Il giorno successivo al nostro arrivo alla caserma “Cerutti”, a Boves, fui convocato in fureria.
Mi chiesero quali fossero le mie competenze e se sapessi battere a macchina.
Risposi che studiavo Lettere, non avevo specifiche competenze tecniche e sapevo scrivere a macchina con due dita.
Andava bene così. Fu deciso che avrei fatto un po’ di pratica in quell’ufficio per prendere poi il posto di entrambi i furieri, che sarebbero stati congedati dopo pochi mesi, però, essendo specialista al tiro e non scritturale, non avrei goduto di alcun privilegio, avrei fatto l’addestramento e i servizi di guardia. Cercai di rifiutare l’incarico ma mi fu risposto che gli ordini si eseguono.
Si avvicinava la data di inizio dei campi invernali nelle Valli Gesso e Maira e noi di “gennaio” eravamo preoccupati: quasi senza addestramento venivamo catapultati in uno dei momenti più duri della formazione degli alpini.
Saremmo stati impegnati in lunghe marce nella neve alta e nell’allestimento di accampamenti in luoghi impervi.
Ero terrorizzato. La mia prima marcia, con zaino e fucile, era stata un disastro. Durante il percorso nella neve, alta fin quasi al ginocchio, ebbi una crisi respiratoria e avevo temuto di non farcela.
Risparmio i commenti del capitano Lombardi. Ricordo invece Sibille, che mi alleggerì del fucile, permettendomi in alcuni momenti di aggrapparmi a lui per continuare.
Ero senza forze. Anche perché la mattina, dopo la sveglia antelucana (alle tre) e le pulizie obbligatorie, eravamo rimasti senza colazione, dato che i “vecchi”, in vista della marcia, avevano spazzolato tutto, lasciandoci le briciole.
Ero riuscito a recuperare solo un pacchetto di gallette, che tentai di mangiare durante la marcia, ma invano, perché la prima si era fermata in gola e non avevo in borraccia neppure una goccia di quel tè caldo che era stato preparato.
Né mi rianimò il miglior risultato delle due marce successive. Ci dissero che, appena giunto al corpo, “gennaio” non avrebbe partecipato ai campi per l’insufficiente addestramento. Fu solo un’illusione, anche il nostro scaglione avrebbe partecipato alle attività di addestramento…eravamo nell’esercito, non a scuola.
Ci preparammo come potemmo, fra le sveglie anticipate (per le pulizie coatte), le cattive colazioni e le corvè obbligatorie in cucina, almeno un paio d’ore, dopo il rancio serale, per lavare e pulire pentole, piatti, stoviglie e pavimenti.
Cercammo comunque di organizzarci, chi di noi terminava prima, la mattina, procurava la merendina all’altro che era ancora impegnato nei lavori.
Diventammo astuti pure nel fornirci di ciò che ci mancava. Alberto rubò per me la forchetta che usai per poter consumare finalmente un piatto di pasta asciutta.
Non dimentico le facce di certi “vecchi” nel vederci in difficoltà. I momenti di tranquillità stavano nei servizi di guardia, in fureria (per me) e nell’addestramento. Ma anche in quest’ultimo caso si potevano consumare delle angherie.
Un giorno, ci recammo in una vecchia polveriera nei dintorni di Boves per un primo addestramento teorico con i mortai da 81.
Dopo un’ora e mezza di addestramento, il sottotenente che comandava la compagnia decise una pausa. C’era ancora tanta neve. Durante la pausa si erano creati dei piccoli gruppi, divisi rigorosamente per mesi, alcuni stavano consumando una merendina, quando a qualcuno venne in mente, ma non ricordo a chi, di organizzare una specie di caccia all’orso come nei luna park, solo che al posto degli orsi meccanici ci sarebbero stati i “figli”.
Ci fecero mettere in fila per uno e a ogni palla di neve ricevuta avremmo dovuto alzare le braccia a mo’ di zampe.
Il gioco durò un quarto d’ora. Qualcuno di noi era fradicio di neve, ma rideva, considerando il tutto come un gioco, un pegno da pagare in quanto “figli”. Io mi sentii umiliato, finsi di ridere, ma avevo la morte nel cuore.
La mia rabbia fu maggiore anche perché gli ufficiali non solo permisero quell’atto vergognoso, ma addirittura uno di loro, il sottotenente Coletti, partecipò al gioco, lamentandosi pure della nostra lentezza…
Non era l’unico. Il sottotenente Busatto era più fine. Si considerava un giovane sregolato che grazie all’ esperienza militare aveva dato ordine alla propria vita. Inoltre riteneva il “nonnismo” un’ottima pratica per il buon funzionamento di una caserma.
Era dura. Chi subiva più di tutti era Luigi Giordano, di Boves, suoi erano i lavori più pesanti e le vessazioni più umilianti. Ma la cosa più eclatante accadde a me.
