Il primo mese (storie di vita militare)

Egidio Lapenta

La mattina del 15 gennaio mi svegliai prima delle 6.30 ed ebbi così modo di ascoltare il segnale della sveglia, dato però non dal trombettiere ma diffuso attraverso una serie di altoparlanti.

Era la mia prima sveglia in caserma. Mi alzai per recarmi ai bagni e mentre prendevo le mie cose dall’armadietto, notai nella branda accanto il caporale istruttore ancora immerso nel sonno.

Ai graduati istruttori era consentito alzarsi dopo, anzi si alzavano all’ultimo minuto, si vestivano e andavano a fare colazione: tanto qualcuno si sarebbe occupato della loro branda.

Ritornato dai bagni, cercai di fare il cubo secondo il regolamento, ma il caporale ci rassicurò:” Per oggi vanno bene ancora le brande fatte come a casa, ma da domani nelle camerate dovranno esserci solo cubi.”

Insieme ai miei compagni mi recai a fare colazione. Rividi l’”Hangar”, il cappello alpino appeso al soffitto, ma tutto era diverso. C’era animazione e i contenitori delle bevande calde e dei cibi erano colmi.

Presi del tè bollente e una merendina confezionata, mi sedetti cercando un volto noto: nessuno. In mezzo a tanta gente ero solo.

Mentre scrutavo in ogni direzione, udii una voce dall’inconfondibile inflessione genovese: era Briasco che si stava lamentando con un altro ragazzo genovese su ciò che non andava.

“Belin, ho dormito da cani. Tutta la notte movimento. Hanno arruolato fino a tardi.”

“E va beh- rispose l’altro- potevano almeno abbassare un po’ le luci.”

“Le hanno spente quando sono finite le operazioni di arruolamento.”

“Va beh… belin …però.”

“E ’vero – mi intromisi- hanno dato fastidio anche a me.”

“E belin, ma che modo… di dove sei?” Mi chiese quel ragazzo.

“Di Alessandria, ma ho studiato a Genova, all’università.”

“Ah Genova…sei laureato? In che cosa?”

“Mi devo laureare in Lettere. Avrei dovuto farcela per marzo, ma ora non so… speriamo”

“Ma sì che ce la fai. – rispose con tono allegro-Come ti chiami?”

“Egidio Lapenta.”

“Io sono Marco Bruzzone. Allora ci si vede… o in camerata o qui.”

“Sì, sì, certo.” Risposi rinfrancato.

Ci demmo appuntamento per l’ora del rancio.

Tornai alla mia camerata. Il tempo di sistemarmi e mi unii agli altri.

Inquadrati seguimmo il nostro caporale all’adunata per partecipare all’alzabandiera.

Era lo stesso piazzale del pomeriggio del giorno prima che avevo visto scendendo dal camion, ma non era più deserto, era affollato di compagnie e ciò che colpiva era la mescolanza di uniformi e abiti civili. Ma non sarebbe stato così per molto.

Il nostro caporale era alto, massiccio ma con un’espressione buona. Mi sembrava un bravo ragazzo. Ero contento. Ma la mia gioia durò poco perché, prima dell’alzabandiera, ci rivelò che avrebbe lasciato presto il posto al titolare della nostra squadra, il caporalmaggiore Roberi.

Dopo l’alzabandiera ci avviammo verso la sede della nostra compagnia per il primo addestramento.

Ebbi la sensazione del mio primo giorno di scuola e mi immalinconii.

Non c’erano molti miei coetanei al CAR, i più erano giovani fra i 18 e i 22 anni, con una visione della vita e un entusiasmo diversi da quelli di uno di 26 anni, per di più preoccupato di non essersi ancora laureato.

La stavo prendendo male, ma non ero l’unico ad avere problemi o preoccupazioni. Alcuni della mia squadra apparivano chiaramente con la mente altrove, tanto che il caporale istruttore, rivolgendosi ad uno di questi, chiese:

“Lei… ha qualche problema?”

“No…no… sto bene.” Rispose il nostro compagno.

“Mi sembra che non stia bene. E ’sicuro?”

“Sì, sì.” Rispose, senza aggiungere altro e tenendo però un comportamento ambiguo. Per un attimo ebbi la sensazione che il tutto potesse sconfinare in una violenta discussione fra graduato e recluta. Ma fortunatamente non fu così.

