Produzione e chiacchere

Ho avuto la fortuna, o la sfortuna, verso i trent’anni, di essere inserito in un complesso siderurgico in Piemonte.

Dopo tanti anni di liceo classico e di studi umanistici, è stato molto stimolante lavorare in un impianto che produceva acciaio.

L’acciaio è uno degli emblemi dell’epoca moderna, lo raccontava anche Ruttmann nel suo film, e di acciaio sono fatti tanti oggetti utili o letali del nostro tempo.

In particolare, questa fabbrica produceva getti enormi che andavano a completare giganteschi impianti idroelettrici.

Destinazione: Filippine, Indonesia, Malesia e vari paesi africani.

Fra i vari acquirenti c’erano nomi altisonanti dell’industria europea, e non solo: Alsthom – Atlantique, il mitico Krupp, Oerlikon in Svizzera, British Steel, ma la maggiore acquirente era la Fiat Turbine e Turbogas.

Da Torino arrivavano mensilmente squadre di giovani ingegneri meccanici, che venivano a controllare il prodotto nelle varie fasi di lavorazione, e ponevano stringenti domande per i loro report.

Come erano arrivati così partivano, su anonime vetture blu, per riferire ai loro superiori.

Certo, un lavoro stringente, a volte pericoloso, ma che ti dava chiaramente l’idea di una Italia capace di produrre praticamente tutto in campo siderurgico.

Questo il passato, questo l’aspetto glorioso, e negli stessi anni si apriva a Taranto il polo Italsider, ora Ilva, che indubbiamente serviva a foraggiare il grande boom economico.

Quel lavoro mi permise però di visitare enormi stabilimenti negli Stati Uniti (Bethlehem Steel) e in Giappone (Nippon Steel), che non promettevano nulla di buono per l’acciaio italiano.

Ai tradizionali colossi del settore, USA, Giappone, Germania, si è aggiunta recentemente la Cina, con le sue enormi capacità produttive (e i suoi bassi salari).

Che fare di Taranto? Si tratta di un piccolo insetto nella produzione mondiale, ma questo piccolo insetto rappresenta comunque 20.000 lavoratori, con le loro famiglie e i loro bisogni e quindi si tratta più di un problema umano che di un problema produttivo.

I sei milioni di tonnellate di acciaio che Taranto può produrre si possono comprare facilmente sui mercati mondiali, ma che ne sarebbe del know-how di tanti decenni?

Disperso nel vento.

E, poi, permettetemi di parlare come un appassionato di motori che ha guidato nel passato veloci Alfa-Romeo e assaggiato su un circuito, per pochi minuti, una biturbo Maserati: che fine ha fatto la grande industria automobilistica italiana?

Lo so, si parla sovente di Ferrari e Lamborghini, ma dove sono finite la Fiat, l’Innocenti, l’Auto Bianchi, la Lancia?

Nelle fauci voraci del capitalismo parigino che, da buon fratello maggiore, non vuole neppure discutere con il fratello minore, l’Italia.

Così è, se vi pare, ed anche se non vi pare.

Squalo grosso mangia squalo piccolo e sembra che non ci sia nulla da fare. Quindi cosa è mancato e cosa manca?

Una seria programmazione industriale, la capacità di intersecare privato e pubblico, l’orgoglio del fare e non quello di cantare inni o pronunciare frasi ad effetto.

Per quanto riguarda la siderurgia e l’automobile, si aspettano ancora le decisioni di Roma, e cosa si può aspettare da quei consessi di personaggi ventri potenti ed onnivori che badano solo ai loro interessi?

Invece di occuparsi di problemi reali, concreti, pronunciano parole flautate, lontane da ogni verità.

Viator

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