Una sera, mentre stavo pulendo un pentolone in cucina, fui investito da una grossa teglia piena di farina, lanciata da oltre un muro posto alle mie spalle.
In un attimo la mia SCBT verde oliva divenne bianca. Ero disperato, proprio quel giorno avevo indossato l’uniforme di ricambio. Non ne avevo un’altra pulita. Già mi vedevo deriso e punito per la mia sciatteria. Non ci pensai due volte, “vecchio” o non “vecchio” gliel’ avrei fatta pagare.
Urlando feci il giro del muro, di fronte c’era un alpino alto e robusto. Mi aspettavo che minacciasse ritorsioni e che alzasse le mani su di me. Invece lui cercava di giustificarsi, di spiegarmi. Aveva lanciato la teglia ma non voleva colpirmi.
Non credetti alle sue parole. Io che non sapevo menar le mani, urlando agitai i pugni contro di lui proprio con l’intento di aggredirlo. All’inizio cercò di fermarmi, poi però, vedendomi mal intenzionato, iniziò a gridare e ad alzare le mani anche lui.
A quel punto un paio di miei compagni intervennero, bloccandomi e portandomi via, mentre io continuavo ad inveire contro chi mi aveva ridotto così. Ma quello non fece niente se non urlarmi che non l’aveva fatto apposta.
Terminammo i lavori, però quella sera non uscii con i miei compagni, rimasi in camerata a pulire l’uniforme infarinata e a tirare fuori dall’armadietto quella sporca, per farle prendere aria e stirarla sotto il materasso, per indossarla il giorno dopo.
La mattina mi presentai all’adunata con la divisa non pulita ma nessuno se ne accorse.
Giorni dopo, mentre passavo davanti ai contenitori della mensa per prendere ciò che era rimasto mi sentii chiamare:
“Eh, Lapenta…eh… Lapenta…eh”
Mi voltai verso la cucina: era Cicconi, l’alpino che mi aveva lanciato la teglia piena di farina.
“Cosa vuoi! – urlai, senza paura- Cosa vuoi ancora da me! Non ti basta quello che mi hai fatto?”
“Niente…-rispose con un sorriso-ti ho conservato questo.” E mi porse un budino confezionato.
Rimasi fra il dispiaciuto e il costernato. Non sapevo se prenderlo o no. Pensai ad un ennesimo atroce scherzo da parte di un “nonno”.
“Prendilo, è tuo.”
Lo presi. Non sapevo che pensare e che dire. Alla fine lo ringraziai, allontanandomi.
Mentre mi allontanavo disse:” Non ce l’avevo con te l’altra sera, ero incazzato per i fatti miei.”
“Va bene… sono riuscito a cambiare la divisa…”
Andai a sedermi accanto ai miei compagni di “gennaio”. Mangiai quel budino con voracità, ma anche con dispiacere, rabbia e commozione.
Seppi poi di Cicconi. Era un ragazzo mandato a Boves dall’Abruzzo e a volte per la rabbia, dovuta alla lontananza, prendeva a calci e pugni pentole e tegami, ma fondamentalmente era un buono. Da quel momento cominciammo a salutarci e a scambiare qualche parola. A modo nostro diventammo amici.
Comunque in quel momento la mia preoccupazione erano i campi invernali. Ne ero angosciato. Quando la domenica prima del loro inizio vennero a farmi visita i miei piansi disperato, temevo di non farcela. Mio padre e mia madre cercarono di rincuorarmi ma fu inutile e quando partirono se ne andarono afflitti.
Quel giorno, mio padre mi fece notare che puzzavo. Mi vergognai. Purtroppo nella caserma di Boves le docce non funzionavano e quelle pubbliche di Cuneo in quel momento erano difficili da raggiungere, andando tardi in libera uscita ed essendo senza un’auto. Mi lavavo come potevo ma non riuscivo a fare di più.
La mattina del 1° marzo 1982 la sveglia squillò alle quattro. Grande trambusto, noi di “gennaio” cercammo di arrivare in mensa prima che gli altri portassero via tutto. I panini erano contati, ma qualcuno ne già aveva presi due.
Il capitano Lombardi urlava nel piazzale dell’adunata, rimproverando il sergente maggiore Cattaneo, che, invece di preoccuparsi di ciò che gli competeva, si era invece impegnato a procurarsi il panino da consumare in giornata.
Il capitano quasi saltava dalla rabbia, era tale il malanimo verso il subalterno che con uno schiaffo sulla mano gli fece cadere a terra il panino, che nessuno poi raccolse. Mi dispiacque per quel cibo sprecato.