Il caporale accettò la risposta, proseguendo l’attività senza più tornare sull’argomento. L’ idea che mi ero fatto che quelli più giovani di me fossero tutti spensierati sarebbe stata completamente fugata ascoltando le conversazioni di alcuni di loro, che avevano lasciato a casa situazioni difficili, per cui la vita militare, scandita da regole e riti non sempre comprensibili, li rendeva a volte insofferenti.

Comunque il mese al CAR nella nostra squadra trascorse abbastanza serenamente. E i primi due giorni passarono fra addestramento in borghese e intervalli, per un breve ristoro, fra una attività e l’altra.

Ma tutto andò a regime subito dopo la vestizione, la visita medica (con relativa vaccinazione) e l’assegnazione dell’arma.

Quando ci consegnarono il corredo, ricordo l’espressione di rifiuto che feci alla vista delle mutande di lana: “Non le indosserò mai.”

Era gennaio, aveva nevicato abbondantemente, la temperatura era sotto lo zero e la neve era diventata ghiaccio. Il mattino successivo alla consegna del corredo indossai l’uniforme di servizio, la SCBT (colore verde oliva), di un tessuto poco adatto ad affrontare una temperatura rigida.

“Non ho mai indossato mutandoni, non lo farò certo adesso.”

Guardai fuori dalla finestra: tutto era ghiaccio e gelo.

“Figuriamoci se mi comporto da freddoloso…io. “

Qualche mio compagno di squadra li aveva già indossati la sera precedente.

“L’uniforme basterà a proteggermi dal freddo.”

Quando uscii dalla casermetta per andare a fare colazione fui investito da un’aria gelida.

“Il freddo passerà facendo addestramento.”

Tornato in camerata per gli ultimi adempimenti, vidi qualcuno indossare frettolosamente le mutande di lana, imprecando contro il gelo e la neve e rimpiangendo il bel clima della Liguria.

“Non ci penso nemmeno a metterle. Figuriamoci per un po’ di freddo.”

Un po’ di freddo…altro che… trascorsi la giornata a battere i denti. Non ci era permesso di tornare alle camerate fino alla fine dell’addestramento e non sapevo come fare per difendermi dal gelo.

Durante gli intervalli mi rifugiai nello spaccio per stare un po’ al caldo e sorbire qualche bevanda bollente. Ma al momento di uscire dovetti farmi forza per vincere quel gelo che attraverso l’uniforme mi penetrava in tutto il corpo. Con angoscia contai le ore che mi separavano dalla fine del servizio.

La sera, quando tornai in camerata, aprii la borsa valigia che avevo in dotazione, tirai fuori un paio di lunghe mutande di lana e le indossai. Mi sentii rinascere.

“Se servono, le indosserò. D’altronde non sono l’unico.”

E per tutto il 1982, nei periodi freddi o nelle esercitazioni sulle Alpi, le indossai: il tabù era caduto.

Un altro momento particolare fu la visita medica con relativa vaccinazione. Ciò che veniva inoculato non era un vaccino ma una bomba vaccinale che ci avrebbe dovuto proteggere da più malattie.

Fummo condotti in infermeria, fatti spogliare e lasciati in slip per parecchio tempo prima di essere chiamati in ambulatorio.

Questa era la prassi, niente da dire, ma era gennaio, faceva tanto freddo, la sala d’attesa molto ampia, con un impianto di riscaldamento obsoleto e per giunta funzionante al minimo.

La temperatura quindi non era certo ottimale. Si aggiunga il continuo via vai di personale e reclute da e verso l’esterno, con continue folate di aria gelida all’interno.

Alcuni, entrando, non chiudevano la porta e allora era una esplosione di proteste ed improperi rivolti agli inadempienti, graduati compresi:

“E chiudi sta porta! Porca puttana!”

“Ma stai al Colosseo?”

“Chiudi! Nescio!!”

“Allora! Vuoi chiudere! Fa freddo!!!”

Qualcuno di questi, approfittando del grado o dei mesi di servizio, pretendeva di avere pure ragione e rispondeva alle proteste con disprezzo.

Quello stare a lungo al freddo mi causò un raffreddore che durò alcuni mesi, aggravato successivamente dai campi invernali. Cessò soltanto durante i campi estivi in Sicilia, fra giugno e luglio.

