Populismi, ircocervi e sarchiaponi

      – 1. Credevamo di sapere, più o meno a spanne, cosa fosse il populismo.[1] Ora pare proprio che ci fossimo sbagliati. La questione pare assai più controversa di quanto non avessimo mai pensato. Incontriamo sempre più spesso, infatti, autorevoli commentatori, studiosi e leader politici che parlano tranquillamente di «populismi democratici» e di «populismi di sinistra». La cosa fa uno strano effetto. Per noi che apparteniamo al secolo ormai trascorso, sentir parlare, ad esempio, di «populismo democratico» non può che evocare una buffa contraddizione in termini, un animale impossibile, più o meno come l’ircocervo di crociana memoria. Lo stesso vale per «populismo di sinistra» che ci pare piuttosto assomigliare al famoso sarchiapone, animale perfettamente descritto in uno dei tanti mondi possibili, ma del tutto inesistente nel mondo reale. Se questa nuova fauna viene sempre più ampiamente sdoganata senza suscitare alcuna protesta vuol dire evidentemente che il significato di termini quali democrazia, sinistra e populismo è radicalmente cambiato, o comunque sta subendo uno stiramento davvero senza precedenti. Sia ben chiaro che non siamo fautori di un conservatorismo concettuale a priori. Ammettiamo tranquillamente che nomina sunt consequentia rerum e che, quindi, al mutar della realtà possiamo vederci indotti a cambiare, anche radicalmente, i nostri attrezzi concettuali. La domanda è se siamo effettivamente giunti a questo punto. O se, invece, queste licenze logiche e terminologiche non siano esse stesse da considerarsi come una conseguenza del dilagare stesso del populismo. Un dilagare che sta facendo scempio dello stesso linguaggio, non solo di quello comune ma anche di quello specialistico.

      – 2. Una buona occasione per discutere e approfondire il rapporto sia tra il populismo e la dottrina standard della democrazia[2] sia quello tra il populismo e la dicotomia tra destra / sinistra ci è fornita dalla pubblicazione presso Laterza del libro Per un populismo di sinistra di Chantal Mouffe.[3] La studiosa inglese (di origine belga) è conosciuta per la sua attività, negli ultimi decenni, insieme a Ernesto Laclau, nell’ambito di una corrente di studi su socialismo, populismo e democrazia.[4] A differenza di molti politici e intellettuali che il populismo l’hanno per lo più praticato nelle più diverse declinazioni, Laclau e Mouffe hanno invece cercato di sviluppare una vera e propria teoria del populismo, dai caratteri alquanto insoliti e originali. Come conseguenza di questa stessa attività teorica, recentemente Mouffe è sempre più spesso intervenuta attivamente a sostegno di vari movimenti come Podemos o La France insoumise, individuati come «populisti di sinistra». Ha suscitato diverse simpatie anche presso la nostrana sinistra – sinistra. Insomma, Mouffe rappresenta oggi colei che si sta sobbarcando il compito di fornire al nuovo populismo una fondazione filosofica e politologica di ampio respiro, oltre a un conseguente fattivo appoggio pratico.

      – 3. Quella di Mouffe / Laclau è senz’altro una prospettiva teorica eterodossa, che spesso è stata definita come post-marxista, sebbene forse la dizione più corretta potrebbe essere quella di poststrutturalista o, addirittura, di postmoderna. I due Autori sono, in effetti, caratterizzati da un certo eclettismo di fondo che cerca di connettere in una visione unitaria concezioni invero assai disparate che paiono più che altro essere accomunate da una qualche opposizione alla modernità. Sono stati influenzati in modo particolare dallo strutturalismo, da Althusser in particolare, dal pensiero di Gramsci e dalla psicoanalisi (soprattutto quella lacaniana). Non mancano neppure copiosi riferimenti a Machiavelli e a Carl Schmitt. Non è nostra intenzione, qui, entrare dettagliatamente nel merito della teoria dei due Autori, che peraltro presenta una certa complessità e, talvolta, alcune oscurità. Cercheremo piuttosto, in quel che segue, di compiere una lettura critica del libro della Mouffe, utilizzandolo per evidenziare e discutere i problemi che abbiamo segnalato in apertura. Problemi che, al di là della teoria, rivestono oggi una schietta dimensione pratico – politica. Prenderemo in considerazione le questioni teoriche di fondo solo quando ci sembrerà necessario.

      – 4. Per chi non conosca le teorie elaborate dai due Autori conviene comunque sviluppare qualche considerazione introduttiva. La posizione post-marxista di Laclau e Mouffe si caratterizza anzitutto per quello che loro chiamano anti essenzialismo. Si tratta, in parole povere, di un rifiuto della prospettiva della lotta di classe, com’è stata definita nella teoria marxiana e marxista. Questa posizione implica, come diretta conseguenza, anche un abbandono di qualsiasi forma di determinismo socio economico. Gli schieramenti che si confrontano nel campo politico non sono più principalmente determinati dagli interessi materiali delle parti in causa, quanto da aggregazioni di significati che si formano sul terreno retorico linguistico. In questo senso vanno i copiosi riferimenti a Gramsci (al Gramsci dei Quaderni, in particolare) e alla sua prospettiva culturalista. Va segnalato tuttavia che l’anti essenzialismo dei due Autori s’inscrive più che altro nell’orizzonte del relativismo e delle filosofie postmoderne, quegli orientamenti cioè che notoriamente hanno sottoposto a critica e rifiutato radicalmente tutti i tipi di fondazionalismo e tutte le «grandi narrazioni» della modernità, comprese le diverse ideologie politiche di matrice illuminista.

      I due Autori – e questa è forse la loro principale caratterizzazione – hanno sviluppato una originale teoria del potere politico tutta incentrata intorno alla nozione gramsciana di egemonia. Si tratta, indubbiamente, di un particolarissimo uso della filosofia gramsciana, caratterizzato da forti coloriture foucaultiane. L’egemonia è concepita nei termini di un’egemonia esclusivamente culturale, la quale si esercita all’interno di uno spazio politico che è, a sua volta, concepito come uno spazio discorsivo di tipo retorico. Non si tratta quindi, qui, di cultura in senso antropologico ma di cultura intesa in termini di comunicazione. Si nota una certa influenza da parte di Saussure e della sua teoria linguistica che si manifesta soprattutto nel fatto di intendere lo spazio politico come uno spazio di opposizioni, entro il quale ciascun elemento retorico acquisisce il suo significato solo in relazione alla posizione degli altri elementi. Naturalmente, all’interno dello spazio politico il problema non sarà tanto quello di definire un meccanismo di opposizioni significative utile alla produzione linguistica, come in Saussure, quanto quello di stabilire l’identità politica dei contendenti e, contestualmente, il loro peso specifico in termini di conflitto e di potere politico egemonico.

      L’impostazione di fondo dei due autori – già lo abbiamo segnalato – è alquanto relativistica e lo spazio politico è da loro considerato come irrimediabilmente frammentato e disordinato. Poiché lo scopo della politica è di costruire dei soggetti collettivi in competizione, la formazione dei contendenti avviene attraverso l’aggregazione in blocchi di punti di vista che possono essere considerati tra loro equivalenti. I due autori parlano in proposito di catene di equivalenza. Nell’agone politico, ha maggiori probabilità di divenire egemone chi riesce a costruire, a discapito degli avversari, un’aggregazione in termini di equivalenze che sia più forte delle altre.

      – 5. Con ciò abbiamo enunciato tutto quel che ci serve per giungere a comprendere un concetto fondamentale, secondo Laclau e Mouffe, e cioè proprio a quello del popolo. Per i due Autori, un’identità egemonica che si costituisca nel campo politico in contrapposizione agli avversari, grazie a una catena di equivalenze, costituisce un popolo.[5] Il popolo quindi altro non è se non un’aggregazione volontaristica ottenuta con strumenti di tipo retorico. Il popolo, inoltre, si costituisce in termini di opposizione, contro chi è ritenuto nemico del popolo. È il caso di far notare che il popolo non costituisce una semplice maggioranza transitoria: la formazione egemonica del popolo – si capisce dal testo – qualora abbia successo non si limita a governare (a detenere cioè il potere politico in quanto maggioranza) ma conferisce la sua forma a un’intera epoca storica,[6] poiché caratterizza non solo le decisioni politiche, ma un’intera prospettiva sociale e culturale. La formazione egemonica può essere considerata, insomma, alla stregua di uno schema culturale in senso foucaultiano, capace di caratterizzare un’intera epoca storica. Mouffe fa gli esempi del tatcherismo, oppure del neoliberismo oppure, ancora, della socialdemocrazia.[7] Volendo trovare precedenti illustri, la formazione egemonica di un popolo può ricordare l’hegeliano Spirito del tempo.