Ciò che temevo per me non si realizzò. Il furiere Bertazzoni, approfittando del mancato rientro del collega Botticelli e con l’aiuto dei sottotenenti, riuscì a convincere il comandante affinché lo affiancassi nei compiti di fureria e di piantone al campo base e di staffetta fra questo e la compagnia in marcia.
Avevo saputo il tutto la sera prima. La mattina mi presentai al comandante e subito iniziò a sbraitare su come mi ero presentato. In silenzio salii sulla AR 59, rannicchiandomi sul sedile posteriore accanto al radiotelegrafista. Con il comandante e l’autista eravamo quattro a bordo dell’automezzo.
Ricevetti la consegna: a Vernante avrei dovuto presidiare un telefono, in un qualsiasi esercizio pubblico, e prendere contatto con la stazione dei carabinieri di Valdieri, dove si era sistemato il sergente maggiore Ricci.
Avute le informazioni da questo, dovevo recarmi alla AR e trasmetterle, tramite il radiotelegrafista, al comandante, in marcia con il resto della compagnia. Ricevuti ordini, sarei tornato al posto telefonico per comunicarli al sergente maggiore.
All’inizio mi sembrò strano girare per Vernante in assetto di guerra alla ricerca di un esercizio pubblico già aperto prima delle sette. Adocchiai l’insegna di un alberghetto lindo e ben tenuto. Entrai, c’erano due signore anziane che conversavano. Salutai. Mi risposero con un po’ di meraviglia. Domandai alla donna dietro il bancone se fosse la proprietaria e, ricevuta risposta affermativa, le chiesi l’uso del telefono.
La signora, sorridendo come ad un bambino che giocava alla guerra, rispose di sì.
Trascorsi la giornata a fare la spola fra l’albergo e l’AR 59. Tutte le volte che mi mettevo in contatto con il sergente maggiore pagavo la telefonata. Spesi in totale 800 lire (il nostro soldo giornaliero era di 1500 lire).
Il comandante mi assicurò che il battaglione mi avrebbe rimborsato le spese telefoniche. Quei soldi non mi furono mai rifusi e tempo dopo, riordinando l’ufficio del capitano Lombardi, rinvenni la mia nota delle spese nel cestino della carta.
La giornata del 1° marzo terminò così. Verso il tardo pomeriggio mi riunii all’equipaggio della AR e insieme raggiungemmo il campo base a Valdieri. Il resto della compagnia era ancora fuori e avrebbe trascorso la notte nelle trune.
Al campo vennero organizzati i turni di guardia alla porta d’ingresso, protetta da una sbarra e da una garitta prefabbricata. Fino ad una certa ora rimasi lì, senza che qualcuno mi desse il cambio. Chiesi ad un autista, che si era avvicinato a curiosare, di darmi il cambio giusto il tempo di andare in bagno e sciacquarmi un po’ il viso: niente.
“E’ meglio che rimani qui. Se ti cercano e non ti trovano sono guai. E ’meglio per te.”
“Mi puoi portare almeno qualcosa da mangiare? Stanno distribuendo il rancio e se non vado, rimango senza, sono digiuno da stamattina”
“No, no. Poi vengono a portartelo, vedrai.”
“Ma chi?”
“Vedrai, poi vengono” E si allontanò velocemente verso il punto dove distribuivano il rancio.
Fra l’altro, non vidi neanche per un attimo il furiere capo. Si era come vaporizzato. Seppi due giorni dopo che in realtà aveva la febbre.
Fui sostituito da una guardia soltanto dopo le sette di sera, il tempo di sistemare il mio zaino, mangiare qualcosa preso dalla razione K, senza lavarmi, radermi e togliermi le uose, e, alle 23.00 ero di nuovo davanti alla porta, smontai all’una, riprendendo definitivamente servizio alle sette del mattino, senza essere più sostituito.
Avevo in tasca il cartoncino della forza da presentare al comandante, al suo arrivo, ma nessuno mi aveva detto come fare nello specifico. Pensavo di dover imparare a memoria il numero di ufficiali, sottufficiali ed alpini, invece, dopo essermi presentato con un sonoro battere di tacchi, dovevo soltanto leggerlo.
Durante la mattinata continuai a fare il piantone all’entrata del campo senza che nessuno si ricordasse di darmi il cambio. Eppure il sergente maggiore Ricci andava e veniva e mi vedeva sempre lì, all’entrata. In compenso fioccavano le battute di chi passava.
Nel primo pomeriggio giunse il resto della compagnia. Erano stremati. Tutti portavano pesanti zaini, solo il capitano e gli altri ufficiali avevano in spalla zaini più piccoli e funzionali. Qualcuno malignò che quello di Lombardi fosse vuoto.
Mi avvicinai al comandante per presentargli la forza. Lo salutai e iniziai a presentargliela, ma invece di leggere la tabella che avevo in mano, lo feci a memoria. Mi confusi. Sorrisi per scusarmi. Lui apparentemente lasciò correre.
