Quattro cineasti e quattro attori: è il grande cinema libero che se ne va…

La Cultura (notare la “C” maiuscola) è da sempre il miglior antidoto contro i populismi e le ritirate anonime nel gruppo. E’ vitalità, è coraggio di andare contro corrente, è voglia di cambiare. Per questo abbiamo dato risalto alle (tristi) notizie riguardanti due “perle” della cultura alessandrina che si sono sfilate e lasciano la “collana” ancora più povera. Roberto Pierallini e Rosetta Pasino sono stati gli ultimi. Ma il loro impegno, il loro lavoro (sottovalutato), la loro professionalità, non moriranno mai. Così come l’attività dei quattro cineasti ricordati – giustamente – dal nostro Nuccio Lodato (n.d.r.) .

Sul finire dell’anno scorso ho chiesto congedo -dopo undici anni di curatela per mandato ereditario, non solo implicito, di Lorenzo Pellizzari- dalla rubrica di «Cineforum» Le lune del cinema. Non riuscivo più a reggere giornate dedite in misura prioritaria a registrare nevroticamente i sempre più frequenti decessi, a grappolo, sì di veterani dello schermo, ma anche di coetanei e ormai frequentemente di parecchio più giovani. Però qualcosa del vecchio vizio autolesionista deve essermi rimasto, perché alcune scomparse intervenute nelle settimane precedenti mi hanno particolarmente colpito. Vorrei quindi dedicare qualche riga… post-lunare (il lupo perde il pelo ma non…) a quattro fondamentali autori che ci hanno lasciato rispettivamente  il 23 e 25 gennaio ed entrambi poi il 21 febbraio: Jonas Mekas, Dusan Makavejev, Stanley Donen e Claude Goretta. E a quattro grandi attori che se ne sono andati uno dopo l’altro, rispettivamente il 3, 7, 16 e 19 del mese scorso: Julie Adams, Albert Finney, Bruno Ganz e Giulio Brogi

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Incredibile -oppure, invece, anche troppo credibile- la maniera con cui quotidiani e periodici italiani hanno vergognosamente “bucato”, o nei casi migliori sottodimensionato la scomparsa di Jonas Mekas, intervenuta a 96 anni. L’omissione, in sé non isolata, dà però intera la misura -nel particolare e grave caso specifico- di come sia da considerarsi ormai perduta ai più l’intera memoria del cinema davvero libero che ha contato nella seconda metà del cosiddetto secolo scorso. Clamoroso in solitaria direzione opposta, come di consueto, «il manifesto», che gli ha dedicato, tra quotidiano e “Alias”, due intere belle paginate in quarantott’ore: la seconda era un caldo e affettuoso ricordo diretto di uno dei nostri maestri del cinema libero, Tonino De Bernardi.

Era il 1962 quando Mino Argentieri portò all’allora festival, appunto, del Cinema Libero di Porretta Terme suo fratello Adolfas (1925-2011) col suo Allelujah the Hills!

Come la fondazione, da parte di Jonas, della newyorkese Filmmakers’ Cooperative, cui sarebbe succeduta due anni più tardi quella della Filmmakers’ Cinemateque, base dei successivi e talvolta discussi (ad esempio dall’esclusone o autoesclusosene Gregory Markopoulos)  Anthology Film Archives. E la più ravvicinata emozione della lettura -era sempre quel ’62- del primo numero-saggio di «Film Culture», ottenuto gratuitamente per posta (come facemmo in tanti) inviando una perigliosa richiesta per posta aerea, in risposta a un’inserzione apparsa su di una qualche “rivista specializzata” dell’epoca. Cinque anni dopo, ecco l’ormai giustamente mitizzato “viaggio in Italia” di Jonas che, partendo dall’Unione Culturale torinese di Fadini, fece finalmente conoscere dal vivo, direttamente, i caposaldi di quella produzione -invocata e resa leggendaria a scatola chiusa- genericamente designata con la definizione -troppo equivoca e larga- di new American Cinema. (Mi verrebbe voglia di rinviare, ancora un po’ narcisisticamente, ai due numeri speciali del «Sipario» illuminante e precorritore di Franco Quadri per Bompiani, che curammo tra ’67 e ’68 con Aldo Rostagno e Daniela Palazzoli).