Con Marco diventammo amici. Insieme andavamo allo spaccio, durante gli intervalli e dopo il rancio di mezzogiorno, e parlavamo di tante cose, prima di tutto di dove ci avrebbero destinato dopo il CAR e del “nonnismo” che avremmo trovato nelle caserme di destinazione.

“Egidio, questi qui fanno i duri con noi, ma un amico che c’è passato prima mi ha detto che in un reparto operativo i “nonni”, quelli veri, a questi li prenderebbero a pedate.”

“Hai ragione, Marco, qui un soldato con tre o quattro mesi di servizio pretende che gli si faccia la branda o un regalo, tornando dalla licenza.”

Mentre parlavamo si trovò a passare un alpino, un tipo traccagnotto, dall’aria furba. Era un addetto al minuto mantenimento della caserma e si comportava come uno di quei “vecchi” prossimi al congedo.

Marco, indicandomelo, sbottò:” Lo vedi quello là? Ha due mesi di naja, dà ordini a tutti e pretende che gli facciano la branda!”

“Ma chi, Viglino?”

“Viglino, proprio lui!” Rispose.

“Io credevo che avesse sette o otto mesi di servizio. Quando lo vedo scantono, perché è sempre in agguato.”

“Ha, sì e no, tre mesi. È un raccomandato…è un “prontato”. Faceva il muratore ed è riuscito a sistemarsi qui, ma è talmente ignorante che fa il gradasso anche con i vecchi e gli ufficiali. Stia attento, belin, che se gli va male lo sbattono in qualche reparto operativo e poi vede.”

“Gli starebbe bene.” Rincarai con tono maligno.

Mai conversazione fu più profetica. Mesi dopo, mentre attraversavo il piazzale della caserma “Mario Fiore”, a Borgo San Dalmazzo, sede del comando del battaglione “Saluzzo”, incrociai Viglino che camminava spaesato, talmente mogio da rispondere senza spavalderia alle imprecazioni rivoltegli da un altro soldato.

Seppi tempo dopo che a forza di “banfare” era stato trasferito per punizione nel nostro battaglione, dove “trovò veramente lungo”.

Il comportamento di molti soldati e graduati del CAR era spesso “nonnista”. Non che subissimo chissà quali vessazioni, però frequentemente si notavano nei confronti delle reclute atteggiamenti sprezzanti o di dispetto.

Rammento la mia prima corvee in cucina. Fui svegliato alle 4.30 del mattino.

I comandati si presentarono alle cinque davanti alle cucine della caserma e furono accolti dal graduato responsabile della mensa, che assegnò gli incarichi.

Insieme ad altri quattro fui mandato a pulire stoviglie, posate, vassoi e quant’altro.

Quando entrammo nella parte adibita a lavaggio di posate e stoviglie trovammo veramente “il bordello”. Gli alpini della compagnia comando e servizi addetti alla cucina, la sera prima, infastiditi per un lavoro di competenza delle reclute e sapendo che il giorno dopo queste avrebbero iniziato il servizio cucina, lasciarono pile di piatti sporchi e la vasca piena di acqua lurida e ingombra di pentole, piatti e posate da lavare.

“Ci hanno lasciato nella merda.” Disse uno di noi.

“Almeno la vasca, potevano lasciarla vuota.” Disse un altro, sconsolato.

“Sono nonni.” Aggiunse un altro.

“Fanno i nonni con noi reclute. Vorrei vederli in una caserma operativa. Quelli che hanno lasciato sto merdaio hanno sì e no tre mesi di naja.” Rincarò quello che aveva parlato per primo.

“Ragazzi- iniziò un lombardo volenteroso- per le sei e mezza dobbiamo essere pronti per la colazione. Se puliamo prima tutto e poi piatti e stoviglie non ce la facciamo. Ma se cominciamo con posate, piatti, tazze, bicchieri e vassoi pronti per la cucina, nei momenti morti possiamo completare la pulizia di tutto il resto.”

Fummo d’accordo, dividendoci i compiti: alcuni avrebbero lavato i piatti e tutto il resto e gli altri li avrebbero asciugati. Intanto un già nervoso addetto alle cucine ci urlava di fare in fretta perché il tempo stava per scadere.