Un’oretta dopo tornò da me. Camminava come se lo avesse punto una tarantola.
“Lei! Mi presenti la forza!”
Cercai di farlo a memoria, convinto che fosse il modo corretto.
“No! Deve leggere la tabella! E poi non sa presentarsi! Deve fare il saluto e battere il piede!
Ah! Ha ancora le uose! La barba lunga! Ma se fosse venuto il comandante di battaglione…che figura!
Si vergogni!”
Abbozzai una giustificazione, convinto che ciò valesse anche nell’esercito, ma fui zittito dal grado e dalle urla. Ogni urlo era accompagnato da una specie di balzo.
Abbassai lo sguardo, vergognandomi di me stesso, sperando che smettesse. Ma lui, spinto da ciò, continuò ad urlare:
“La prenderei a schiaffi!” -rivolgendo lo sguardo alla garitta- l’addrizzi, è storta!
Per punizione prenda quel masso e lo metta dentro per tenerla ferma!”
Era un grosso masso, impossibile da sollevare. Lo spinsi a fatica dentro la garitta, che, dopo aver oscillato, rimase un po’ inclinata. Il mio goffo tentativo di sistemarla lo fece uscire definitivamente fuori dai gangheri.
Si allontanò sbraitando, facendomi temere un secondo ritorno e un’ulteriore umiliazione.
Rimasi lì a fare il piantone all’entrata, come avevo fatto per un giorno e mezzo.
Ero addolorato non solo per l’umiliazione subita ma anche per il comportamento dei miei commilitoni. I più finsero di non vedere o tirarono dritto, fermandosi a scrutare da lontano.
Quei pochi “vecchi” vicini guardarono con tono di rimbrotto la scena, chiara dimostrazione dell’inettitudine dei “figli”. Mi sentii solo, soprattutto quando il sergente maggiore Ricci mi smentì quando affermai di non essere stato sostituito fino a quel momento.
Avrei voluto piangere ma capii che dovevo tenere duro e guardare negli occhi chi, come il comandante, urlava o dava ordini.
Quando finalmente ricevetti il cambio, nell’ora del rancio serale, raggiunsi i miei compagni di “gennaio”. Fui accolto da un grande silenzio, erano stanchi e dovevano affrontare la giornata successiva, solo un paio di loro biasimò il comandante, ma senza aggiungere altro.
Pensai che il giorno dopo anch’io avrei partecipato alla marcia e preparai tutto l’occorrente, ma, prima del silenzio, mi fu comunicato di unirmi, il mattino seguente, alla squadra del campo base.
Così feci, ma nessuno sapeva niente, finché il sergente maggiore Ricci mi comandò in malo modo di salire sul cassone di uno degli ACL. Lo feci con la coda fra le gambe, quell’uomo mi incuteva terrore, imponente, con il pizzetto alpino tipico dei veterani. Non mostrava un’età eppure aveva appena venti anni.
Durante il viaggio, riflettei sul perché fossi ancora con quelli del campo base, senza darmi una risposta. Seppi poi della malattia del furiere capo e della necessità di sostituirlo nelle mansioni di fatica (a cominciare dal servizio di piantone).
Da quel momento, per tutta la durata dei campi invernali, fui piantone fisso all’entrata dei vari accampamenti che vennero allestiti.
Prendevo servizio nel momento in cui smontava la guardia armata (potevano essere le sei come le tre di notte) e andavo avanti fino alla sera dopo le 18.00, senza mai un cambio durante la giornata.
Era pesante stare lì tutto il giorno senza la possibilità di mangiare o di espletare un bisogno fisiologico. Imparai ad arrangiarmi, tenendo sempre occhi e orecchie ben aperti.
Un giorno fui chiamato dal capo furiere. Quando entrai in quell’ufficio improvvisato era steso su un letto di fortuna e ansimava:
“Mi dispiace per te… Egidio…ma dovrai prendere il mio posto… perché io sarò trasferito a Boves, in queste condizioni posso fare poco.
Sii sempre formale con il capitano… la sera dovrai portargli la posta…i documenti da firmare…e prendere gli ordini.
Mi raccomando…sii sempre formale e in ordine.”
Per tutto il tempo io annuii, poi, terminate le disposizioni, gli augurai di guarire presto, salutandolo. Uscii da quella stanza preoccupato. Non avevo nessuna esperienza della fureria, ma non potevo tirarmi indietro. Temevo soprattutto le sfuriate del capitano.
Ebbi però un pensiero positivo, forse così sarei riuscito ad evitare i “nonni” e le loro pretese. Ai campi vigevano le stesse regole di Boves. Certo non dovevamo fare la pulizia mattutina di legnaie e casematte abbandonate, ma tutte le sere, alla luce delle torce elettriche, dovevamo pulire pentole, tegami e la cucina campale.