L’intuizione fondamentale di Mekas potrebbe apparire a posteriori una sorta di uovo di Colombo: ma solo lui, oltre a nutrirla, ha tentato per tutta la vita, fin dai tempi remoti del suo “Film Journal” per «The Village Voice», di “darle gambe”, come si diceva una volta nella politica minoritaria, e farla crescere e prosperare in concreto. Era semplicemente quella di svincolare alla radice il cinema dall’apparato produttivo istituzionale e dagli interessi creati, costituiti e tradizionali, fissati per sempre nel modello produttivo hollywoodiano con uno schematico quanto ferreo succedersi di tempi, luoghi e modi, per ridargli una libertà tanto assoluta quanto probabilmente utopica, coinvolgendo in tale innovazione anche o soprattutto gli spettatori destinatari (e qui ha forse risieduto l’aspetto più fragile del tentativo). Ma negli anni Sessanta, dopo il precedente decennio di… “raccoglimento e preparazione”, almeno l’idea fu travolgente e conquistatrice, dando luogo a parallele ondate programmatiche e realizzative in molti altri paesi, e tutt’altro che secondariamente nel nostro, con la pur effimera ma assai incisiva esperienza della Cooperativa Cinema Indipendente e non solo.

Oggi, quando la rete rende in qualche modo assai facilmente visionabili molti film che all’epoca della realizzazione era impresa disperante raggiungere nelle loro improvvisate ed eterovaganti circuitazioni sotterranee, è forse più costruttivo invitare i lettori (specialmente quelli più giovani) ad accedervi direttamente e a farsi un’idea propria dell’apporto mekasiano -comunque oggettivamente sconfinato: anche in termini quantitativi…- al cinema e sul cinema.

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Non aveva neppure fatto in tempo non dico a placarsi, ma anche solo a sminuirsi l’impotente indignazione interiore per Jonas sotto silenzio, quando, solo quarantott’ore dopo, il fenomeno dell’indifferenza smemorata si quasi  è ripetuto, se vogliamo relativamente “in minore”, a carico di Dusan Makavejev (classe 1932). E anche qui a spezzare il silenzio è stato di nuovo il quotidiano “comunista” romano di Norma Rangeri, con un vasto ricordo al solito esaurientissimo dell’amico Grmek Germani.

«Pochi giorni dopo Mekas» ha scritto Sergio «un altro tra i massimi inventori di cinema vi lascia un vuoto. […] Perché diciamolo: con Alain Resnais, Vittorio De Seta e John Boorman (che per la stessa serie dell’ultimo Makavejev, Director’s Place, realizzò uno dei suoi film più personali) Makavejev fu il massimo reinventore junghiano del cinema, qui come altrove senza dogmatismi, unendo appunto Jung e Freud, Wilhelm Reich e Karl Marx

I suoi primi lungometraggi degli anni 60 arrivarono in Italia per merito della Mostra del nuovo cinema di Pesaro, e trovarono anche marginali distribuzioni: non ancora L’uomo non è un uccello, ma il successivo Un affare di cuore e poi Verginità indifesa, uno dei massimi film del 1968.Il primo e il secondo film contengono nel titolo o nel sottotitolo un riferimento all’amore, che poi di tutto il suo cinema è stato il motore. Dopo questo trittico, che è anche tra i più geniali superamenti (insieme a Pavlovic) del neorealismo di Rossellini, tradotto in ossessione bunueliana. Makavejev realizza tra il 1971 e il 1974 un dittico, WR o i misteri dell’organismo e lo stupendo Sweet Movie, che resteranno tra le vette degli anni Settanta – non a caso Coppola fu tentato di affidargli la regìa di Apocalypse Now. Quel dittico fu dileggiato da tutte le censure: quella italiana rifiutò definitivamente il visto al primo film per punire la distribuzione PEA di Ultimo tango a Parigi e fu “costretta” ad accettare il secondo (con tutta la trafila di sequestri e dissequestri) in quanto edito in versione italiana da Pasolini».

