fosse razionale come diceva Hegel nel 1821 in Lineamenti di filosofia del diritto, i due contendenti dovrebbero assolutamente mettersi d’accordo: perché il mancato accordo può solo far male sia a loro che ai movimenti interni che li sostengono. E per ciò Di Maio e Fico, non schierandosi per ora né con Conte né con Grillo e provando a ricucire, hanno fatto benissimo. Ma pur sperando molto di sbagliarmi, dubito che ci riusciranno, proprio per il peso dei fattori psicologici “irrazionali” nella storia (e soprattutto in “questa” storia). Comunque tra i due contendenti, per quanto ora possa sembrare paradossale, il più irrazionale, nonostante l’aplomb accademica e da grande borghese pugliese che lo contraddistingue, è Conte.

Grillo è semplicemente un umorale di genio, che è contemporaneamente sommamente beneficiato e sommamente vittima delle sue emozioni. Ogni suo discorso è sempre stato emozionale, prima o oltre che razionale. Ma dopo che tali emozioni sono state scatenate, come fiammiferi che si bruciano, torna razionale. Forse ovunque, ma certo in politica. In piccolo, e ben inteso in contesto democratico e non violento, ricorda Hitler. I suoi discorsi hanno incendiato tanti animi proprio perché in essi il pàthos era sempre più forte del logos. Erano e sono correnti emozionali. Credo che persino come comico sia stato efficace in questa chiave, perché dominato da emozioni forti e suscitatore di emozioni forti, anche se a teatro possono far sorridere e in piazza un poco delirare. Pure nelle diatribe interne è certo così. Gli interlocutori lo debbono capire e cominciare a ragionare insieme a lui quando la febbre a 40 sia tornata a 36 o 37. Credo sia così in tutto. Persino il famoso video in cui si scatenò a favore del figlio accusato di stupro era una roba così. Uno più accorto di Conte, invece di stigmatizzarlo come fosse stato Gad Lerner, avrebbe dovuto vedervi lo sfogo di un padre, e basta (anche se un altro osservatore, senza problemi di coabitazione, poteva benissimo condannare lo show). Su quei deliri, pieni di pàthos e logos stranamente mescolati in dosi diverse (ma sempre con prevalenza dell’adrenalina emozionale), Grillo campa professionalmente e poi politicamente da una vita. Ma politicamente non è uno stupido, e l’ha dimostrato. Scesa la febbre, si muove in modo abbastanza accorto. Ad esempio la propensione a sinistra da oltre trent’anni è costante in Grillo.

Non so se potrà mai dirsi così di Conte. Già lo abbiamo visto premier sia con Salvini che contro Salvini. Il resto lo vedremo. Certo Conte farà la sua buona riuscita sotto qualunque governo, come premier o ministro. Questo è ormai accertato. Sicuramente, con la modestia di cui si è detto – e delle cui matrici si è detto, ingigantita dal successo come premier e dal consenso nei sondaggi – Conte si crede un vero leader. Ma una cosa è amministrare e una cosa è essere politico. Intanto un politico deve avere convinzioni più o meno forti, e dubito che Conte ne abbia, al di là di una vaga idea del buon governo democratico. Inoltre un politico deve saper costruire i compromessi, guardandosi dagli eccessi del proprio Ego, cioè dell’orgoglio e narcisismo vuoi frutto d’educazione o natura o ruolo. Invece gli atteggiamenti tipo “Con lui non tornerò a governare neanche morto” (salvo poi dover fare marcia indietro) oppure del tipo: “Mi deve chiedere scusa”, li deve frenare, come uno che tiri il freno a mano con tutte le forze per evitare lo scontro frontale in auto. E inoltre deve capire che la politica, persino alla corte dei satrapi o grandi dittatori, ha dinamiche che implicano la capacità di coinvolgere, prima che le cose importanti siano decise, se non tutti quantomeno quelli che contano.

Grillo queste attitudini le ha, e infatti, passata “l’ira funesta”, si dispone al compromesso. Anche nell’attuale crisi del M5S è così. E la cosa – benchè naturalmente tutti i fan di Conte, del suo Movimento e della sinistra, lo neghino – lo ha dimostrato. Grillo ha accettato il compromesso, la promozione del compromesso. Ha accettato di sospendere l’elezione di un Direttivo di cinque che avrebbe spaccato “la creatura” (il M5S), cui certo tiene; ha fatto un comitato di sette saggi in cui i “contiani” sono tre.

Non credo che Conte lo avrebbe fatto a parti inverse. E non so neppure se lo farà ora.

Certo per la “sinistra”, da Enrico Letta a Speranza, dal PD a Articolo Uno – Liberi e Uguali, è un bel problema, ma solo in parte: perché solo un pazzo potrebbe interrompere il governo Draghi in una fase del genere, mentre la pandemia è vinta ma non doma; l’Unione Europea ci guarda “a vista”, e ci deve prestare a breve 200 miliardi di euro. Ma se c’è qualcuno che durante il semestre bianco – sia perché la ferita della defenestrazione da Premier certo brucerà sotto sotto, e sia perché la popolarità, se Draghi durerà sino al 2023, potrebbe sbollire – potrebbe fare “brutti scherzi” a Draghi è proprio Conte. Io sono certo almeno al 90% che non lo farà, perché sono persuaso che sia uno responsabile; ma in termini astratti un cattivo pensiero potrebbe venire.

Intanto cresce la stella di Mario Draghi. Tra sconfitta della pandemia e gestione autorevole dei denari da nuovo Piano Marshall (o Merkel-Draghi) in arrivo, e capacità di dialogare e mediare persino con il grande sindacalista Maurizio Landini, e riforme da fare rapidamente anche per ottenere il prestito, e durata del governo sino al 2023, Draghi ce ne farà vedere delle belle. Sono assolutamente convinto che impronterà questi anni come Giovanni Giolitti tra il 1900 e il 1913 e come Alcide De Gasperi tra il 1945 e il 1953. Forse non lo sa neanche lui, ma io credo di intravedere i segni.

E la sinistra?

Non avendo mai risolto la sua crisi d’identità dopo il 1994 (non è mai diventata né neo-socialdemocratica in senso europeo né rosso-verde), e seguitando a far fuori ogni leader forte che sorga nel suo humus, finisce troppo spesso per fare un gioco di rimessa. Aggrega gli statisti più competenti e gli uomini più preparati, a confronto almeno degli altri, che sono peggio, ma non riesce a essere protagonista della storia. Nessuno l’ha sconfitta e sconfigge. Fa tutto da sola e poi “gli altri” passano all’incasso. Finché non ritroverà l’identità socialista democratica, oggi rosso-verde, perduta, e la consapevolezza di dover riformare essa stessa lo Stato malato, tramite governi elettivi e di legislatura alla cui testa ponga sempre e dappertutto gli uomini e donne migliori che ha, sarà sempre forza di complemento. Sic stantibus rebus, che fare?

di Franco Livorsi

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