Usavamo acqua fredda e un detersivo tanto forte da spaccare la pelle delle mani, e così la fuliggine della campale penetrava nelle spaccature delle dita, creando un’immagine di sporco.
Un giorno il sergente maggiore Ricci mi accusò di essere una persona sporca. Non ci fu verso di spiegargli che per un perverso meccanismo la fuliggine penetrava sotto la pelle e vi rimaneva.
Ogni lavoro pesante era di quelli di “gennaio”, in particolare di Luigi Giordano, residente a Boves, a scalare poi di quelli di “dicembre”, “novembre” e, meno, “ottobre”.
C’era un addetto alla campale, un certo Bet, di “settembre”, che sfogava sui suoi primi “figli” (le reclute di gennaio) rabbia e rancore:
“Lavate bene le pentole! Non voglio avere la cagarella per colpa vostra! Perché è rimasto il detersivo!”
A volte gli rispondevamo lamentando le condizioni di lavoro, ma lui, duro con i deboli, ribatteva:
“State zitti figli! E pulite bene! Perché una volta, per averli lavati male mi hanno fatto venire la cagarella! Oh.” E agitava i pugni come se volesse picchiare qualcuno.
Era un ragazzo strano, a volte gentile, premuroso, altre brontolone, quasi aggressivo, soprattutto quando qualcuno gli ricordava di aver fatto l’MG. Questo gioco prendeva il nome da una mitragliatrice, l’MG42/59, e consisteva nel fare il verso del crepitio dell’arma mentre un “nonno” stringeva i testicoli al “figlio” immobilizzato da altri.
Qualcuno ci ricordava che la nostra compagnia fino a poco tempo prima era stata un reparto punitivo e ciò spiegava certe pratiche violente.
Una sera, mentre eravamo intenti a pulire pentoloni e campale alla opaca luce delle torce elettriche, mi si presentarono Marco Marchese e altri due o tre figuri, chiedendomi la gavetta.
Alla mia domanda sul perché risposero che dovevano farsi la barba.
All’inizio rifiutai, dicendo loro di usare la propria. Marchese rispose che non volevano sporcare le proprie e che io potevo anche rifiutarmi, ma a quel punto poi loro sarebbero stati cattivi nei miei confronti. Li guardai. Sapevo che avrei dovuto aspettarmi qualcosa in caso di rifiuto, ma non sapevo se l’avrei sopportata in quelle condizioni.
Gliela consegnai. La riempirono di acqua calda, presa dalla caldaia della campale, e poi uno o due di loro si rasero la barba, pulendo ben bene i loro rasoi nella mia gavetta.
Quando terminarono, soddisfatti, me la consegnarono piena di acqua sporca. Protestai. Risposero che ci dovevo pensare io e si allontanarono.
I miei compagni di scaglione assistettero alla scena senza dire nulla. Solo dopo qualcuno parlò, si indignò, ma era troppo tardi. Pulii la mia gavetta e ripresi a lavorare attorno ai pentoloni.
Le vessazioni erano tante. Era sufficiente che un “nonno “vedesse” una giovane recluta per farle fare ciò che sarebbe stato di sua competenza.
Un giorno, per percorrere i duecento metri che separavano la mia postazione, all’entrata del campo, dagli alloggi della truppa, fui fermato tre volte.
La prima da un “vecchio” che pretendeva che gli procurassi non ricordo che cosa. Elusi la richiesta adducendo l’urgenza di tornare al mio posto.
La seconda dal sergente maggiore Cattaneo e da due “anziani” che mi obbligarono a stendere il filo spinato, insieme ad altri “figli”, attorno ad un rimorchio carico di materiali.
Pur conoscendo il mio incarico, alle mie rimostranze, il sergente maggiore minacciò di punirmi.
Riuscito successivamente a liberarmi, mentre stavo entrando là dove eravamo accasermati, fui fermato da un alpino che, approfittando del fatto che ancora non distinguevo i “vecchi” dai “figli,” mi chiese 2000 lire. Gli risposi che non le avevo e lui non insistette.
Dulcis in fundo, mentre stavo sistemando lo zaino, passò Tura, lo salutai, dicendogli, prima che mi chiedesse qualcosa, che dovevo andare subito alla mia postazione. Non insistette. Tornando indietro, per non essere visto, feci un percorso poco battuto dai più.
Al ritorno fui accolto dall’alpino che mi sostituiva con un sospiro di sollievo, non vedendomi, ebbe il timore di rimanere di piantone all’entrata del campo e non sapeva come comportarsi.
Gli raccontai l’accaduto e lui, poiché era un “figlio” come me, allontanandosi, fece il mio stesso percorso a ritroso.