Lavorammo senza sosta. E mentre alcuni già lavavano e asciugavano piatti e vassoi della colazione, il rimanente di noi portava a termine il resto delle pulizie.

Finalmente riuscimmo a pulire il grande lavello che avevamo trovato lurido e ingombro di piatti, il pavimento e gli scaffali dove riporre stoviglie e vassoi.

La recluta lombarda, che dava l’idea di essere uno assennato oltre che lavoratore, rivolgendosi a me disse:” Ora possiamo respirare. Certo che nel pulito si lavora meglio. Se penso a cosa abbiamo trovato. Non abbiamo fatto poco. Se poi funzionasse anche la lavastoviglie.”

Mentre parlavamo, udimmo un rumore assordante e un’esclamazione di gioia:” Funziona! Funziona! La lavastoviglie funziona!” Qualcuno era riuscito ad avviarla.

“Bene- rispose il ragazzo lombardo- usando la lavastoviglie a noi toccherà solo asciugare piatti e bicchieri.”

“E noi avremo anche il tempo di mangiare. “Dissi con una certa soddisfazione.”

Lavorammo sodo per tutta la giornata, terminando il servizio verso le 21.00.

Quando tornai nella mia camerata, la trovai deserta, dato che erano andati quasi tutti in libera uscita. Ero stanco e preso da un senso di nausea tanto da temere di vomitare.

Il forte odore della cucina, di grasso, di brodo e di condimenti misti, che aveva impregnato la SCBT, e un indolenzimento in tutto il corpo mi avevano tolto la voglia di parlare e di fare qualcosa. Volevo solo lavarmi e dormire.

Il pensiero di riprendere l’addestramento mi riempì di gioia. Ma quel sentore di grasso e di sporco non mi abbandonava e mi infastidiva tanto che risposi malamente alle assillanti richieste di aiuto di Claudio.

Quella non fu l’unica esperienza in cucina. Qualcuno mi disse che dovevo essere antipatico a qualche furiere, perché poco tempo dopo mi ritrovai di nuovo lì. Alcuni miei compagni invece fecero una sola corvee o addirittura nessuna.

Ancora alle stoviglie, ma quella volta fummo puniti tutti a causa di un certo numero di vassoi non asciugati bene e consegnati in sala mensa ancora umidi.

I ritmi erano frenetici, i vassoi come giungevano dalla mensa venivano lavati, asciugati e riportati in sala per essere riutilizzati.

A tutte le reclute, durante il periodo al CAR, è capitato di utilizzare un vassoio portavivande ancora umido senza per questo lagnarsi. Quel giorno però alcuni di questi capitarono nelle mani di certi “nonni” della compagnia comando e servizi e di qualche recluta che aveva scambiato la mensa per un ristorante ed era sempre pronta a disprezzare cibo e servizi.

Fui consegnato in caserma per un giorno, poca cosa. La sera, all’adunata puniti mi presentai al corpo di guardia, dove, ironia della sorte, fui destinato alla mensa del circolo ufficiali.

La squadra di addetti alla corvee fu accolta con la solita strafottenza dei “nonni” del CAR.

Ci mettemmo al lavoro. Uno di loro, rivolgendosi a me con tono imperioso:

“Portami una birra!”

“Dove la trovo?” Chiesi ma senza soggezione.

“Eterno(stordito)! È nella dispensa!”

“Dov’è la dispensa?”

“Là! – indicando una camera con alcuni frigoriferi- Di’ che ti manda Fulvio!”

Entrai nella dispensa, c’erano tre alpini.

“Posso prendere una birra?”

“Oh! Oh! Cosa vuoi? Figuriamoci un figlio che vuole una birra da un vecchio!”

“Veramente la vuole Fulvio.”

“Ah Fulvio! È là” indicandomi alcune cassette di “Ceres” vicine al frigo.

Portai la bottiglia a Fulvio, che per ringraziamento mi mandò a dar man forte a quelli che stavano facendo le pulizie in cucina.

Qui c’era un certo movimento fra i cuochi, ansiosi di andarsene prima, visto che le pulizie di loro competenza le stavamo facendo noi.

Uno di questi, affamato, si stava cucinando una bistecca in padella, tanto lì i generi alimentari e di conforto non mancavano e la sorveglianza era scarsa.