      – 6. A partire dalla loro concezione egemonica del potere, Laclau e Mouffe hanno elaborato e proposto un modello politico da loro definito come democrazia radicale. Il termine “democrazia” potrebbe qui far pensare che i due autori, una volta abbandonato il marxismo, siano approdati a una teoria della democrazia in senso standard. In effetti non è proprio così: la loro democrazia radicale sembra non coincidere con la democrazia standard – anche se pare che non vi si opponga del tutto, almeno secondo l’opinione di Mouffe.

      Mouffe spiega, infatti, come ci siano, a suo parere, due modelli di strutturazione del campo politico: il modello associativo e il modello dissociativo. Afferma in proposito l’Autrice che: «Esistono due modi per immaginare il campo politico. Il primo dei due, il modello associativo, lo vede come il terreno della libertà e dell’agire di concerto. In alternativa, il modello dissociativo concepisce la sfera politica come un terreno di conflitto e antagonismo. La mia riflessione condivide la visione dissociativa […], per cui sono due i concetti chiave per comprendere la natura del politico: «antagonismo» ed «egemonia».».[8]

      Laclau e Mouffe mirano dunque niente meno che a fornire una nuova teoria del politico. Il “modello associativo” da cui Mouffe prende le distanze corrisponde evidentemente alla visione contrattualistica, che è quella in base alla quale è nata l’idea stessa della democrazia e che è confluita nel modello standard. Attraverso il suo modello dissociativo, incentrato invece sui concetti chiave di antagonismo ed egemonia, pare dunque che Mouffe voglia conferire alla sua nozione della democrazia radicale un fondamento non contrattualistico. Si tratta in effetti di un fondamento che presenta molte analogie con la coppia concettuale schmittiana di amico/nemico. Il popolo “sovrano” non nascerebbe più in seguito a un contratto, bensì intorno a una formazione egemonica (il popolo di cui s’è detto) che si definisce nella contesa contro qualcun altro.[9]

      Nel modello dissociativo della Mouffe non esistono dunque individui singoli che si associano, si sottomettono a una volontà generale e poi deliberano, come nel contrattualismo classico. Non esistono neppure soggetti che si scontrano per tutelare la sfera dei loro interessi particolari. I soggetti che si confrontano nel campo politico sono entità di significato costituite attraverso le armi della retorica, attraverso le catene di equivalenza. Quello di Laclau/ Mouffe è un modello di società politica dove non esistono individui autonomi, teste libere che si contano attraverso il voto, ma piuttosto poli opposti, agglomerati di significato che si scontrano per l’egemonia. Gli individui mobilitati nel conflitto sono solo tenui emanazioni dei poli egemonici stessi.[10]

      Insomma, la politica non è principalmente il campo dell’aggregazione. Essa è bensì vista come un prodotto dello scontro, dell’antagonismo. Nel campo politico non c’è spazio per la neutralità, per regole super partes. Il popolo, per costituirsi ha bisogno di individuare i suoi nemici. Esso si costituisce sempre contro i nemici del popolo. La natura ultima della politica è data dal farsi popolo contro coloro che sono individuati come nemici. È stato ovviamente obiettato a Laclau che la sua descrizione del populismo come fondamento del politico potrebbe perfettamente adattarsi anche a descrivere il partito nazista. In effetti, nei concetti fondativi del politico populista di Laclau e Mouffe, cioè nell’antagonismo e nell’egemonia, non c’è davvero nulla che possa predeterminare le regole di una democrazia in senso standard. Manca cioè completamente l’idea del patto e del cittadino sovrano di matrice illuminista.

      La non esistenza di individui autonomi che possano sottoscrivere un contratto è ricavata dai due Autori – lo vedremo in seguito – attraverso una complessa teorizzazione di stampo psicoanalitico e post strutturalista circa la debolezza e la frammentazione dell’Io. La caratterizzazione post moderna di questa prospettiva dovrebbe essere evidente: l’individuo autonomo, tipico della modernità, quello che attraverso un patto andava a costituire il cittadino, per questi teorici, non esiste più (o, forse, non è mai esistito). Ci sono solo posizioni retoriche forti o deboli che definiscono di volta in volta la labile natura degli aggregati di individui. Gli individui sono emanazioni del campo di forza (o di potere) che li egemonizza (attraverso il dominio e/o il consenso). [11]

      – 7. Mentre nel modello standard della democrazia il bene comune viene definito attraverso strategie argomentative che devono seguire determinate regole – le regole ad esempio che sono state definite da Habermas nella sua teoria dell’agire comunicativo – nel modello conflittuale di Laclau e Mouffe esso è individuato solo ed esclusivamente attraverso strategie retoriche dove, più che la ragione argomentativa o l’etica della comunicazione, prevale la forza di ciò che si equivale. La forza, come si è visto, è data dalla capacità retorica di costruire catene di equivalenza tra molteplici domande politiche eterogenee e, quindi, di conferire un maggior peso alla formazione discorsiva che diventa egemone. Da ciò si può desumere come, per gli Autori che stiamo considerando, non abbia alcun senso un’opinione pubblica di tipo habermasiano. Più che l’etica della comunicazione sembra sia valutata soprattutto l’efficacia della comunicazione stessa al fine di produrre un popolo antagonistico il più compatto e il più ampio possibile.

      Va evidenziato che, in questo quadro teorico, le stesse regole della democrazia cessano di essere un elemento invariante, super partes, definito dal patto originario: esse sono costantemente coinvolte nella stessa costruzione retorica egemonica. In altri termini, nella teoria di Laclau/ Mouffe non ci sono le basi fondative per una Costituzione sottoscritta da tutti e che impegna tutti. La Costituzione è riduttivamente, di volta in volta, il complesso delle regole scritto da chi è egemone, cioè dai vincitori. Le regole della democrazia vigenti in un certo momento possono sempre essere contestate e ribaltate da un’azione contro egemonica. Ciò deriva dal fatto che sia il sistema politico sia le sue fonti di legittimità sono costituite solo ed esclusivamente in termini di retorica. La democrazia radicale di Mouffe è una democrazia dove non esistono mai poteri costituiti, ma dove il potere egemonico è per definizione sempre e in ogni momento un potere costituente all’opera (che pretende – così vien detto – non di realizzare la democrazia ma di radicalizzare la democrazia). Si tratta insomma di un sistema democratico privo di stabili fondamenti contrattualistici, del tutto fluido, che vive in un regime di rivoluzione permanente. Indubbiamente, in tutto ciò si sente un forte odore di Schmitt. Sono queste le banali e prevedibili conseguenze di un anti fondazionalismo e di un machiavellismo spinti all’estremo, indubbiamente tipici delle filosofie postmoderne.

      – 8. Veniamo ora più propriamente al populismo. L’Autrice non accetta ovviamente la nozione corrente di populismo,[12] che è per lo più rivestita di connotazioni negative, poiché basata sulle narrazioni della modernità e sulla teoria standard della democrazia. Il populismo – e qui troviamo la compiuta applicazione della teoria di cui sopra – viene invece definito nei termini seguenti. Si tratta di: «[…] una strategia discorsiva per la costruzione di una frontiera politica, che opera attraverso la divisione della società in due campi e chiama alla mobilitazione “i derelitti”, chi è sfavorito, contro “chi è al potere”. Il populismo non è una ideologia e non può essere ricondotto a un contenuto programmatico specifico. Né si tratta di un regime politico. È un modo di fare politica che può assumere forme differenti a seconda del momento e del luogo, ed è compatibile con diverse cornici istituzionali. È legittimo parlare di un “momento populista” quando, sotto la pressione delle trasformazioni politiche o socioeconomiche, l’egemonia dominante è destabilizzata dalla moltiplicazione di domande insoddisfatte. In queste situazioni, le istituzioni esistenti non riescono ad assicurarsi la fiducia delle persone, poiché tentano di difendere l’ordine costituito. Come risultato, il blocco storico che fornisce la base sociale della formazione egemonica si trova disarticolato ed emerge la possibilità di costruire un nuovo soggetto di azione collettiva – il popolo – capace di riconfigurare un ordine sociale sentito come ingiusto».[13]

      Questa descrizione fornita da Mouffe ci pare ricalcare esattamente lo schmittiano stato di eccezione, la descrizione cioè di un potere costituente in atto. Un altro modo per parlare di una situazione rivoluzionaria. Si noti l’espressione utilizzata: «divisione della società». Non si tratta di una divisione dell’opinione pubblica e degli elettori tra una maggioranza e una minoranza, all’interno di un popolo sovrano dotato di una Costituzione, bensì tout court della divisione della società tra un popolo che mira all’egemonia e un corrispettivo nemico del popolo. Quello che Rousseau chiamava con reverenza «il sovrano» e di cui cercava di garantire in ogni modo l’unitarietà, viene tranquillamente spaccato in due e contrapposto. Si noti che si dà per scontato che ci siano i derelitti e coloro che sono al potere, dimenticando che nella democrazia non ci sono derelitti o potentati, visto che in essa vale il principio «una testa, un voto».[14] Si dà evidentemente per scontato che le istituzioni democratiche siano solo forme di copertura al servizio di chi spadroneggia (potentati, élite, oligarchie). Vediamo all’opera qui la solita teoria del disvelamento, secondo cui la democrazia rappresenterebbe soltanto una forma di inganno, la giustificazione formale dell’oppressione di alcuni ai danni di altri. Il conflitto politico e il conflitto sociale tornano a essere la stessa cosa, come nel marxismo.