Uno che sembrava provarci gusto ad esercitare l’autorità, o solo a vessare le persone, era proprio il capitano Lombardi. Sfogava nella pretesa di un rispetto assoluto della forma una sorta di senso di inferiorità nei confronti dei comandanti di altre compagnie, in particolare della 21°. Quindi dovevamo essere sempre migliori degli altri, ma non era così scontato, specie quando non si fornivano i mezzi per raggiungere lo scopo ambito. Nella caserma di Boves non avevamo granché, in qualche modo ci arrangiavamo, mentre facendo i campi e le scuole tiro avemmo occasione di vedere spacci ben forniti, sale di ritrovo, cibo migliore, corpi di guardia lindi e forniti di televisori.
Il capitano riteneva poi che l’efficienza, lo scatto e tutto il resto si ottenessero non solo con l’esercizio del rigore, ma anche urlando e minacciando, come se fossimo bambini.
Avevo 26 anni, avevo rinviato per motivi di studio, non avevo cercato raccomandazioni per evitare di fare il mio dovere di cittadino, accettavo la disciplina e le punizioni, ma non che fossero urlate a mo’ di spettacolo specie davanti a “vecchi” gongolanti.
Una notte, non ricordo se fossero le due o le tre, presi servizio di piantone all’entrata di una vecchia polveriera dove eravamo accampati, subito dopo l’uscita della compagnia per una nuova marcia.
Erano i primi giorni di marzo, nevischiava, c’era nebbia e faceva tanto freddo. In quelle condizioni la visuale era ridotta e la vigilanza difficile, tanto più che io, al contrario delle sentinelle notturne, ero disarmato e senza una guardia armata alle mie spalle.
Vidi giungere un’AR 70, che si fermò di fronte al cancello. Per un attimo rimasi titubante, poi uscii e mi avvicinai all’abitacolo per effettuare il riconoscimento.
Identificai il grado, era un maggiore, feci per presentargli la forza, ma quello mi fermò, facendosi riconoscere: era il vicecomandante di battaglione, maggiore Berardi.
Mi chiese informazioni su dove fosse la compagnia e su chi fosse presente al campo base. Risposi, offrendomi di chiamare l’ufficiale più alto in grado, ma rifiutò, congedandomi. Lo salutai mettendomi sull’attenti e così rimasi finché il veicolo si perse nella nebbia mista al nevischio.
Trascorsero le ore e la compagnia fece ritorno all’accampamento. Era il primo pomeriggio e venne distribuito il rancio. Anche quel giorno feci fatica a trovare qualcuno che mi portasse la gavetta o mi permettesse di andare a riempirla.
Fortunatamente c’erano i miei compagni di scaglione che ci pensavano a farmi arrivare almeno il primo, che consumavo comunque di nascosto.
Nel pomeriggio, in un momento morto, arrivò il comandante. mi preoccupai: “Cosa voleva?”
Salutai, cercando di essere il più marziale possibile, ma il rumore dei tacchi fu attutito dal fango e dall’abbondante neve fradicia che si era depositata per terra.
Dal movimento dei baffi capii che non aveva gradito come avevo salutato. Mi imposi di tacere e di guardarlo negli occhi di fronte a qualsiasi sua reazione.
Si avvicinò e mi chiese:
“Questa mattina è venuto il maggiore Berardi, vice comandante di battaglione.”
“Signorsì!”
“Cosa le ha detto?”
“Gli ho presentato la forza.”
“Lasci stare! Lasci stare! Cosa le ha detto!”
“Mi ha chiesto dove fosse la compagnia, quanti fossimo al campo base e chi fosse l’ufficiale di grado superiore presente.”
“Perché non lo ha chiamato!”
“Non ha voluto.” Risposi, sempre con tono apparentemente calmo.
“E poi, cosa ha fatto!”
“Se ne è andato.”
Non aggiunse altro. Capii che aveva avuto un colloquio con il maggiore e voleva un riscontro da me.
Il capitano fece per allontanarsi, si fermò, si guardò intorno, vide fango, neve marcia e foglie secche a terra e cominciò ad urlare:
“Qui è tutto sporco! Deve pulire! Deve rendere tutto uno specchio!”
Non risposi. Mi guardai attorno, solo fango e neve. Tutto era grigio e triste. C’era poco da fare, tanto più che in quei giorni pioggia e neve si alternavano. Anche avessimo tolto fango, neve e foglie (sarebbero stati necessari almeno tre alpini), il passaggio dei mezzi militari avrebbe riprodotto la stessa situazione.
Risposi solo:” Signorsì!” Ma pensai all’assurdità del tutto.
Irritato, mi ordinò:
“Prenda la scopa e cominci a pulire! Quando torno voglio trovare tutto pulito!” E, continuando a inveire e a gesticolare, si allontanò.
Nel vecchio corpo di guardia trovai una scopa di saggina inutilizzata chissà da quanto tempo e con questa riuscii a togliere fango e foglie, ma fu uno sforzo inutile. Al passaggio del primo autocarro si ripresentò la situazione precedente.
