“Il Provveditore” Paola d’Alessandro

La gloria mundi presto transit. Non dobbiamo essere stati in molti, martedì, a raccogliere dai necrologi de “La Stampa” o dall’inserto “Repubblica”-Torino la notizia della scomparsa, avvenuta là il giorno precedente, di Paola d’Alessandro: già “Provveditore agli studi di Torino, Alessandria e Novara”, come precisava l’inconsueto testo, che per il suo singolare tenore, dettato da amici locali, merita di essere riportato: ”Quanti hanno avuto il privilegio della profonda amicizia di Paola, che lei ha sempre saputo donare con generosità, intelligenza e calore. La sua vita ci lascia un’eredità di libertà, di dignità e di coraggio nell’essere se stessi, senza dover giustificare l’unicità della propria storia. Ha disegnato i confini del suo percorso, lavorando duramente per conseguire i suoi risultati, e continuando a spostare l’orizzonte un po’ più in là. Grazie per questo regalo immenso. Non sapendo quando l’alba arriverà, tengo aperta ogni porta (Emily Dickinson)”.

Qualcuno in più, probabilmente, avrà raccolto, dall’odierna edizione locale del quotidiano torinese, la sorprendente precisazione che, dopo le esequie di ieri nella chiesa di via San Secondo a Torino, l’inumazione ha avuto luogo nel cimitero di Castellazzo Bormida. Rivelando, al di là delle privatissime e non indagabili ragioni personali della scelta, un attaccamento alla nostra terra che non sarebbe stato ipotizzabile, dopo che la dottoressa d’Alessandro aveva chiuso la sua bella e accogliente casa di Piazza Garibaldi per stabilirsi definitivamente a Torino, pur nella parentesi della reggenza novarese. Emotivamente non neutralizzabile, questa opzione, specie per quanti la sapevano profondissimamente radicata nella sua Napoli, e l’avrebbero pensata impaziente di farvi ritorno una volta concluse, nel 2015, le incombenze di servizio.

D’Alessandro (veneziana all’anagrafe e nel curriculum, ma partenopea quant’altri mai di famiglia, e soprattutto d’animo e di tratto) era arrivata, da Provveditore neonominato, nella città assonante col suo cognome a inizio ultima estate dello scorso millennio, proveniente da incarichi di livello immediatamente inferiore in Toscana. Non la prima donna in assoluto ad insediarsi nella palazzina ex-GIL al n. 1 via Gentilini, dopo il breve periodo incolore (non è scritto peraltro da nessuna parte che i dirigenti statali debbano essere sgargianti) di Maria Antonietta Piccitto Pavan a fine anni Ottanta. Vent’anni fa, però, una posizione direttiva apicale non maschile in provincia veniva ancora a rappresentare, di per sé, un’eccezione e di conseguenza un’autentica notizia: i tempi del prefetto Romilda Tafuri erano ancora di là da venire. Non sarebbe d’altra parte stato assolutamente nel suo stile, fin dal principio, il tentativo di farsi passare inosservata: anzi. Avrebbe dovuto però fare ulteriormente i conti, in chiave personale e a viso aperto, con una realtà cittadina e territoriale non precisamente adusa a tale scelta, o comunque non ancora pronta ad accettarla con naturalezza.