      Mouffe sostiene, in effetti, che la spaccatura populista avviene inevitabilmente quando le istituzioni vigenti non sono in grado di soddisfare le domande politiche del pubblico. Il populismo dovrebbe dunque essere considerato come una sorta di processo politico di rifondazione delle istituzioni democratiche già fallite. È questa, in sostanza, la riproposizione della situazione della guerra civile, che sia poi effettivamente combattuta o meno in maniera cruenta, ove lo scopo dello scontro è quello di rifondare l’ordine sociale e istituzionale già compromesso. È chiaro che il populismo, in questa accezione, rompe con la situazione esistente e tenta di fondare un nuovo ordine sociale, politico e istituzionale. Il populismo così inteso non amministra mai la banalità dell’ordinario ma s’impone in un quadro di eccezione (tanto per continuare a seguire lo Schmitt).[15]

      Tutto ciò – è appena il caso di sottolinearlo – si oppone nettamente alla teoria standard della democrazia. Stando al linguaggio della teoria standard, il populismo di Laclau/ Mouffe, definito in questi termini, non può che essere considerato eversivo o, se si preferisce, rivoluzionario. Evidentemente è proprio per questo carattere che la democrazia di Mouffe e Laclau è da loro qualificata come radicale. Nonostante condivida questa teoria del politico, a tutti gli effetti nient’affatto democratica, o per lo meno estranea alla democrazia standard, Mouffe ritiene però – come vedremo – che il suo populismo non sia incompatibile con la stessa democrazia standard.

      – 9. Che la sua democrazia radicale non sia priva di ambiguità è un fatto riconosciuto dalla stessa Mouffe, in un capitolo del suo libro che s’intitola Radicalizzare la democrazia. Afferma infatti l’Autrice: «Alcuni credevano che auspicassimo una rottura con la democrazia liberale con la creazione di un regime del tutto nuovo. In realtà desideravamo incoraggiare la «radicalizzazione» dei principi etico-politici del regime liberaldemocratico, «libertà e uguaglianza per tutti». Una dimensione importante di questo progetto era mettere in discussione il convincimento di diverse persone schierate a sinistra che, per costruire una società più giusta, fosse necessario abbandonare le istituzioni liberaldemocratiche e costruire una politeia del tutto nuova, una nuova comunità politica. Da parte nostra, affermavamo che nelle società democratiche sarebbe stato possibile compiere importanti passi avanti in direzione democratica mediante un impegno critico con le istituzioni esistenti ».[16]

      In questo passaggio, la democrazia radicale viene reinterpretata nei termini di una realizzazione autentica dei principi della democrazia standard. Questa estrema “fluidità” concettuale è probabilmente resa possibile dal sincretismo postmoderno e in certa misura dall’onnipotenza della retorica. Ad ogni buon conto, Mouffe ammette che ci siano dei principi importanti della democrazia (su quale base teorica siano ricavati non è molto chiaro – evidentemente sulla base di una teoria associativa della politica e non di una teoria conflittuale!), che soffrono per una loro mancata attuazione: «Il problema delle società democratiche moderne[…] era che i loro principi costitutivi di «libertà e uguaglianza per tutti» non erano messi in pratica. Il compito della sinistra non era di sbarazzarsi di questi valori ma di combattere per la loro attuazione. La «democrazia radicale e plurale» che sostenevamo può dunque essere concepita come una radicalizzazione delle istituzioni democratiche esistenti, con il risultato di rendere i principi di libertà e uguaglianza effettivi in un numero crescenti di relazioni sociali. Ciò non richiedeva una rottura radicale di tipo rivoluzionario, una rifondazione totale. Al contrario, l’obiettivo poteva essere raggiunto in maniera egemonica, attraverso una critica immanente che mobilitasse le risorse simboliche della tradizione democratica».[17] È chiaro qui che si gioca sulla differenza tra un semplice enhancement della democrazia esistente e la costituzione di una diversa democrazia radicale (qualunque cosa ciò voglia significare). Il problema è – come s’è visto – che la visione antagonistico – egemonica non è molto compatibile con i principi della democrazia, almeno di quella standard. Il percorso suggerito per “radicalizzare la democrazia” rischia di non essere affatto democratico.

       Prosegue l’Autrice: «Credo che una strategia populista di sinistra possa, sempre attraverso una critica immanente, intervenire e mettere in discussione la postdemocrazia fino a ripristinare la centralità dei valori democratici di uguaglianza e sovranità popolare. Questa tipologia di intervento è possibile perché, anche se il neoliberalismo li ha relegati in secondo piano, i valori democratici svolgono ancora un ruolo centrale nell’immaginario politico delle nostre società. Inoltre, la loro funzione di critica può essere riattivata per sovvertire l’ordine egemonico attuale e crearne uno differente».[18]

      Se comprendiamo bene, nel quadro normativo del “popolo sovrano” delle attuali democrazie rappresentative sarebbe possibile, su un terreno agonistico egemonico non tanto ben definito, costruire un popolo populista che trovi la sua aggregazione proprio intorno alla retorica dei principi della democrazia. Si tratterebbe insomma di giocare – nell’ambito delle democrazie liberali – la carta di un’espansione dell’elemento democratico che finora sarebbe stato sacrificato a spese dell’elemento liberale: «Contrariamente a quanto si sostiene di solito, la strategia populista di sinistra non è una manifestazione della «estrema sinistra», ma una via differente per immaginare la rottura con il neoliberismo attraverso il recupero e la radicalizzazione della democrazia. […] È proprio all’interno della cornice dei principi costitutivi dello Stato Liberale – la divisione dei poteri, il suffragio universale, il sistema multi partitico, i diritti civili – che sarà possibile far progredire tutte le attuali domande democratiche. Opporsi alla postdemocrazia non consiste nell’abbandonare quei principi, ma nel difenderli e radicalizzarli».[19]

      Il progetto della democrazia radicale di Mouffe, nonostante questi chiarimenti, continua purtroppo, a nostro modesto avviso, a rimanere assai ambiguo. Il progetto di un ampliamento delle libertà, dell’eguaglianza e della sovranità popolare è sempre possibile nel quadro normativo della democrazia rappresentativa standard, purché tutto ciò sia sostenuto da un’adeguata maggioranza. Non si capisce perché tutto ciò dovrebbe costituire una radicalizzazione della democrazia. Il fatto è, purtroppo, che una definizione del politico come quella proposta da Mouffe/ Laclau, basata sull’antagonismo e sull’egemonia, non è affatto compatibile con la democrazia rappresentativa standard. Non ci può davvero essere in democrazia un popolo populista che divide in due il popolo sovrano, già giuridicamente definito dalla Costituzione, e che sviluppa un conflitto antagonistico contro l’altra parte. Le regole, i principi, i valori della democrazia rappresentativa non possono essere degradate a semplici retoriche usate dalle parti in conflitto per i propri disegni egemonici. Si è visto recentemente in Italia cosa può succedere quando le parti usano la riforma della Costituzione come tattica politica ordinaria.

      Il fatto è che Mouffe pensa, forse in termini di retro pensiero, che l’attuale ordinamento democratico standard sia già stato completamente stravolto dalla attuale formazione egemonica della postdemocrazia e quindi ritiene che per rimettere in funzione la democrazia stessa (cioè per realizzare la sua democrazia radicale) sia necessaria una lotta egemonica – condotta però sul terreno stesso della democrazia. È un altro modo per sostenere che attualmente la democrazia non c’è più, che siamo in una condizione di emergenza e che quindi, il popolo egemonico, come nuovo sovrano, dovrebbe accingersi a ricostituire quel che la postdemocrazia ha disfatto.

      Si tratta, come ognun vede, di affermazioni assai generiche, confuse, di ordine piuttosto disparato, per certi aspetti anche condivisibili, anche se talvolta lasciano trasparire gli effetti indesiderati del groviglio teorico postmoderno che fa da sottofondo alla teoria. Non è ben chiaro quale possa essere il rapporto tra una democrazia rappresentativa che realizzi finalmente i propri principi e una democrazia radicalizzata che veda l’esercizio del potere egemonico antagonistico di un popolo contro l’oligarchia che lo opprime. Non è molto chiaro come una democrazia rappresentativa già instaurata abbia bisogno del populismo per radicalizzarsi, cioè per diventare più democratica.