Mentre mettevo ordine in cucina, incuriosito mi fermai ad osservare quel soldato intento a cucinare la carne in padella.

Accortosi della mia curiosità, non mi urlò di tornare a lavorare ma cominciò a spiegarmi ciò che stava facendo, il tipo di cottura e le caratteristiche della padella.

“È una padella adatta ad una cottura praticamente senza olio. Bisogna stare attenti al momento di pulirla e trattarla con delicatezza.

Quando la laverai usa uno straccio, non la paglietta.

Ora prendimi una birra.”

Il frigorifero era alle sue spalle, sarebbe stato sufficiente che si girasse per aprirlo…ma vigeva la legge dei mesi di anzianità. Rimasi deluso, avevo scambiato per attenzione il suo interesse perché lo servissi al meglio.

Comunque era stato gentile con me. Mi avvicinai al frigo, lo aprii, presi una bottiglia e gliela porsi.

“Prendine una anche tu.”

“Davvero? Posso?”

“Certo, qui comando io.”

Non me lo feci dire due volte. Presi una bottiglia di birra, l’aprii e cominciai a sorseggiarla. Era gelata, bevevo adagio.

In quel mentre entrò Fulvio.

“Che fai! Bevi una birra davanti ad un vecchio!

Torna subito a lavorare, se no ti faccio punire!”

Rimasi con la bottiglia in mano, senza più la voglia di bere. Il solo pensiero di essere punito su segnalazione di un responsabile della cucina, come era già accaduto, mi atterriva.

Rimasi così, schiacciato dalle urla e dalla prestanza fisica di Fulvio e nello stesso tempo schiumante di rabbia per il timore che ogni mia parola potesse far precipitare la situazione.

“L’ho autorizzato io, Fulvio. Sta lavorando e l’ho premiato. Appena finita la birra, riprende a pulire.”

“Va bene! Ma ginnico! A pulire! Qui deve essere tutto lucido!”

“Sì…sì …” Balbettai

“Devi dire signorsì, figlio!”

“Signorsì.”

Uscì. Trangugiai la birra, che mi lasciò in bocca un cattivo sapore, e ripresi il mio lavoro. Finimmo un po’ prima della ritirata (23.30). Tornai in camerata, stanco morto, preparai le mie cose per il giorno dopo e mi misi in branda.

Il tempo cominciò a scorrere velocemente fra addestramento ed esercitazioni e ci avvicinavamo rapidamente al 16 febbraio, la data del giuramento solenne in piazza Galimberti, a Cuneo.

I ritmi mi sembravano però più quelli di un collegio che di una caserma, ma sapevo che non sarebbe stato sempre così.

Ne parlavamo spesso Marco ed io, nei momenti di pausa, allo spaccio.

“Speriamo bene. Devo laurearmi. Se mi mandano in un reparto operativo è finita.”

“Stai tranquillo, Egidio, vedrai che ti mandano in qualche ufficio, magari a Torino.”

“Non lo so. Fra l’altro ho studiato a Genova, che non è una città alpina…bisognerebbe essere raccomandati o di Genova. Io non sono né l’uno, né l’altro.”

“Belin, sul più bello della tua vita, quando cominci a guadagnare, ad uscire con gli amici, ad avere una ragazza…arriva sta trave del servizio… militare…senti, la nostra canzone…”

Dal juke box uscivano le note di “Japanese boy”, cantata da Aneka. Quando ascoltavamo questa canzone, tacevamo, ricordando il passato. Non ricordavamo un momento preciso, né Marco, né io, ma la canzone ci faceva tornare ai tempi della vita civile, quando eravamo padroni delle nostre azioni.

“Japanese boy” era diventata “la nostra canzone” solo per una casualità: depressi dall’ascolto prolungato del “Silenzio”, suonato da Nini Rosso, impostoci da quello sbruffone di Viglino, c’eravamo come ripresi, ascoltando quel motivo che qualche recluta aveva gettonato subito dopo.

Marco non era un tipo loquace, con me aveva preso confidenza e desiderava confidarsi, preoccupato soprattutto per la salute precaria del padre. Io, preso com’ero dal problema della mia tesi, pensavo che per tutti gli altri il servizio militare fosse “la passeggiata dei venti anni”. Per cui quando un mattino mi disse:” Egidio, questa sera ho bisogno di parlarti.” – rimasi colpito, quasi preoccupato se non infastidito, da quelle parole.