La carta presunta vincente che la nuova venuta intendeva giocarsi, e far giocare all’intero mondo dell’istruzione nell’Alessandrino, era del resto esattamente di segno opposto. Si proponeva di portare la questione scuola e la preminenza decisiva delle sue attività assolutamente in primo piano. Le mosse dei suoi anni iniziali furono soprattutto improntate ad assicurare al comparto di cui era divenuta responsabile il massimo della visibilità, si direbbe oggi, mediatica: tv, radio e giornali locali letteralmente tempestati dalle sue iniziative. In un momento nel quale invece, barcamenandosi, i “dirigenti scolastici”, mentre il ricorso quotidiano alla rete era ancora agli albori, si affannavano ancora, volenti o nolenti, ad apprendere a stento il vecchio, caro SMS-DOS. Per poi venire calati e mortificati nel mondo assurdo del magico corso di 300 ore che avrebbe dovuto mutarli in manager a colpi di bacchetta incantante. Questa la preminenza: l’assoluto privilegio accordato all’Immagine, anche nei rapporti con gli enti locali, i sindacati del settore, le altre articolazioni statali stesse. Anteposta senza deflettere, nella convinzione che l’intendenza avrebbe seguito, e la realtà dei fatti si sarebbe imposta vittoriosamente costringendo la scuola, bon gré mal gré, ad autoriformarsi e “modernizzarsi” definitivamente. Ma una tale linea sarebbe stata necessitante di una più stretta coesione territoriale, non del suo contrario: mentre tante volte l’incipiente “autonomia scolastica”, coniugata alla pseudo”dirigenza” atipica imposta agli istituti, finiva paradossalmente per consentire alla singole scuole di farsi un baffo delle indicazioni provenienti dalla d’Alessandro, giuste o sbagliate che caso per caso fossero. E finiva, contro le sue ottime intenzioni, non di rado per risultare oggettivamente divisiva all’interno non soltanto del mondo scolastico nel suo complesso, ma nell’ambito stesso del variegato e non facile ufficio di cui era stata posta alla testa.

Da qui un livello notevole di reciproca incomprensione -esplicitata o meno che fosse- con larghissima parte dell’ambiente didattico e delle sue rappresentanze organizzate. Talora con la stessa popolazione, visto anche lo scarso ricorso alla diplomazia irrefrenabilmente caratterizzante nella maggior parte dei casi nel suo modo di agire.

A conti fatti (ogni passione spenta: ci si augura; non la memoria, tanto meno l’affetto) si può dire che abbia avuto in sorte di vivere l’esperienza direttiva, in cui credeva moltissimo e alla quale teneva assai orgogliosamente, negli anni sbagliati. Diventava “Provveditore” nel momento esatto in cui il “competente Ministero” cominciava proprio a smontare con la tecnica del carciofo i Provveditorati, inizialmente tendendo addirittura a farli scomparire, poi frenando in retromarcia con la loro riduzione a “Uffici Scolastici Provinciali” (un percorso a metà che sarebbe poi stato a grandi linee imitato altrettanto disastrosamente con le Province stesse). Quindi fu per lei giocoforza, da neo-Provveditore, iniziare e proseguire nella riduzione e diminuzione progressiva del suo stesso, così desiderato ufficio: il che le procurò inevitabilmente, come sarebbe accaduto a chiunque, non pochi problemi di orientamento e, in ultima analisi, di identità professionale. Il suo innato gusto per la sperimentalità e l’innovazione -questo il messaggio che lanciava instancabile ogni giorno, battendo la provincia palmo a palmo- cozzava contro la necessità di scavarsi, di fatto, il terreno sotto i piedi. Molto attenta, a modo suo, allo scenario politico, negli anni in cui berlusconismo ancora rampante e Ulivo troppo eterogeneo si contendevano la scena, finì forse, anche probabilmente malconsigliata e fiduciosa in promesse di ardua realizzazione (ma evitiamo ogni riferimento ad altre persone non più tra noi), per puntare su cavalli solo momentaneamente e all’apparenza vincenti. Più volte a una spanna dal conseguire l’ambita promozione alla Direzione Scolastica Regionale di regioni di primo piano, dovette poi accontentarsi, dopo gli anni un po’ inevitabilmente affannati dello scavalco Alessandria-Novara, di concludere la carriera sì a Torino, ma “soltanto” in via Coazze, nel vecchio provveditorato, e non in Pietro Micca, l’allora sede della Direzione Regionale a pochi metri da piazza Castello e via Roma, come le sarebbe stato infinitamente più gradito e forse più giusto. In qualche modo, dovessi immaginarla ancora viva e operante oggi, con un sorriso non complice la pronosticherei molto incuriosita da Italia Viva e con l’orecchio attento all’eventuale futuro sviluppo di un dialogo… Boschi-Carfagna (non me ne voglia da lassù d’Alessandro: si scherza, come dice Benigni, ma per esorcizzare il lutto). Certo idea e metodo di lavoro della Leopolda non dovevano averla infastidita. Come sarà stata altrettanto entusiasta dell’esperienza universitaria “libera” di Petrini a Pollenzo, o dell’affermarsi dell’Eataly di Farinetti. L’endiadi valorizzazione turistico-artistico-gastronomica territoriale infatti era un altro dei punti fermi del suo agire nella prospettiva dei posti di lavoro: in attesa di un futuro desiderabile, nel quale divenisse possibile bio-nutrirsi anche senza essere milionari. Ma la nostra provincia non era né Venezia né la Toscana, e dovette forse finire per darsene, a poco a poco, per intesa. Il suo slancio amorevolmente entusiasta per studenti e scolari, saggiamente congiunto a un’impostazione di fondo severa, era però schietto e profondo. E credo sia riuscita a conoscere di persona più dirigenti, docenti, amministrativi, tecnici e collaboratori dei territori in cui si è trovata ad operare lei da sola, di quanto non abbiano fatto cumulativamente i suoi colleghi precedenti e successivi dal dopoguerra ad oggi tutti insieme. Escluderei esista un plesso scolastico della nostra provincia in cui non abbia messo almeno una volta piede in un numero in fondo limitato di anni (e la stessa cosa, per analogia, estenderei al dopo: certo Torino città metropolitana è vasta!).