      – 10. La teoria che abbiamo cercato di sintetizzare – al meglio delle nostre capacità – permette a Mouffe di interpretare i recenti eventi storico politici dell’Occidente come un avvicendamento di diversi “popoli” egemonici. Alla formazione egemonica di stampo socialdemocratico, basata sul welfare state keynesiano, sarebbe succeduta la formazione egemonica neoliberale. Entro questa formazione si sarebbe determinata da un lato la crisi della democrazia, che avrebbe portato a quella che Mouffe chiama post democrazia, o post politica, sulle orme di Colin Crouch.[20] Dall’altro, si sarebbe determinata una crescente oligarchizzazione della società. Contro questa situazione post democratica – che come conseguenza avrebbe determinato anche un blocco della politica antagonisticamente intesa – sarebbero oggi insorti i movimenti populisti, dando vita all’attuale momento populista. Il nuovo populismo dunque costituirebbe una ripresa della politica antagonistica e ciò andrebbe considerato come qualcosa di eminentemente positivo.

      – 11. Se il populismo – come è stato sostenuto da Mouffe – è la giusta rivolta dei derelitti contro i privilegiati, in tutte quelle situazioni in cui il sistema politico non fornisce le risposte dovute, allora ogni populismo dovrebbe essere buono. Mouffe ritiene invece, non senza qualche incoerenza, di dover distinguere tra un populismo di destra e un populismo di sinistra. Solo quest’ultimo sarebbe effettivamente buono, e cioè in grado di radicalizzare effettivamente la democrazia. Osserva Mouffe che: «Entrambe le tipologie di populismo mirano a federare le domande insoddisfatte, ma lo fanno in modi del tutto dissimili. La differenza sta nella composizione del “noi” e nel modo in cui l’avversario, il “loro”, è definito. […] Il populismo di sinistra […] desidera restaurare la democrazia per rafforzarla ed estenderla. Una strategia populista di sinistra ambisce a riunire le domande democratiche in una volontà collettiva per costruire un “noi”, un “popolo” che fronteggi un avversario comune: l’oligarchia».[21] Purtroppo Mouffe non dice con altrettanta chiarezza cosa “fa” invece il populismo di destra.

      Non è davvero facile capire cosa significhi “restaurare la democrazia per rafforzarla ed estenderla”. Abbiamo visto come, per Laclau/Mouffe, la democrazia è una retorica che può essere usata nel quadro antagonistico egemonico contro l’oligarchia, le élite, i potentati che opprimono il popolo. In questo quadro però la classica distinzione tra destra e sinistra sembra destinata a venir meno. Il popolo in effetti può trovare la propria retorica unificante intorno a qualsivoglia obiettivo, come la costruzione di un muro sui confini, oppure intorno alla lotta contro l’oligarchia di Bruxelles. Non si capisce su quali basi teoriche i brexiter o gli Orban debbano essere considerati peggio di Podemos o di La France Insoumise. Nulla assicura che la lotta contro i nemici del popolo, individuati sulla base delle retoriche populiste, porti effettivamente a un rafforzamento e a un’estensione della democrazia. Oltretutto, per dire con chiarezza cosa significa rafforzare ed estendere la democrazia, una precisa teoria del contenuto della democrazia (non soltanto di tipo conflittuale) bisognerebbe pur averla.

      – 12. Sembra poi che, secondo Mouffe, i populismi di destra non siano proprio “di destra” secondo l’accezione tradizionale. Avendo tutti i populismi una radice in una condizione di malcontento, nel quadro di una opportuna retorica egemonica anche i populismi di destra possono essere arruolati nella battaglia per la democrazia radicale. Insomma, si prospetta, probabilmente sulla base della comune origine in termini di fondazione teorica, la possibilità di un passaggio dal populismo di destra a quello di sinistra.[22] Afferma infatti Mouffe che: «Per fermare la crescita dei partiti populisti di destra è necessario elaborare una risposta schiettamente politica attraverso un movimento populista di sinistra che federi tutte le lotte democratiche contro la postdemocrazia. Anziché escludere a priori gli elettori dei partiti populisti di destra, perché necessariamente animati da passioni primitive, condannandoli quindi a restare sempre prigionieri di quei sentimenti, è necessario riconoscere il nucleo democratico all’origine di molte delle loro domande. Un approccio populista di sinistra dovrebbe provare a fornire un lessico differente per orientare quelle domande verso obiettivi più egualitari».[23]

      Anche qui non è chiaro cosa siano e che senso abbiano gli «obiettivi più egualitari». L’egualitarismo è – ahimè – una tipica narrazione della modernità che fa una certa fatica a trovare posto nel vocabolario politico postmoderno. Nella teoria conflittuale di Laclau/ Mouffe, ad esempio, non c’è proprio alcuna base per sostenere l’inclusione degli immigrati. Se il popolo oppresso trova la sua costituzione contro gli immigrati, e così diventa egemone, si avrà un legittimo populismo di destra. Per includere gli immigrati occorrerà basarsi sulla ripresa delle retoriche della modernità, sulla base di valori universalistici, cioè sulla base delle tanto deprecate grandi narrazioni.

      – 13. Su queste basi, Mouffe spiega quelle che sono, a suo parere, le ragioni di incomprensione tra quel che resta dei partiti socialdemocratici e i nuovi populismi: «I partiti socialdemocratici, che in molte nazioni hanno svolto un ruolo importante nell’attuazione delle politiche neoliberali, sono incapaci di cogliere la natura del momento populista e di fronteggiare la sfida che rappresenta. Prigionieri dei loro dogmi postpolitici e riluttanti ad ammettere gli errori commessi, non sanno riconoscere che molte delle domande articolate dai partiti populisti di destra sono domande democratiche, cui bisogna fornire una risposta progressista. Molte di queste domande provengono, infatti, dai gruppi maggiormente colpiti dalla globalizzazione neoliberale e non possono essere soddisfatte entro la sua cornice».[24] Aggiunge l’Autrice: «Classificare i partiti populisti di destra come “di estrema destra” o “neofascisti”, e attribuire il loro appeal alla mancanza di cultura di chi li sostiene è una soluzione fin troppo comoda per le forze di centrosinistra. È un facile espediente per sminuire il fenomeno senza riconoscere le responsabilità dello stesso centrosinistra per questa emergenza».[25]

      Su questo punto saremmo tentati di dar ragione a Mouffe, se non fosse per il fatto che non è davvero facile distinguere gli effetti della globalizzazione sulla condizione di vita delle grandi masse dagli effetti della attiva propaganda populista. È davvero difficile considerare Orban, con tutti i suoi seguaci, come un semplice effetto della globalizzazione. Si può concordare sul fatto che l’accusa di fascismo tout court rivolta ai populisti sia inappropriata. Il fatto è che tra il fascismo e la democrazia c’è un ampio spazio di gradazioni intermedie dove si consuma piuttosto l’estraneità alla democrazia.

      Avremmo comunque, seguendo Mouffe, una specie di bizzarro raddoppio dello spazio politico: partiti di destra e sinistra tradizionali che rappresenterebbero la postdemocrazia oligarchica e, quindi, non sarebbero in grado di rappresentare efficacemente gli antagonismi egemonici. Poi, i nuovi populismi, che sarebbero gli autentici portatori del conflitto contro le oligarchie, a loro volta suddivisibili in populismi di destra e populismi di sinistra. In questa pletora, solo i partiti populisti di sinistra sarebbero però in grado di costruire (evidentemente in termini egemonici) e sostenere la nuova democrazia radicale. Questo perché più egualitari. Dunque i populismi di sinistra dovrebbero sviluppare una retorica basata sull’egualitarismo per arruolare gli elettori populisti di destra. Un programma che ci pare davvero bello e impossibile.

      – 14. Mouffe sembra non rendersi conto che, se si guarda ai contenuti delle lotte e dei conflitti contemporanei, non è semplice individuare dei contenuti che sicuramente costituiscano un avanzamento (o radicalizzazione che dir si voglia) della democrazia. Certe domande politiche non è davvero chiaro se siano democratiche o anti democratiche. Ad esempio, la costruzione della linea ad alta velocità Torino – Lione può essere interpretata come un attentato alla democrazia (quella locale dei valligiani della val di Susa) o come un progresso nell’integrazione europea del nostro Paese. La questione posta dai No Vax, ugualmente, può essere intesa come l’estensione del diritto democratico di disporre del proprio corpo, oppure come un attentato alla salute pubblica. Stessi problemi riguardano cose come il salario minimo, oppure il “reddito di cittadinanza” grillino. Tutti gli interventi volti a valorizzare il merito possono essere interpretati come democratici oppure come anti democratici. È abbastanza ovvio che nelle società occidentali odierne non bastano più i cappelli generici della maggiore partecipazione o della maggiore uguaglianza a qualificare certe domande politiche come democratiche o anti democratiche. Proprio la «fine delle grandi narrazioni» rende privi di un criterio unificatore della miriade di domande politiche e quindi mette le rivendicazioni continuamente una contro l’altra. E non è detto che la retorica delle equivalenze riesca là dove l’ideologia arranca.