Si è preferito evocare sinteticamente il maestro prendendo a prestito le parole di un collega tanto autorevole quanto controcorrente, di particolare competenza in merito anche grazie a contiguità culturali e territoriali. Personalmente, con tutta onestà, non posso che confessare come le remotissime visioni, all’atto delle rispettive uscite italiane, di Un affare di cuore e Verginità indifesa, Sweet Movie e -parecchi anni più tardi- Montenegro tango, pur depositate ormai nella memoria sfocate e approssimative, più che mai necessitanti di un’urgente nuova visione, mi ridestino tuttavia in senso di meraviglia per la libertà e l’inventiva, la novità e lo sberleffo poche volte provato -ultimo Bunuel escluso- nella frequentazione degli schermi negli ultimi decenni. Senza trovarvi invece, per capirci, l’artefatto e il programmaticamente ricercato nella provocazione di uno Jodorowsky, o su di un altro livello di un Arrabal: citati non a caso, anche in quanto suoi coetanei tuttora in vita.

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Donen e Goretta, che hanno curiosamente scelto per lo stesso giorno per l’estremo saluto, sono stati probabilmente agli antipodi dell’esperienza cinematografica creativa. Il primo, congedatosi a 94 anni, ci ha lasciato l’immagine dell’immenso “artigiano” in apparenza inserito come un meccanismo ripetitivo, collaudato e ben oliato, dentro il fluire della gran macchina hollywoodiana, ma che in realtà ha spesso trovato la maniera, al suo interno, da apparente ligio, di fare quello che voleva. Ma è l’immensità dei suoi titoli a parlare per lui: basterà dire che ha firmato, tra il molto altro, anche Un giorno a New York e Cantando sotto la pioggia, Sette spose per sette fratelli e Cenerentola a New York, Sciarada e Arabesque, il delizioso Due per la strada (se ne riparlerà più sotto per Finney…) e Il boxeur e la ballerina. Mekas ha insegnato che condizione sine qua non per essere liberi era tenersi strettamente al punto cardinale opposto a quello di Hollywood; il suo quasi coetaneo Donen che si poteva delineare una propria personalità estremamente autonoma anche lì (e non è certo stato il solo a dimostrarlo). All’uno e all’altro sarebbe necessario dedicare quanto meno un articolo più lungo di questo pastone collettivo.

Dello svizzero romando Goretta, ginevrino classe 1929, basterà citare due titoli a cavallo dei non più prossimi anni Settanta-Ottanta: La merlettaia, che rivelò oltretutto definitivamente al mondo Isabelle Huppert, e l’immediatamente successivo La morte di Mario Ricci. Chi li ricorda sa il senso del parlarne; chi non li abbia visti ne ricerchi i dvd o lo streaming e ne sarà soddisfatto…Ma è stato anche il fondatore di quel “Group 5” con cui ha tentato di dare coscienza di sé e consistenza alla nouvelle vague elvetica.

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Cinque le altrettante donne dell’immenso full western che Anthony Mann allestì con James Stewart e Borden Chase (quest’ultimo limitantesi al…poker perché assente dal titolo conclusivo) tra il 1950 e il 1955. Shelley Winters in Winchester ’73; Janet Leigh ne Lo sperone nudo; la coppia rivale Ruth Roman/Corinne Calvet in Terra lontana. Ma soprattutto, indimenticabile, Julia Adams di Là dove scende il fiume. Qui la stampa nazionale non ha “bucato” stolidamente come per Mekas, ma ha preferito pigramente (tutta al traino web/wiki, com’è ormai inevitabile: dai “coccodrilli” personali e personalizzati agli “Addio a…” ormai sempre desolantemente identici!) rammentare il solo, pur proverbiale Mostro della laguna nera (Arnold, 1954). Piuttosto che non, nella sua pur non irresistibile progressione di carriera, i due western-chiave ad esso coevi: il citato e Sotto il sole rovente di Raoul Walsh (rieditato una quindicina d’anni dopo come Diario di un condannato). Tre titoli comunque che, quand’anche concentrati in un ristrettissimo lasso di tempo, garantiranno all’attrice dello Iowa, scomparsa novantaduenne, un posticino non insignificante anche nelle storie del cinema.

(Poi, per quanto riguarda Mann, nel supremo e definitivo L’uomo di Laramie non ci sarebbe più stato Chase in sceneggiatura, e il ruolo femminile, sostenuto da Cathy O’Donnell, relegato di fatto secondario. Tre anni dopo, Dove la terra scotta: di nuovo senza Borden al copione, sostituito dall’allora rampante Reginald Rose e  con Stewart rimpiazzato da Cooper. Qui avrebbe sfolgorato nel suo indimenticabile abito rosso un’altra Julie, la London: ma lei è già da tempo nella Hollywood Walk of Fame…).