Un personaggio controverso, in ultima analisi, come peraltro finiscono per essere o diventare presso che quanti in possesso di una forte personalità. Certo una donna capace di lasciare il segno: comunque la si voglia giudicare e valutare, sideralmente diversa -appunto- da numerosi “personaggetti” (citando il suo ineffabile conterraneo De Luca ricalcato da Crozza) tra quanti avvicendatisi in quell’ufficio prima e dopo di lei. E dotata di quella maggiore spontaneità nell’intendersi con gli uomini piuttosto che non con le donne, che è peraltro caratteristica non infrequente in quante fra loro “arrivate” … Mi accorgo di aver scritto a lungo: ma dell’altra mezza dozzina di Provveditori con cui ho avuto la ventura di lavorare non sarei stato capace di compitare cinque righe.

Non ritengo opportuno, fin che si riesce ad evitarlo, mettersi in evidenza nel parlare di persone che non ci sono più. Ma almeno due eccezioni debbo farle, tra le molte che sarei in grado di riportare. La prima riguarda la scuola carceraria sia del circondariale di piazza don Soria che del reclusorio di San Michele, negli anni in cui ero tornato ad esservi preposto. [Se c’è una cosa di cui sono grato alla problematica ma conclusa esperienza professionale, è l’aver potuto conoscere dall’interno, e non in superficie, la realtà detentiva: mi ha dato le idee chiare vita natural durante sulla verità del carcere, in direzione ostinata e contraria a questo sempre più incredibile paese, che pare ansioso solo di “e buttare la chiave”]. Appunto in tema di “progetti”, d’Alessandro era affascinata pure dall’idea di dar luogo a un’esperienza-pilota al riguardo, che potesse assurgere via via alla dignità di “buona pratica” aspirante a una rilevanza nazionale. Aveva avuto tuttavia la non favorevole sorte di affiancarsi giocoforza a un responsabile settoriale assai meno convinto delle buone pratiche e del desiderare tali mete, ma anzi persuaso che per una scuola che si voleva aziendalizzare, come poi è accaduto, l’ordinaria amministrazione fosse il toccasana vaccinante. Infatti il notevole sforzo ideativo e organizzativo oggettivamente profusovi, in termini di tempo ed energie, finì in niente. Ma debbo a lei, quanto meno, le incredibili esperienze degli incontri con Giancarlo Caselli, allora in pieno occhio del ciclone come magistrato, in un prato della “sua” Fubine che gli aveva appena conferito la cittadinanza onoraria, circondati dalla scorta armata fino i denti, di cui era stato necessario superare col suo slancio personale la resistenza. O addirittura con Sergio Cusani nel suo studio di Milano (via e palazzo omonimi!), in un’indimenticabile mattinata in cui ci parlava avendo alle spalle un immenso scaffale. Dove in infiniti classificatori tutti uguali erano quasi scenograficamente ordinate le carte del suo processo. Ma dove riuscimmo a capire che esplosivo potenziale riabilitativo potesse risiedere in un percorso carcerario positivamente condotto.