      – 15. Abbiamo già accennato alla sussistenza di un certo eclettismo in queste posizioni che stiamo esaminando. Una specie di anything goes applicato alla politica corrente. Mouffe, nonostante la sua base filosofica postmoderna, sembra in taluni passaggi del suo ragionamento farsi sostenitrice della democrazia rappresentativa, ritenendo dunque che questa sia del tutto compatibile con la sua visione agonistica: «La società è di per sé divisa e attraversata da rapporti di potere e antagonismi, e le istituzioni rappresentative permettono l’istituzionalizzazione di questa dimensione conflittuale. Per esempio, in una democrazia pluralista i partiti politici forniscono cornici discorsive che permettono alle persone di dare un senso all’insieme delle relazioni sociali in cui sono inscritti, nonché di percepire le loro linee di frattura. Se concordiamo sul fatto che la coscienza degli agenti sociali non è l’espressione diretta della loro posizione «oggettiva» ed è sempre costruita discorsivamente, è chiaro che le soggettività politiche saranno plasmate da discorsi politici concorrenti e che i partiti saranno essenziali nella loro elaborazione. I partiti, dunque, forniscono degli indicatori simbolici che permettono alle persone di posizionarsi nella realtà sociale e dar senso al loro vissuto. […] A causa della svolta postpolitica, i partiti hanno perso la capacità di svolgere un ruolo simbolico, ma ciò non dovrebbe condurci alla conclusione che la democrazia possa farne a meno».[26]

      È chiaro che una cosa come l’istituzionalizzazione della dimensione conflittuale non dovrebbe trovare alcun appiglio nella concezione di Mouffe e Laclau. Bisognerebbe ipotizzare la sussistenza di un altro potere istituzionale che è al di sopra delle parti, diverso da quello delle diverse egemonie che si scontrano. Ci si dovrebbe per lo meno domandare quale sia la sua provenienza e la sua legittimità. Si prospetterebbe la ridicola possibilità di una «teoria conflittuale» o antagonistica che trovi però il suo spazio di azione protetto in una dimensione istituzionale regolata di democrazia rappresentativa. Ci viene in mente il “partito rivoluzionario istituzionale” messicano.

      Questa confusione di fondo genera proposizioni come la seguente: «Il problema principale delle attuali istituzioni rappresentative è che non permettono il confronto agonistico tra progetti differenti di società, condizione per una democrazia in vigore. È dunque la mancanza di un confronto agonistico a privare i cittadini della loro voce, non il modello rappresentativo. Il rimedio non risiede nell’abolire la rappresentanza ma nel rendere le istituzioni più rappresentative. È proprio questo l’obiettivo di una strategia populista di sinistra».[27]

      Pare che Mouffe voglia mantenere le istituzioni rappresentative (secondo il modello standard della democrazia) e tuttavia, accanto ad esse, vuole assicurare un conflitto agonistico, con tanto di populismo di sinistra, per renderle più democratiche. È come far coesistere la democrazia rappresentativa con la lotta di classe o con le guerre di religione. Insomma, parrebbe che le istituzioni siano rappresentative solo quando rappresentano il conflitto antagonistico. Un conflitto però che deve essere autentico e sostantivamente diverso dal conflitto ingessato e “istituzionale” tra la destra e la sinistra tradizionali. Si ha il paradosso di un popolo che si costituisce e diviene egemonico (e costituente) e che tuttavia si fa regolare dalle istituzioni (già costituite). Si tratta, insomma, di stare dentro alla democrazia rappresentativa epperò di starne anche fuori.

      – 16. Il capitolo clou del libro di Mouffe s’intitola La costruzione di un popolo. Qui forse si chiariscono, in prospettiva pratica, alcuni dei dubbi e delle ambiguità della teoria che abbiamo sottolineato in precedenza. Assodato che gli individui non hanno una loro effettiva autonomia e sono collocati in un campo di forze retoriche che tendono a catturare il loro consenso e che gli attori autentici della politica sono i popoli egemonici che si costituiscono nel campo politico, sempre attraverso artifici retorici, diventa massimamente rilevante esaminare come si proceda in pratica a costruire il popolo. Oltretutto, la terminologia è invero piuttosto insolita, poiché implica che, nello stesso spazio politico, possono coesistere diversi popoli che si trovano in conflitto per l’egemonia. Insomma, una pluralità di popoli in competizione antagonistica. Solo alla fine si saprà qual’era il popolo autentico – più o meno come nella filosofia della storia di Hegel. Eviteremo qui di scendere nei dettagli e cercheremo di sintetizzare per punti gli elementi che ci sono sembrati più significativi. Per chi fosse interessato, un intero capitolo del libro (il cap. 2) è dedicato a esaminare quello che per Mouffe è stato un caso classico di “costruzione del popolo” e cioè il tatcherismo.

      Il nemico. Anzitutto, secondo Mouffe, la costruzione di un popolo nello spazio politico (siamo sempre in una prospettiva di democrazia radicale) richiede l’individuazione di un nemico. La presenza del nemico pare inevitabile se si parte dall’assunto dell’estrema frammentazione della domanda politica. La spiegazione è assai semplice: in una situazione di estrema frammentazione, è molto difficile unirsi per qualcosa. Molto più facile unirsi contro qualcosa. Afferma Mouffe che: «[…] la costruzione di una volontà collettiva attraverso una catena equivalenziale richiede la designazione di un avversario comune. Questa mossa è necessaria per definire la frontiera politica che separa il «noi» dal «loro», un confine decisivo nella costruzione di un «popolo» ».[28] L’impianto pare qui completamente schmittiano, caratterizzato da una relazione dicotomica tra amico/ nemico. In contrapposizione non troviamo più, come nella democrazia standard, diverse argomentazioni volte a definire un bene comune attraverso la regola della maggioranza, bensì diversi blocchi retorici, uno dei quali riuscirà a prevalere grazie alla sua abilità nello stabilire le catene di equivalenza tra le diverse e disparate domande. E questo grazie alla sua capacità retorica di stabilire una frattura noi-loro. Se si tiene presente che il blocco egemone corrisponde a una globale visione del mondo (come nel caso del tatcherismo) e che può cambiare in fieri le regole stesse della democrazia – poiché queste sono regole come tutte le altre, a disposizione di chi è egemone – non si può non manifestare una certa inquietudine e non rilevare come il ricorso al nemico sia sufficiente a vanificare la stessa nozione standard della democrazia.

      La cittadinanza fluttuante. In contrapposizione a coloro che sono stati abituati a considerare la cittadinanza come una costruzione cumulativa destinata a espandersi sempre più,[29] Mouffe delinea una concezione piuttosto fluida e fluttuante della cittadinanza, tanto da risultare allarmante: «La cittadinanza, pur essendo una categoria centrale per una democrazia liberale pluralista, può essere intesa in modi tra loro diversi che determineranno concezioni della politica molto divergenti».[30] Dunque, anche la nozione della cittadinanza è sottoposta a contesa e alla definizione che ne vien data, di volta in volta, dal potere egemonico vincente. Vien da domandarsi che fine possano fare in questo contesto i diritti di cittadinanza e le garanzie. Mouffe esalta la partecipazione dei cittadini (che tuttavia nelle sue parole pare piuttosto una mobilitazione continua) e si appella addirittura alla tradizione civica repubblicana, forse in omaggio a Machiavelli o a Quentin Skinner, ma poi scivola sorprendentemente fino ad ammettere che cittadino è solo chi appartiene a un certo popolo. Così afferma, infatti, Mouffe: «Una concezione democratica radicale di cittadinanza, concepita come ciò che fornisce la base di un’identificazione comune per le persone coinvolte nelle diverse lotte democratiche, potrebbe essere il luogo di costruzione di un “popolo” mediante una catena di equivalenze. Identificare come cittadini tutti coloro il cui obiettivo politico è la radicalizzazione della democrazia è ciò che unirebbe gli agenti sociali».[31] Fa rabbrividire pensare che, secondo questa concezione “innovativa”, si considerano cittadini del popolo solo coloro che sono coinvolti nelle lotte radicali. E gli altri? Li appendiamo ai lampioni? È chiaro che qui siamo in presenza di una plateale confusione tra la cittadinanza come istituzione – che non può che appartenere a tutti i cittadini – e qualsiasi altro progetto di espansione dei diritti di cittadinanza che sia professato da una posizione politica particolare. Qui comunque lo stiracchiamento e il balletto dei concetti va davvero oltre ogni limite.

      Il leader. Mouffe, dopo aver criticato – non molto chiaramente – forme negative di leadership, ritiene che il leader possa avere una funzione costruttiva nella formazione del popolo: «[…] il leader può anche essere concepito come un primus inter pares, ed è possibile stabilire una relazione differente, meno verticale, tra leader e popolo. Inoltre […] una volontà collettiva necessita di una qualche forma di cristallizzazione degli affetti condivisi, e i legami con un leader carismatico possono svolgere una funzione di primo piano in questo processo».[32] È chiaro che, se l’individuo post moderno è per definizione debole e frammentato, allora sarà necessaria la cristallizzazione degli affetti, o si renderà disponibile la identificazione tra i singoli e il leader. Si spera che almeno il leader non sia “debole e frammentato”. Tutto ciò, naturalmente, in barba a tutta la letteratura disponibile (compresa quella psicoanalitica) che getta montagne di dubbi sugli ambigui rapporti tra leader e masse.