Ripresi la scopa e cominciai una lotta inutile con gli ACL, che ad ogni passaggio producevano altro fango e portavano altre foglie. Spazzavo con angoscia, conscio di non arrivare a nulla. Ero stanco, sfiduciato, temevo una punizione. Il mio amico Mauro si avvicinò per tenermi un po’ di compagnia. Vedendomi lavorare come un forsennato mi chiese:
“Perché continui a spazzare? Non vedi che è tutto inutile?
Togli le foglie, un po’ di fango, ma le foglie cadono e il fango non si asciuga, continua a piovigginare.”
“Devo pulire. Me lo ha ordinato il comandante. non voglio essere punito. Lo ha fatto già una volta, non voglio che mi punisca ancora.” E continuai a spazzare.
Mauro scosse la testa. Rimase un po’ con me, dandomi anche una mano, ma poi sfiduciato se ne tornò là dove eravamo accasermati. Rimasi solo a combattere con la mota.
Prima che calassero le tenebre, il capitanò lasciò l’accampamento. Mi misi sull’attenti mentre l’AR mi passava davanti. Ebbi così la possibilità di notare il suo disappunto per le condizioni del piazzale ancora invaso da fango e neve.
I campi invernali per noi di “gennaio” furono un’esperienza durissima, schiacciati da un’attività per la quale non eravamo stati addestrati, per mancanza di tempo, e vessati dalle angherie dei “nonni”.
Dopo i primi giorni dall’inizio di questa esercitazione, una sera fui convocato dal capitano.
Ero preoccupato. Temevo qualche altro rimprovero. Ebbi un attimo di paura prima di bussare. Quando entrai, salutai, mano allo alla visiera e rumore di tacchi, con il capitano c’erano un sottotenente e il furiere Bertazzoni, nel frattempo ristabilitosi.
“Comandi, signor capitano!”
“L’ho fatta chiamare per una cosa importante- Non capii- In questi giorni verrà in visita il comandante di battaglione e al suo arrivo lei dovrà presentare la forza. Ora faremo delle prove perché tutto sia impeccabile.”
Quindi ordinò al sottotenente di farmi vedere come avrei dovuto presentare la forza. L’ufficiale eseguì l’ordine. Quindi toccò a me.
Prima di iniziare mi aggiustai la norvegese. Nel farlo la chiamai con il nomignolo noto a tutti, “stupida”. Non l’avessi mai fatto, cominciavamo male, i suoi baffi ebbero una contrazione. Mi corressi, ma fu sempre troppo tardi.
Iniziai. Portai la mano destra alla visiera per il saluto e battei i tacchi, ma non gli garbò.
“Lapenta cosa fa! Saluta come gli inglesi! Con la mano aperta sulla visiera! Tenente ripeta il saluto.” E l’ufficiale lo ripeté più di una volta, quasi con sufficienza. Mi sembrò di essere un cretino.
Rifeci il saluto e pronunciai la formula.
“No!”
Prima che aggiungesse qualcosa, vedendo il movimento nervoso dei baffi, dissi impropriamente:
“Ripeto la scena…” Ero agitato.
Ebbe un sussulto ma si contenne.
“Ripeta il saluto e la presentazione.”
Rifeci tutto, questa volta a puntino.
“Bene, deve fare così. Ora ripeta perché, come dicevano i latini: “Melius abundare …quam deficere.”
Avrei voluto concludere la frase latina ma tacqui per evitare equivoci. Ripetei invece il saluto e la presentazione. Dopodiché venni congedato. Salutai ed uscii.
Tornai alla mia camerata, maledicendo fra me i campi e le ispezioni militari. Quando raggiunsi i miei compagni, li trovai in apprensione, erano convinti che il capitano mi avesse convocato per punirmi. Gli raccontai l’episodio, rimasero fra l’incredulo e lo sconcertato.
Mi esercitai nel saluto e nella presentazione con Mauro e quando finalmente giunse il tenente colonnello Moggio in visita al campo, dopo il segnale di attenti, dato con il fischietto in dotazione, corsi verso di lui, mi misi sull’attenti, feci il saluto e, dopo il suo, cominciai la lettura della forza con voce squillante:
“Comandi! Alpino Lapenta Egidio, 106° compagnia! La forza presente al campo è la seguente: 4 ufficiali, due sottufficiali, 68 alpini ecc.”
Mentre leggevo, il capitano, rivolgendosi al tenente colonnello, disse:
“ E ’ bravo, eh”
Quello lo guardò senza parlare, facendo un’espressione indefinibile, altri erano i problemi, a cominciare dall’addestramento vero e proprio.