Durante la giornata mi chiesi tante cose:” Cosa vuole dirmi Marco? Perché vuole parlarmi a tu per tu? Vuol farmi qualche proposta? Che tipo di proposta? Ma non si sarà mica messo in testa qualcosa…”

Fui sfuggente con lui praticamente per tutta la mattina. Dopo il rancio, invitato ad accompagnarlo allo spaccio per ascoltare “la nostra canzone”, inventai delle scuse per non seguirlo. Anzi ad un certo punto cominciai ad insistere perché mi anticipasse quello che mi avrebbe detto la sera. Dopo tanta insistenza, si convinse e cominciò a parlare:

“Egidio, da quando sono qui…non faccio altro che pensare a… a casa. Finita la scuola, avevo trovato lavoro, guadagnavo e il sabato sera avevo preso ad andare a ballare con gli amici.

Avevo la mia vita e tutto è stato sconvolto. “

Non seppi dirgli altro che:” Ma tornerai alla vita civile e riprenderai la tua esistenza.”

“Sì, ma non sarà lo stesso. In un anno le cose cambiano. Alcuni amici hanno già la donna e quando tornerò staranno per conto loro e io sarò solo.

Le cose cambiano… e poi…e poi mio padre sta male. Io sono preoccupato. Mi hanno consigliato di chiedere di avvicinarmi, ma Torino non è Genova.”

“Sì, ma saresti più comodo che non partendo da Cuneo o da Dronero.” Replicai.

Discutendo tornammo al nostro addestramento, continuando la conversazione la sera, dopo il rancio.

Parlammo ancora delle angosce di Marco, ma ciò mi afflisse ancora di più tanto che per un po’ mi tenni distante da lui.

Tornai a frequentarlo assiduamente dopo una mia disavventura.

Su consiglio di mio padre, rassicurato dalle parole di un vicino, a sua volta spinto da un conoscente, redassi una richiesta di avvicinamento da consegnare direttamente all’ufficio del comandante di battaglione.

Ero titubante, ne parlai con il mio istruttore, temendo di rompere la catena gerarchica e quindi di incorrere in qualche sanzione, ma questo, distrattamente, mi rassicurò.

Felice, un tardo pomeriggio di fine gennaio, mi presentai alla palazzina comando con la mia domanda.

In attesa di essere ricevuto, incontrai Marco, il cognato di una ragazza a cui avevo fatto da testimone alle nozze. Era autista presso la “Vian”. Quel giorno doveva consegnare un certificato in Maggiorità, prima di entrare però si raccomandò di attenderlo perché doveva parlarmi.

Risposi sì, ma senza convinzione, infatti una volta consegnata la domanda me ne tornai alla mia camerata senza sapere di che cosa volesse parlarmi.

Non lo saprò mai. Non l’ho più incontrato in questi 41 anni. Forse voleva darmi qualche consiglio su come rimanere al CAR, evitando così 11 mesi di duro servizio. Ma ero troppo euforico e fiducioso sul risultato della mia domanda…e invece…

Due giorni dopo fui chiamato all’ufficio selezione. Non stavo nella pelle, convinto che ci fossero buone nuove.

Quando entrai in ufficio, mi accolse il maggiore responsabile della selezione. Aveva fra le mani la mia domanda e un’espressione poco rassicurante. Mi presentai.

“E’ lei l’autore di questo?” Mi chiese, sventolando il foglio della mia domanda.

“Signorsì.”

“Non si permetta mai più di fare un’azione del genere. Se si dovesse ripetere prenderemo seri provvedimenti nei suoi confronti.”

Detto ciò, si voltò con un’espressione di disprezzo e si allontanò senza dire altro.

Rimasi interdetto, schiacciato dal peso di chissà quale atto di insubordinazione avessi commesso. Non sapevo cosa fare. Potevo uscire o dovevo aspettare il resto della reprimenda?

Conoscevo ancora poco la meccanica dei rapporti militari. Per un attimo mi sembrò di essere Fantozzi di fronte al megadirettore galattico.

Con un filo di voce chiesi di potermi ritirare a quell’ufficiale che mi voltava le spalle. Interpretai il suo silenzio per un assenso, salutai la schiena del maggiore ed uscii.