      I sentimenti delle masse. Mouffe dichiara poi esplicitamente che la componente affettiva ha una grande importanza nella costruzione di un popolo. Infatti sostiene che: «La mancata comprensione della dimensione affettiva nel processo di identificazione è, dal mio punto di vista, una delle ragioni principali per cui la sinistra, chiusa in una cornice razionalista, è incapace di afferrare le dinamiche della politica».[33] Oggi – devo qui osservare a mo’ di battuta – attribuire alla sinistra una qualificazione di razionalista ha un effetto davvero piuttosto buffo, ma è perfettamente chiaro quel che intende l’Autrice. E ancora, sempre sulla stessa questione: «Riconoscere il ruolo cruciale svolto dalla dimensione affettiva in politica e dal modo in cui può essere mobilitata è di fondamentale importanza per progettare una strategia populista di sinistra che abbia successo».[34] Il motivo fondamentale è sempre la convinzione della non unitarietà del soggetto condivisa da Mouffe (e un po’ da tutta la filosofia postmoderna). In sostanza, l’individuo cui fa riferimento la teoria standard della democrazia è un individuo relativamente unitario, che sa cosa vuole, conosce i suoi interessi e quelli della collettività, e che è in grado di sostenere le sue scelte. O, comunque, un individuo che è in grado di maturare le proprie scelte discutendone con gli altri. L’individuo cui fa riferimento la teoria conflittuale di Mouffe in realtà non sarebbe affatto unitario, sarebbe scisso e passerebbe continuamente da una forma di consenso all’altra. Tutte identificazioni transitorie. L’unica sua identità sarebbe costituita dalla successione erratica di questi passaggi.

      Evitiamo qui per brevità di riprendere tutti gli approfondimenti della questione proposti dall’Autrice. Ci limitiamo a notare come la qualifica di irrazionalismo che spesso è rivolta, in forma critica, alla politica populista è qui invece considerata come la condizione del successo di qualsiasi politica e quindi anche delle politiche populiste che dovrebbero svilupparsi in un ambito democratico radicale. Insomma, se volete vincere, un po’ di irrazionalità non guasta.

      Si noti, concludendo questa rassegna degli espedienti per costruire il popolo, come questi procedimenti siano da Mouffe considerati non solo espedienti pragmatici che machiavellicamente possono portare al successo. Questi processi costituirebbero la realtà effettuale del politico (saremmo stati tentati di dire l’essenza del politico, se Laclau/ Mouffe non avessero esplicitamente dichiarato il proprio anti essenzialismo). E, soprattutto, la base effettuale della sua democrazia radicale. Il populismo sarebbe quindi la manifestazione più elementare della politica, da cui ahimè deriverebbero tutte le altre. In questo senso, come abbiamo visto, il populismo stesso – nella versione di sinistra – può candidarsi a rinnovare la politica che sarebbe stata distorta dalla post democrazia neoliberista.

      – 17. A questo punto abbiamo accumulato numerosi elementi, sia di tipo descrittivo sia di critica puntuale, che possiamo cercare di utilizzare per dirimere, almeno sommariamente, le questioni poste all’inizio, e cioè se termini come «populismo democratico» o «populismo di sinistra» abbiano un qualche senso o se, invece, non siano da considerarsi come ircocervi e/o sarchiaponi.

      Un primo elemento che s’impone, e che possiamo dare per acquisito, è il fatto che parlare di populismi democratici può essere ammesso – pur con il rischio di suscitare notevole confusione – in un senso meramente descrittivo, riferendosi con ciò a quei nuovi populismi che di fatto operano nel quadro delle democrazie rappresentative e che non intendono – almeno esplicitamente nei loro programmi – sovvertirle. Questo è tuttavia un significato decisamente banale e di scarsa qualità contenutistica, magari utile per la catalogazione dei diversi attuali partiti populisti o per comparare i populismi storici antidemocratici con quelli odierni. La presenza di fatto di movimenti e partiti populisti nei sistemi democratici contemporanei non è tuttavia sufficiente a chiarire se questi populismi possano essere considerati come effettivamente democratici sul piano della teoria politica.

      Se andiamo appena oltre il significato strettamente descrittivo allora ci imbattiamo immediatamente nella questione della compatibilità dei nuovi populismi con la democrazia standard. La qual cosa è ampiamente emersa nel corso della nostra discussione delle posizioni di Laclau/ Mouffe. Va da sé che la teoria di Laclau /Mouffe non esaurisce la complessità dei nuovi movimenti populisti. Essa comunque, allo stato attuale, pare essere la teoria più compiuta e consapevole e perciò la possiamo considerare come particolarmente rappresentativa. D’altro canto, i diversi specifici movimenti e partiti populisti hanno i loro intellettuali, i loro leader, i loro mezzi di informazione e i loro programmi. Sarà compito di un’analisi comparata dei vari populismi produrre una descrizione empirica dei loro presupposti teorici. Un’interessante introduzione a questo tipo di indagine si può trovare nel recente Graziano 2018. Sul piano pratico più che su quello teorico, una esigenza di chiarificazione e di coordinamento a livello internazionale dei vari movimenti populisti è sorta nell’ambito del populismo stesso. Sono noti gli sforzi da parte di Steve Bannon per costruire una specie di Internazionale populista. L’apparato teorico di cui dispone Bannon sembra tuttavia abbastanza limitato e non particolarmente originale – senza dubbio di gran lunga inferiore a quello di Laclau / Mouffe – risalendo più che altro alla tradizione della cultura della estrema destra, sebbene il suo potere di attrazione sembri alquanto elevato.

      – 18. Esaminando da vicino la teoria di Laclau/ Mouffe, abbiamo potuto renderci conto che non è davvero facile fare a meno della teoria standard della democrazia. La stessa Mouffe, dopo avere cercato una fondazione del tutto antimoderna del politico è stata in un certo senso costretta a recuperare il quadro istituzionale della democrazia rappresentativa. In sostanza, non è facile definire e far funzionare la democrazia al di fuori della sua base teorica moderna e illuministica o, peggio, contro di essa. Tradizioni antimoderne o postmoderne possono magari anche ammettere e mantenere un guscio democratico (quello formale) – peraltro sempre disprezzato in nome di una qualche altra democrazia più vera – ma non possono che alterarne il contenuto. Fare a meno di una qualche nozione di contratto, di una nozione giuridica del popolo come corpo sovrano, dell’individualità e autonomia del cittadino, dello spazio pubblico, concepire il potere in termini arbitrari e ridurre a retorica ogni aspetto comunicativo e significa, in effetti, distruggere i contenuti della democrazia stessa.

      Questo non toglie – come abbiamo riconosciuto – che partiti e/o movimenti populisti possano rispettare le regole della democrazia formale, ma queste regole, seppur rispettate, difficilmente potranno entrare a fare parte propriamente della cultura politica populista, poiché tipico dei nuovi populismi pare essere proprio la forzatura continua delle regole della democrazia. Come bene ha esemplificato Mouffe, la democrazia populista è definita, di volta in volta, da chi è egemone. Insomma, i populismi possono usare la democrazia, usare il quadro istituzionale esistente, ma la democrazia nella sua teoria standard non pare far parte integrale del loro DNA. Usando un criterio assai largo, possiamo esprimere questo concetto asserendo che i nuovi populismi sono in un certo senso indifferenti o estranei alla democrazia. Oggi essi si sviluppano sul terreno delle democrazie, sfruttandone ampiamente gli spazi di libertà e cercando di adeguarsi alle loro regole formali. Possono essere utili alla democrazia, quando svolgono un ruolo critico, quando segnalano una serie di problemi non risolti. Possono tuttavia rappresentare un pericolo, quando cercano di trasformare la democrazia a loro immagine e somiglianza. Questa è anche la conclusione di Cas Mudde, che è uno degli studiosi più rigorosi del populismo, in un suo saggio recente.[35] Populismo e democrazia standard sembrano dunque andare ciascuno per la propria strada e se si incontrano lo fanno soltanto incidentalmente.

      – 19. Se il rapporto del populismo con la democrazia è principalmente quello di una generica estraneità o indifferenza, ha qualche senso allora distinguere tra i populismi di destra e quelli di sinistra? È davvero possibile un populismo di sinistra? La risposta a questa domanda naturalmente dipende da cosa intendiamo per destra e sinistra. Qui, purtroppo per il lettore, si rende necessaria un’ultima ulteriore digressione.