Quando terminai e fischiai il riposo, l’alto ufficiale mi passò davanti senza quasi degnarmi di uno sguardo. Rimasi così, rigido fino a quando lui e il suo seguito si allontanarono per l’ispezione al campo.
Io però avevo un dubbio: vedendo di nuovo il tenente colonnello avrei dovuto presentargli ancora la forza? Purtroppo eravamo all’aperto ed era inevitabile che mi passasse davanti nei vari spostamenti.
Infatti, mezz’ora dopo si presentò nei pressi dell’entrata, io fischiai l’attenti e mi precipitai a leggergli la forza, ma il colonnello mi fermò.
Venti minuti dopo mi passò davanti da solo, fischiai e feci per correre verso di lui, ma, quasi seccato, mi ordinò di smetterla di fischiare e presentare la forza. Mi fermai, ma mi sembrò veramente di essere un tonto.
In quella occasione capii le frustrazioni del capitano. Fummo schierati tutti davanti ai due ufficiali per una breve allocuzione da parte del nostro comandante. Questo cominciò a parlare camminando su e giù davanti alla truppa.
Quando ebbe terminato, prese la parola il colonnello che, rivolgendosi al capitano disse:
“Lombardi, quando parla ai soldati non cammini su e giù, perché li distrae e lei perde di autorità. Si fermi al centro e parli fissando un soldato o un punto preciso. Così impedirà loro di guardare altrove, si sentiranno osservati e avranno anche un certo timore.”
Dopo di che, sempre fermo al centro del piazzale, si rivolse a noi e, guardando ora uno ora un altro, fece il punto su quell’ esercitazione che stava volgendo al termine. Mentre ci parlava, notai l’espressione non proprio soddisfatta del nostro comandante, che in qualche modo era stato umiliato di fronte a tutta la truppa.
I campi invernali terminarono, i congedanti di marzo festeggiarono la fine del servizio militare e noi sperammo così in un futuro migliore.
Di quell’esperienza ricordo le chiacchierate fatte con un pensionato ENEL nelle prime ore del mattino a San Damiano Macra. Aveva prestato servizio di leva nel lontano 1928 e ricordava ancora la prima marcia, durissima, e la disciplina di ferro, l’alpino salutava tutti i gradi, anche i caporalmaggiori e i caporali. Era rimasto colpito dal comportamento non particolarmente marziale tenuto da noi alpini verso i nostri sottufficiali. Eravamo soliti salutarli con un “buon giorno” piuttosto che portando la mano alla visiera. Ma gli spiegai che ciò non succedeva con quelli di altri reparti o caserme, per noi completamente estranei.
Mi colpì poi un anziano, che una sera si presentò al campo con un piatto per avere una razione di primo. Era “per fare una prova fra il rancio dei miei temi e quello di oggi”. L’ufficiale responsabile della cucina gli fece consegnare una razione di primo, secondo, frutta e un brick di vino rosso. Erano avanzati perché alcuni alpini avevano mangiato fuori.
La sera successiva la scena si ripeté, aveva trovato buono il nostro rancio e voleva replicare. Gli diedero quel poco che era avanzato, una razione di primo e una di secondo e il brick di vino.
La terza sera si presentò con il piatto, ma non era avanzato nulla. Insistette, si sarebbe accontentato degli avanzi, ma quella sera era stata magra anche per noi.
Poiché continuava, lo stesso ufficiale della prima sera lo allontanò quasi in maniera poco cortese. Non si presentò più fino a quando non levammo il campo. Era un pensionato e da quello che appariva non se la passava neanche troppo bene.
Tornammo a Boves, alla vita di sempre. Della città conoscevamo solo qualche bar, vista l’ora tarda della nostra libera uscita. Ma ci tenevamo alla larga dai locali frequentati dai “nonni”, a cominciare dal caffè “Italia”. Ricordo l’angoscia che provavo percorrendo il porticato dove vi era la lapide che commemorava le vittime della rappresaglia nazista del settembre-gennaio ’43/ ‘44. Pensavo a quei poveretti e al loro sacrificio. E pensavo a come si era sciolto il nostro esercito dopo l’8 settembre, abbandonato proprio da coloro che avrebbero dovuto guidarlo e proteggere i civili dalla ferocia di un nemico veramente barbaro.
Tornando in caserma costeggiavamo un vecchio mulino ad acqua sui cui muri campeggiava una delle tante frasi di Mussolini: quanta inutile e imbelle retorica.
E quanta vigliaccheria nelle vessazioni grandi e piccole dei “nonni” nei nostri confronti.
Una sera, dopo il lavoro coatto in cucina, stanchi morti, tornando in camerata, trovammo le brande smontate e materassi, lenzuola, cuscini e coperte a terra. Pagavamo la nostra volontà di sostenere comunque Luigi Giordano di fronte alle angherie dei “nonni “.
Egidio Lapenta
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