Sono sempre stata attratta dalla pazzia, sorella della poesia, e non mi sento di definire l’una sorella minore dell’altra.
Quel matto mago del dottor Jung aveva ben compreso quanto l’ascolto fosse unguento e cura per chi non ce la fà a stare nelle logiche di quel che chiamiamo normalità.
I matti di Fellini, la pazzia di Ligabue e di van Gogh, quella di Camille Claudel e di Dora Maar, modi differenti e unici di uscire dal normale, nomi conosciuti che si accostano pietosamente alle follie delle persone comuni, visi che incatenano tratti arabescati, occhi luminosi e troppo spesso fissi su immagini che sono così violente da non offrire possibilità di ritorno dall’Inferno incontrato senza possibilità di essere trasceso.
Il grande matematico ed economista statunitense John Nash, che ha rivoluzionato l’economia con i suoi studi di matematica applicata alla teoria dei giochi, ricevendo il premio Nobel nel 1994, era segnato da un’acuta forma di schizofrenia paranoide, che lo ha costretto a molti ricoveri in strutture psichiatriche e cure invasive. Negli ultimi lustri della sua vita Nash riuscì a convivere con la sua malattia e, nel bellissimo film “A beautiful mind” diretto da Ron Howard , si può chiaramente vedere cosa Nash vedesse, tanto che, guarito, ogni volta che gli veniva presentato qualcuno mai incontrato prima, chiedeva, a chi conosceva e gli stava accanto: “ma lo vedi anche tu?”.
Le molte discese e i molti incontri che Jung bene disegna nel suo Libro rosso appartengono ad un inconscio collettivo che contiene noi tutti e che invita ad accettare la pazzia come una delle compagne delle nostre vite più assetate d’amore.
Questa sete di amore è raccontata magistralmente da Mario Tobino nel suo libro edito nel 1972 da Mondadori “ Per le antiche scale “. Un libro che mi chiamava e che ho fatto fatica a ri-trovare, dimenticato con quelle cose che crediamo ormai superate e che invece contengono sempre la magia dell’inizio.
“Idelfonso non andò a scuola, anche per questo la mente gli rimase semplice; le uniche tenerezze le ebbe dalla sorella, qualche piccola assistenza, una parola , una comprensione. Crebbe rotto a qualsiasi fatica, i muscoli presero il prepotere su i raffinati ricami del sistema nervoso. L’anima gli rimase trasparente, identico lo smeraldo dei suoi occhi, ignota a lui la lussuria; e quando sorrideva era una golosità per la speranza, per il perdono.”
Ritratti di uomini e donne che Tobino dipana con delicata cura, a volte con quello stupore che ci prende e sorprende, perchè l’ineffabile è sempre più vicino a quella verità che noi evitiamo.
I malati che Tobino racconta hanno spesso, solo temporaneamente, perduto la luce di quella che noi definiamo intelligenza, ma mai quella dei sentimenti. Questi rimangono intatti e riaffiorano non appena il delirio smette di suscitare le proprie immagini irreali ( per noi ) , immagini prepotenti e devastatrici.
Può essere allora che la voce dell’anima si manifesti attraverso il linguaggio della musica e l’autore ce ne offre testimonianze toccanti: la malata di schizofrenia che abbandona di colpo il delirio dei suoi assurdi calcoli e sembra ritrovare al pianoforte un’identità perduta; oppure l’insegnante la cui cultura si frantuma in associazioni sconnesse, da uno strumento musicale ricava frasi compiute.
In un mondo come il nostro di oggi, dove la follia si nasconde nell’apatia e nella violenza, su sé stessi, su gli altri e sulla Natura, rileggere questo libro ci può fare solo bene.
Siamo tutti nello stesso reparto, chi più calmo, chi irrequieto, chi perduto nel baratro, ma alla fine il reparto si può ricomporre.
Al dottore (a noi lettori, a noi uomini e donne) pare di saperne un poco di più sulla follia e sulla vita: entrambe assetate d’amore.
di Patrizia Gioia
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