      Steven Lukes, uno dei massimi studiosi contemporanei del fenomeno del potere, ha introdotto un’importante distinzione storico – sociologica tra due diverse concezioni del potere, quella orizzontale e quella verticale.[36] Com’è noto, la distinzione moderna tra destra e sinistra è nata con i primi parlamenti, al tempo della Rivoluzione francese, quando le componenti rappresentative in competizione vennero poste sullo stesso piano, in una dimensione orizzontale – simboleggiata dall’emiciclo della maggior parte dei parlamenti. È quello che Lukes chiama principio di parità. Destra e sinistra (con le ovvie ammucchiate al centro) rappresentavano tutto quel che c’era da rappresentare. In quell’arco avvenivano i conflitti, i patti, le alleanze. Certo, c’erano pur sempre gli esclusi dalla rappresentanza. Infatti, la storia dei due secoli successivi fu impiegata per ampliare la rappresentanza a fasce sociali sempre più estese (e questo fu senz’altro un grande merito dei movimenti socialisti). Oggi – almeno nelle democrazie occidentali – tutti i cittadini sono rappresentati, pur sussistendo ancora qualche problema rispetto a certe categorie di persone, come i sedicenni, le donne, oppure gli immigrati che vivono e lavorano sul territorio e spesso non hanno la cittadinanza.

      Quando i populisti invocano invece una distinzione tra popolo ed élite o tra popolo e oligarchia (il potere egemonico contro i nemici del popolo) si rifanno invece, che ne siano consapevoli o meno, a una distinzione verticale, del tutto analoga a quella tipica dell’antico regime. Si tratta, questa, di una distinzione effettivamente radicale, cioè di una situazione dove non ci può essere rappresentanza alla pari. Oligarchie ed élite per definizione pari non sono e non possono mai diventarlo. Tra il popolo e le élite non ci può essere alcun tipo di reciproco riconoscimento.[37] Secondo la vulgata populista, le élite e le oligarchie condizionano le decisioni a loro favore, fanno quel che vogliono, ben al di là della prassi che fa corrispondere a «una testa, un voto». Popolo ed élite in tal modo si trovano su fronti contrapposti, sono incompatibili. Per questo il populismo assume talora il carattere proprio della rivolta da parte del basso contro l’alto.

      – 20. Con queste sue formulazioni caratteristiche però il populismo si colloca chiaramente oltre la distinzione orizzontale tra destra e sinistra. In altri termini, nei populismi, la distinzione «moderna» tra destra e sinistra, che è fondata sul principio orizzontale di parità, viene messa tra parentesi di fronte alla distinzione, decisamente più arcaica, tra popolo ed élite, che è una distinzione feudale, assolutistica, premoderna. Una distinzione che è basata sul defunto principio di verticalità. Si tratta così, per i nuovi populisti, non semplicemente di stare al governo o l’opposizione, collocandosi su un asse destra – sinistra, ove si dibattono e si costruiscono le reciproche posizioni e alleanze, ma di costruire un popolo che diventi egemone, contro tutto ciò che opprime il popolo e che, per definizione, viene collocato in alto. Si tratta cioè ancora di insorgere e “tagliare la testa” (effettivamente o metaforicamente poco importa) al sovrano, poiché il sovrano effettivo attuale (chi ha effettivamente e non solo formalmente il potere) è l’altro, è il nemico. La nozione dell’egemonia di Laclau/Mouffe ricalca esattamente questa prospettiva: sottende, infatti, costantemente la costruzione di un nuovo sovrano. L’egemonia non è data da una semplice vittoria elettorale, o dalla costruzione di una maggioranza parlamentare. Essa è la forma complessiva che lo spazio della politica assume in una certa epoca. Il risultato elettorale è una semplice conseguenza della situazione egemonica che si è già stabilita.

      Il famoso Steve Bannon, ex consigliere di Donald Trump, che sta cercando di costruire una sorta di Internazionale populista e sovranista, è solito ripetere esplicitamente, nelle sue interviste, che la situazione conflittuale venutasi a determinare a livello globale è di tipo feudale, cioè presuppone una verticalizzazione mondiale del potere: sotto stanno i globalizzati, sopra stanno le élite che profittano della globalizzazione. È un conflitto, questo, che non sarebbe affrontabile con gli strumenti tradizionali delle democrazie, cioè con l’alternanza tra destra e sinistra. È un conflitto che coinvolge dunque la stessa nozione di sovranità. Per quelli che pensano come Bannon, la democrazia è ormai svuotata ed è la sovranità stessa che va ricostruita. Bannon è decisamente coerente, per lui non c’è alcuna distinzione possibile tra un populismo di destra e uno di sinistra. La nozione di egemonia di Mouffe/Laclau comunque non è davvero molto dissimile da quella di Bannon, anche se i due studiosi si proclamano «di sinistra». Quella di Mouffe/ Laclau è in ultima analisi una forma di sovranismo, nel senso che il potere egemonico del popolo non può che implicare la riappropriazione di una qualche forma di sovranità che sia priva di limitazioni. Non è un mistero che anche in Italia certi gruppi radicali di sinistra abbiano assunto posizioni decisamente sovraniste.

      – 21. Dovrebbe essere chiaro a questo punto che, in realtà, qui sono in gioco due tipi di conflitto sociale che sono tra loro incommensurabili. Da un lato, il conflitto “moderno” che si basa sul principio di parità lukesiano che è istituzionalizzato all’interno di un sistema rappresentativo democratico. Dall’altro lato, il conflitto “postmoderno” (che, come s’è visto, è del tutto assimilabile a quello premoderno) – che chiameremo, in omaggio a Mouffe, conflitto egemonico – che si basa sul principio di verticalità, cioè sulla lotta del “popolo” contro le élite o le oligarchie “feudali” che stanno sopra e opprimono il popolo. Questa è la distinzione fondamentale, sostenuta dalla stessa Mouffe. I due conflitti concettualmente non possono coesistere ed essere messi sullo stesso piano, poiché sono del tutto eterogenei, si negano a vicenda. Solo se si sostiene seriamente che il conflitto tra destra/ sinistra tipico della modernità sia ormai fuori causa, sia divenuto obsoleto, ci si può risolvere ad adottare e perseguire il conflitto egemonico populista.

      In tal caso, però, difficilmente si potrà asserire che il popolo in lotta contro l’élite oligarchica sia per ciò stesso di sinistra. Sarebbero in tal caso di sinistra i contadini tedeschi del primo Cinquecento, oppure i vandeani, oppure i gilet gialli. Anche Hitler in lotta contro l’élite di Weimar dovrebbe essere allora considerato di sinistra. Evidentemente Laclau e Mouffe non si sono sentiti di collocarsi su posizioni del genere e hanno cercato di recuperare, entro lo schema da loro privilegiato del conflitto verticale popolo/ élite, un’ulteriore distinzione tra destra e sinistra (misconoscendo tuttavia che la qual distinzione è però figlia della democrazia standard). Di qui deriva, nello schema di Mouffe, l’esigenza di distinguere ulteriormente tra un populismo di destra (che si suppone anti democratico) e un populismo di sinistra che vorrebbe realizzare una democrazia radicale, tuttavia mantenendosi nel quadro della democrazia standard. È chiaro che questa soluzione eclettica, adottata da Mouffe, si prospetta come un patetico pasticcio, di natura teorica ma conseguentemente anche di natura pratica.

      – 22. L’impianto di Mouffe avrebbe qualche fondamento solo se la dialettica rappresentativa tra destra e sinistra nelle attuali democrazie fosse definitivamente fuori gioco. In tal caso però si dovrebbe avere il coraggio di teorizzarlo apertamente. Si tratta allora di stabilire quale sia effettivamente la situazione. Il problema è quello di capire se il potere sovrano che si esercita oggi nelle democrazie (la “volontà generale”) è ancora il potere effettivo, oppure se accanto a questo potere, ormai come completamente svuotato, ne esista un altro, più impalpabile, più nascosto, più pervasivo che è il potere delle élite, o delle oligarchie. Verrebbe così a determinarsi una situazione per cui noi crediamo di governare noi stessi attraverso gli strumenti della democrazia standard, ma a comandare veramente sarebbero le élite. Si noti che questo schema interpretativo può essere applicato, di volta in volta, contro qualunque élite, contro le mafie, contro la massoneria, contro le multinazionali, contro la troika, contro la finanza di Davos, contro i tecnocrati di Bruxelles, contro Google, Amazon e tutti coloro che hanno posizioni dominanti sulla rete, contro la lobby ebraica internazionale, la lobby delle armi e quella del petrolio, le agenzie di rating, e così via. L’idea è che questi poteri, che, a torto a ragione, sfuggono in qualche misura alla regolazione da parte delle democrazie degli Stati nazionali, costituiscano una sorta di sistema feudale globale che ha regole proprie e che agisce fuori da ogni controllo. E l’idea è che questo sia il vero e autentico potere. Se questa fosse davvero la situazione, è chiaro che il modello standard della democrazia sarebbe gravemente compromesso. I parlamenti sarebbero soltanto maschere impotenti. E con ciò diverrebbe effettivamente del tutto inutile la tradizionale distinzione tra una destra e una sinistra parlamentari e quindi saremmo giustificati a introdurre una nuova radical democrazia populista ed egemonica anti establishment, anti élite. I populisti autentici dovrebbero avere il coraggio di trarre queste conclusioni. Proprio come ha fatto coerentemente Steve Bannon. È chiaro che Laclau / Mouffe non si sono sentiti di essere coerenti tanto quanto Bannon e così hanno dato vita alla loro ambigua democrazia radicale.