Fuori ricevetti il resto. Incontrai il comandante di compagnia, tenente Caula, che con espressione feroce e dopo un:” Che cazzo hai fatto?”, mi promise che ne avremmo riparlato…

Ero terrorizzato. Tornai in camerata e raccontai l’accaduto. Qualcuno mi rassicurò, altri mi spaventarono, parlandomi di punizioni collettive per colpa di singole infrazioni. Ancora più spaventato ne parlai con il caporalmaggiore istruttore, chiedendo di essere punito solo io per il mio errore e di risparmiare gli altri. Lui mi tranquillizzò dicendomi che non sarebbe accaduto nulla se non avessi fatto altre “cazzate”.

Passarono i giorni, all’inizio nell’attesa di una punizione, poi sempre più tranquillamente, nella convinzione che l’episodio fosse stato sepolto nei meandri dell’ufficio selezione.

Ripresi la mia vita di sempre, uscendo con qualche amico occasionale o trascorrendo la serata in camerata a chiacchierare con i miei compagni.

Spesso le uscite erano dovute alla necessità di ricorrere alle docce dei bagni pubblici, visto che quelle della caserma “Vian” a noi reclute erano interdette per un motivo o per l’altro.

Quando non si usciva si andava allo spaccio oppure si stava in camerata a sistemare il proprio corredo, chiacchierando con i presenti.

Però nonostante fossimo tutti nella stessa barca i legami fra noi non si rafforzavano, gli amici erano quelli con i quali si era arrivati al CAR, anche perché avevamo la certezza che molti dei nostri compagni non li avremmo mai più rivisti una volta trasferiti nelle varie destinazioni.

C’era poi un astio sottile fra liguri e cuneesi. I primi accusavano i secondi di essere dei raccomandati, perché i più di loro avrebbero svolto il servizio militare nella propria provincia. I secondi accusavano i primi di essere un po’ troppo “cittadini”.

Ebbi la sensazione che i liguri, esclusi Marco e Briasco, tendessero a fare fronte comune e a “pungere” un po’ tutti gli altri della camerata con allusioni e battutine a volte non simpatiche.

Più di una volta derisero, neanche tanto sottilmente, Cioffi, un acquese mite, che scriveva ogni sera una lettera alla propria ragazza.

Una volta, irritato da qualche parola di troppo rivoltagli da uno di Imperia, reagì con violenza, manifestando un’aggressività inaspettata. Per calmarlo furono necessari le scuse del ragazzo e i buoni uffici degli altri compagni.

Fra i liguri il più “sbeffeggiato” era Briasco, ma solo nel momento in cui, prima di coricarsi, mostrava la bottiglietta con dentro sabbia e acqua del porto di Genova.

Certe manifestazioni di nostalgia venivano viste con fastidio da chi, pur assolvendo il servizio militare nella propria provincia, pativa perché non poteva aiutare la famiglia nei campi, nelle stalle oppure lavorando in fabbrica o nei cantieri, anzi pesando sul suo bilancio con richieste di denaro.

Chi soffriva di più? I ragazzi liguri, io per la mia tesi o i cuneesi? E gli altri del centro-nord Italia? C’era poi un gruppo di altoatesini di lingua tedesca, vivevano praticamente una vita propria.

E che dire di Claudio? Aveva un forte disagio, che si aggravava giorno dopo giorno. Più di una volta si rifiutò di entrare in camerata o tentò di fuggire dalla caserma. I suoi familiari si erano impegnati perché rimanesse alla “Vian”, nel minuto mantenimento (era muratore), ma soffriva troppo quella vita tanto che alla fine fu mandato a casa in malattia e non sapemmo più nulla di lui.

Ogni tanto lo pensavo e mi pentivo di non averlo sempre aiutato nonostante le sue pressanti richieste, ma poi mi convincevo che non avrei potuto fare diversamente. Se gli avessi fatto sempre la branda, lo avessi aiutato a vestirsi, gli avessi sistemato le sue cose, avrei fatto un doppio lavoro in una sola ora a disposizione e ciò prima o poi mi avrebbe fatto commettere qualche inadempienza con conseguente punizione e non potevo permettermelo dopo l’incidente all’ufficio selezione.

Egidio Lapenta

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