La seconda coincide con l’ultima volta in cui siamo visti. Poteva essere il 2008 o il 2009, perché assessore all’Istruzione in Comune era già Teresa Curino, organizzatrice. Invitato a un incontro sul cinema con docenti e studenti al “Nervi”, mi portai tre magnifici laureati a Pavia, eccellenti non per merito mio, ma della loro bravura e del compianto Alberto Farassino, che li aveva formati precedendomi. “Il Provveditore” aveva vissuto come un piccolo tradimento personale la mia “fuga” pensionistica anticipatissima, ma con entusiasmo la successiva chiamata universitaria pavese, convinta come tanti -erroneamente- che i due momenti fossero premeditati e connessi. Ci fece la sorpresa di presenziare. I tre -Laura Sangalli, Andrea Fornasiero, Simone Spoladori: oggi tutti nomi nazionali, era inevitabile- fecero come mi aspettavo una gran figura: e il modo con cui d’Alessandro si rivolse loro, intrattenendovisi a lungo, a fine mattina, mi diede la piena misura di quanto amasse la scuola, l’insegnamento, il sapere. E anche di quanto fosse capace d’amicizia: per chi l’ha conosciuta davvero da vicino, il testo del necrologio riportato in apertura è davvero esatto e completo, per quanto stia a me dire.

Leggo sui giornali di stamane un divertente gossip riguardante Elisabetta d’Inghilterra: a una manifestazione del 1991 sarebbe stata lasciata – momentaneamente! – alla porta da uno zelante dragone, incapace di riconoscerla, ma fermo nel precluderle l’ingresso perché non in possesso del pass. Paola d’Alessandro aveva istituito da subito, in città e in provincia, la ricordata prassi di visitare di persona le scuole, fuori da ogni cerimoniale e senza preavviso. In una realtà in cui, tradizionalmente, i Provveditori comparivano nella concretezza quotidiana della vita scolastica solo sotto forma di… paraffa in calce alle infinite circolare e grida, o in carne e ossa in rarissime occasioni inaugurali o comunque ufficiali. Nei primi tempi della sua presenza alessandrina era ovviamente del tutto sconosciuta ai più. Così, una bella mattina, una solerte bidella (opps: “collaboratrice scolastica”) le fece questioni all’ingresso dell’istituto dov’era comandata alla porta, chiedendole, sostenuta, chi fosse e dove volesse andare: di qualificarsi, insomma. “Sono il Provveditore!” fu la risposta con la consueta voce assai forte e chiara. La povera custode si sarebbe volentieri autosotterrata: si scusò balbettando, per andare più tardi a disperarsi (a torto!) in segreteria e in presidenza. Non era infatti ancora giunta, quella mattina, l’ora di far scendere i bambini a mensa, quando le pervenne a mano direttamente -dal di lì a non molto ribattezzato Ufficio Scolastico Provinciale- una busta. L’encomio solenne non era paraffato ma autografo: Il Provveditore agli Studi Dott. Paola d’Alessandro. Non credo avesse fatto altrettanto, con le debite proporzioni, Elisabetta II. Che fosse… più regale “il Provveditore” (rigorosamente al maschile)?

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