      – 23. Cerchiamo ora di tirar le fila della nostra analisi. Il nostro animale ibrido, l’ircocervo, cioè il populismo democratico, sembra confermarsi dunque nella sua natura di animale impossibile. Proprio Laclau e Mouffe ci hanno mostrato – questa ci pare una conclusione validamente supportata – che qualsiasi sdoganamento del populismo (fosse anche soltanto del cosiddetto populismo di sinistra) ci impone di rinunciare ad aspetti sostanziali della teoria standard della democrazia. Il che ci dovrebbe rendere ben consapevoli del prezzo eventualmente da pagare e, per di più, alquanto sospettosi verso la faciloneria con cui si cerca di introdurre sperimentazioni populiste entro la democrazia. Per quanto riguarda invece il sarchiapone, il populismo di sinistra acutamente immaginato e descritto dalla stessa Mouffe, se è populismo fino in fondo, pare proprio non possa essere di sinistra, per lo meno nel senso che questo termine ha assunto nella modernità. Se invece è modernamente di sinistra, non può d’altro canto essere populista fino in fondo. Insomma, l’intersezione tra populismo e sinistra moderna pare proprio esser vuota. Il nostro animale favoloso, con buona pace della Mouffe, pare proprio destinato a rimanere inesistente.

Giuseppe Rinaldi

17/06/2019

Blog: https://finestrerotte.blogspot.it/

 

OPERE CITATE

2018 Baricco, Alessandro, The Game, Einaudi, Torino.

2019 Baricco, Alessandro, Ora le élite si mettano in gioco, in La Repubblica, 11/1/2019.

1992 Bobbio, Norberto, L’età dei diritti, Einaudi, Torino.

2003 Crouch, Colin, Postdemocrazia, Laterza, Bari.

2018 Graziano, Paolo, Neopopulismi. Perché sono destinati a durare, Il Mulino, Bologna.

2001 Laclau, Ernesto & Mouffe, Chantal, Hegemony and Socialist Strategy. Towards a Radical Democratic Politics, Verso, London. [1985]

2005 Laclau, Ernesto, On Populist Reason, Verso, London. Tr. it.: La ragione populista, Laterza, Bari, 2008.

2003 Lukes, Steven, The Grand Dichotomy of the Twentieth Century, in Ball, T. & Bellamy, R. (a cura di), The Cambridge History of Twentieth Century Political Thought, Cambridge University Press.

2017 Mudde, Cas & Kaltwasser, Cristobal Rovira, Populism. A very Short Introduction, Oxford University Press.

2018 Mouffe, Chantal, For a Left Populism, Verso, London. Tr. it.: Per un populismo di sinistra, Laterza, Bari, 2018.

 

 

NOTE

[1] Si veda il nostro articolo I soggetti del populismo sul blog Finestrerotte (23/03/2017).

[2] Molti negheranno che ci sia una dottrina standard della democrazia o sosterranno che ce ne sia più di una. È chiaro che non possiamo qui entrare nel merito della questione. Intendo qui, banalmente, la dottrina della democrazia che va per la maggiore. Quella che si trova sui manuali. Volendo andare per le spicce, la dottrina della democrazia di Sartori e Bobbio.

[3] Cfr. Mouffe 2018.

[4] I due autori hanno collaborato a lungo e le loro dottrine sono per lo più coincidenti. Laclau è scomparso nel 2014 e Mouffe sta ulteriormente sviluppando la comune teoria. I testi teorici più rilevanti di questo orientamento sono Laclau 2005 [1985] e Laclau & Mouffe 2001. Utilizzerò preferibilmente “Laclau / Mouffe” per riferirmi alla loro dottrina generale. Utilizzerò invece “Mouffe” per riferirmi a quanto contenuto in Mouffe 2018.

[5] Si noti anzitutto che il popolo qui è, di fatto, una parte e che quindi non ha nulla a che fare con il popolo giuridicamente inteso, come quando si dice che «la sovranità appartiene al popolo». Si noti inoltre la totale sottovalutazione dei singoli soggetti individuali e l’assenza di un qualsiasi tipo di contratto. Il dato da cui si parte non è un qualche tipo di stato di natura, come in Rousseau e nella tradizione contrattualistica, bensì lo stato di indeterminatezza della condizione postmoderna. Dato che il soggetto è debole (o frammentato) e dato che non esistono riferimenti fondativi di alcun genere, allora soltanto una qualche potere egemonico può produrre le aggregazioni che servono per costituire il campo politico. Una volta accettata questa prospettiva, resta solo da recuperare la distinzione gramsciana tra dominio e consenso. Come è noto, Gramsci riteneva che l’egemonia del nuovo Principe dovesse essere assicurata dal consenso piuttosto che dal dominio. Se il termine consenso esclude con una certa chiarezza la coercizione dall’esterno, lascia aperta tuttavia una marea di problemi, relativi all’individualità autonoma (o al self) di colui che consente.

[6] C’è un’evidente analogia con le formazioni economico-sociali marxiane. Mentre quelle erano formazioni legate alla struttura, queste sono formazioni sovra strutturali.

[7] Ciò non vare per il populismo che, come si vedrà, per Mouffe costituisce la struttura elementare della politica stessa, o come si dice, del politico.

[8] Cfr. Mouffe 2019: 89.

[9] Si noti che tale modello dissociativo, nonostante l’insistenza posta sul conflitto, non ha molto a che vedere con una teoria del conflitto di stampo weberiano (come in Parkin o in Dahrendorf) la quale è invece perfettamente compatibile con la democrazia liberale.

[10] Questa situazione ha un preciso analogo nella linguistica. È la lingua che complessivamente costituisce i parlanti, ben più di quanto un singolo parlante abbia la possibilità di costituire la lingua.

[11] Per molti versi, gli individui che entrano nel campo politico di Mouffe presentano forti analogie con l’ontologia dei quanta o centri di forza della volontà di potenza nicciana. Lo stesso campo politico tende a strutturarsi esattamente a seconda del gioco dei diversi centri di forza. I quanta di Nietzsche hanno una descrizione in termini ontologici, mentre gli individui di Laclau e Mouffe sono elementi saussuriani che entrano relazionalmente in opposizione per costituire un ordine di significazione. Non posso qui svolgere le implicazioni nicciane di questo discorso. Chi fosse interessato alla questione può consultare il mio articolo Nietzsche e la metafisica, pubblicato sul mio blog Finestrerotte il 02/09/2015.

[12] Vedi un approfondimento sul populismo nel mio saggio I soggetti del populismo, già citato.

[13] Cfr. Mouffe 2018: 5.

[14] Qui naturalmente si passa oltre a qualsiasi distinzione tra il campo politico e il campo economico, cercando di trasferire le diseguaglianze dal campo economico a quello politico. È questo un motivo che risale alla famosa distinzione tra la società civile e lo Stato che, secondo Marx, avrebbe dovuto essere superata nel comunismo.

[15] Chi non ricorda i neoeletti parlamentari del M5S che volevano aprire le istituzioni come tante “scatolette di tonno”?

[16] Cfr. Mouffe 2018: 36.

[17] Cfr. Mouffe 2018: 37-38.

[18] Cfr. Mouffe 2018: 37-38.

[19] Cfr. Mouffe 2018: 46-47.

[20] Cfr. Crouch 2003.

[21] Cfr. Mouffe 2018: 19.

[22] A noi miseri osservatori delle cose umane era sembrato invece assai più possibile un passaggio dal populismo di sinistra a quello di destra. Ma non si può mai dire.

[23] Cfr. Mouffe 2018: 17-18.

[24] Cfr. Mouffe 2018: 17.

[25] Cfr. Mouffe 2018: 17.

[26] Cfr. Mouffe 2018: 55.

[27] Cfr. Mouffe 2018: 56.

[28] Cfr. Mouffe 2018: 61-62.

[29] Si veda ad esempio Bobbio 1992.

[30] Cfr. Mouffe 2018: 63.

[31] Cfr. Mouffe 2018: 65.

[32] Cfr. Mouffe 2018: 70.

[33] Cfr. Mouffe 2018: 71.

[34] Cfr. Mouffe 2018: 76.

[35] Cfr. Mudde & Kaltwasser 2017.

[36] Si veda Lukes 2003.

[37] Recentemente si è parlato di patto implicito tra l’élite e il popolo, una specie di compromesso, evocandone una sua recente rottura. Si veda Baricco 2019 e, per la sua base teorica, Baricco 2018.

 

 

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