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Finney è stato tante cose immense (tenendo conto che, come per quasi tutti gli attori della straordinaria, forse inarrivabile scuola anglosassone, noi ne percepiamo la grandezza sullo schermo senza poter attingere alla ricchissima esperienza teatrale da cui quasi sempre deriva). Il protagonista indimenticabile di Sabato sera domenica mattina e Tom Jones, con cui all’inizio del Sessanta Tony Richardson impose universalemente l’english free cinema. Quello dolcissimo e melanconico di un gran film intimista da riscoprire e rivalutare, il Due per la strada del 1967, con Audrey Hepburn e proprio di Donen: in tempi di gran moda per la crisi di coppia come i nostri, si mostra assai più centrato e profondo di molte esercitazioni contemporanee quasi obbligatoriamente a tema. E, più di recente, l’immenso scrittore alcoolista al centro di Sotto il vulcano, prova superba dell’Huston a fine carriera, e l’incredibile protagonista narrante del Tim Burton di Big Fish.

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Parlare di Bruno Ganz mi è più difficile: qui almeno, per la stampa cartacea e il digitale, molti l’hanno fatto esaurientemente. A uno spettatore della mia generazione, solo di poco più giovane di lui, non potranno uscire dalla memoria, come a molti, La marchesa von… e L’amico americano, Oggetti smarriti e l’entusiasmo col quale parlava di lui Giuseppe Bertolucci, Nosferatu e Dans la ville blanche; il pur sopravvalutato Cielo sopra Berlino, oltre naturalmente a Pane e tulipani, interpretato nella “sua” Venezia e al citatissimo ma molto “professionale” La caduta.

Ma l’ho visto soprattutto visto, per mia fortuna, recitare dal vivo in un lungo e indimenticabile monologo classico, appeso in alto, nel vuoto: Milano, Piccolo Teatro Studio, 1987. Era il Prometeo incatenato di Eschilo iniziato l’anno precedente alla Schaubühne con la regìa di Klaus M. Grüber. La stessa stagione nel medesimo teatro vidi anche Jeanne Moreau nel Récit de la servante Zerline da Broch con l’identico regista. Era la stagione celebrativa del quarantennale del Piccolo: ripensandoci oggi sembra di aver sognato! Ed era stata proprio la Moreau regista esordiente a dirigerlo in uno dei suoi primi film con Lumière. In tutti i sensi notizie da un altro Millennio. Sempre più remoto.

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Giulio Brogi, infine. Un attore schivo e riservato, tanto ripiegato su se stesso quanto di vaglia. Per gli alessandrini che seguivano allora il Circolo del Cinema di Adelio Ferrero alle sue ultime battute, l’indimenticabile personaggio di Giulio Manieri, l’anarchico protagonista di Sam Michele aveva un gallo dei Taviani in una serata del ’73 all’Ambra, innanzitutto. Ma coi Taviani era già stato in Sovversivi cinque anni prima, come già addirittura con Rocha (Il leone dalle sette teste) e Athos Magnani traditore/eroe borgesiano per il Bernardo Bertolucci di Strategia del ragno (entrambi 1970). Per non tralasciare Mingozzi ed Emidio Greco, Amelio e Luchetti, ma addirittura l’Anghelopoulos di Viaggio a Citera (1984) dove era parso rinverdire l’Enea televisivo dell’Eneide di Franco Rossi. Ha concluso la carriera, dopo essere stato intervistato da Fabiana Sargentini nella Levanto di Morando Morandini nell’assai azzeccato Non lo so ancora (2013) con due figure di prete: il padre Sergio (figura realmente esistita) del suggestivo La terra buona di Emanuele Caruso e l’antico assassino pentito Carlo Colussi che abbiamo appena visto, proprio in singolare coincidenza con la sua dipartita, nel Diario del ’43 con Montalbano proposto da RaiUno poche settimane fa. Ma anche lui aveva dalla sua tanto teatro: dovrebbero saperlo anche gli spettatori più assidui e di lungo corso del nostro defunto Comunale, che ebbero modo di vederlo già in Solitudine da Fenoglio con la regìa di Scaglione, nella stagione inaugurale 1978-79. Quando c’era un Teatro: al quale, come ha annotato Piero Bottino nel suo punto domenicale ultimo per “La Stampa”, sarebbe forse il caso di tornare a pensare. O almeno di provarci, no?

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