Ricordando Joel Schumacher – Un Giorno di Ordinaria Follia

Joel Schumacher, mancato in questi giorni a 80 anni, dopo una battaglia contro il cancro, è stato un grande regista di cinema d’autore (e pensare che aveva iniziato come costumista).
Ha una sua estetica precisa, che è riuscito a infilare anche nei due Batman tanto contestati dal pubblico (perché, poi?).
Ma davvero resta una delle icone del cinema anni ’80 e ’90 con la quale non possiamo che incontrarci.
E, da una sceneggiatura di terzi, nella Los Angeles del 1993, Joel ci racconta la discesa agli inferi di un uomo…

Falling down, come il London Brigde che è fallatodown nella canzoncina. Ecco come si chiama davvero Un giorno di ordinaria follia.
Ma entrambi i titoli (originale e italién) descrivono perfettamente cosa troviamo nel film:
il crollo di una persona, che oltrepassa il punto di non ritorno.
una giornata dove tutto va storto, e che ti porta al punto di non ritorno.

Micheal Douglas è William Foster, apparentemente un insignificante uomo tra tanti, un impiegato che lavora per un’azienda della Difesa.
Appartentemente.
Perché in realtà è da tempo che ha dato segni di squilibrio, coi suoi sguardi persi e col suo taglio di capelli squadrato e maniacale.
Allontanato da moglie e figlia perché potenzialmente violento, ha anche perso il lavoro eppure continua a uscire di casa tutte le mattine.
Fino al giorno del compleanno di Adele, la sua bambina, che non può, per legge, più vedere.

Dal traffico per lavori in corso a una banda di latinos abbastanza deficienti, passando per immigrati, fanatici neonazi e tossici, finendo con la celebre scena al fast-food… il nostro Bill finisce per perdere totalmente il controllo, commettendo reati su reati, acquisendo nuove armi di livello in livello come fosse GTA.
Fino alla fine, fino alla sua famiglia.
Il film gioca con tanti cliché, a partire dalla storia dell’altro protagonista, un grande Robert Duvall: poliziotto all’ultimo giorno di servizio, come per ogni poliziotto all’ultimo giorno di servizio in ogni film e serie sa che potrebbe succedere di tutto, in quelle ore di lavoro. Sa che potrebbe persino morire.

La scalata di Bill con le armi è un percorso assurdo che rovescia all’ultimo ogni senso: da una mazza si passa a un coltello, quindi una mitraglietta e poi un bazooka. E si finisce con una pistola, tornando indietro.
E chi conosce l’opera sa di che tipo di pistola sto parlando.

Non manca l’ironia, ed è questo il bello di Un giorno di ordinaria follia.
Sempre un po’ sopra le righe (bussare alla paranoica moglie del detective), ma altrettanto serio: ci sono comunque un uomo impazzito e una famiglia in pericolo.
Però sono tante le scene che, di fatto, fanno ridere. E sanno farlo bene, pur non essendo pensate come comicità tout-court.
Si pensi alla scena del bazooka, nemmeno prevista dal copione: il ragazzino che aiuta Douglas ad aprire lo sparatutto era una comparsa che doveva starsene in silenzio.

A suo modo, Bill incarna la rabbia dell’uomo bianco medio americano: vessato persino dal traffico, diventa un antieroe sociale contro certi sistemi o verso gente ancora più pazza e criminale di lui (o magari solo antipatica, come il direttore del fast-food).
Mentre l’indifferenza regna sovrana, persino negli ambienti della polizia, dove il detective a poche ore dalla pensione quasi non è nemmeno conosciuto dai suoi superiori.
In un mondo così, siamo tutti potenziali Bill Foster targato D-Fens.
Joel Schumacher firma il suo capolavoro. Non che si tratti di ‘capolavoro’ vero, intendiamoci, è soltanto la marchetta perfetta del regista americano. Lo spessore dell’opera, però, rimuove queste tediose considerazioni e consegna un film realmente rabbioso, duro come una roccia, aspro come un limone. Da un’ideuzza di semplicità quasi banale, al limite dell’innocua sciocchezza, si fa strada una sinfonia urbana intensa e raccapricciante: giocando sul senso d’immedesimazione dello spettatore, sul sottile compiacimento che deriva dal sogno proibito (chiunque, in mezzo al traffico, ha desiderato di fare una strage), Schumacher realizza un film ibrido (l’action movie incontra il tormento psicologico), anche archetipico – il poliziotto contro il criminale – e soprattutto vitale. Girato correttamente ma non oltre, qualche cedimento strutturale alla lacrima (la famiglia di William, i palloncini colorati), diverse sequenze impagabili come il dialogo in armeria e palese virata western sulla coda, Falling Down non lo si apprezza per la perfezione ma per le indiscutibili stimmate del film ‘epocale’ in senso stretto: la metropoli che divora sé stessa, l’incubo del contemporaneo, la pazzia figliastra della normalità. L’affresco è destabilizzante perchè composto da tutte cose che ci riguardano da vicino, celebrato da attori di sovrannaturale perfezione: il monolite Douglas e l’umanissimo Duvall sono animali mitologici che si azzannano in uno scontro simbolico fuori dal tempo.

Joel Schumacher ha dato la rappresentazione più straordinaria dei desideri funesti che alligano in ognuno di noi lavoratori bloccati nel traffico delle tangenziali in un torrido caldo giorno di ordinaria follia.

Grazie Joel, ti saluto.

Riccardo Coloris

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