Il ritorno dei populisti

I tempi restano incerti. Sappiamo che fino a settembre, quando maturano le indennità parlamentari, il governo non corre rischi. Ed è improbabile che nei sei mesi successivi, quando le camere non si possono sciogliere, spunti fuori una maggioranza alternativa a quella che sorregge Draghi. Ma ormai il quadro politico è spaccato tra due poli che hanno interessi elettorali divergenti. Da una parte un campo largo moderato, che va da Forza Italia e l’ala governativa della Lega fino al Pd e ai suoi satelliti, passando per la nebulosa centrista che cerca di prender forma e quota. Dall’altra, le forze antisistema che hanno – fino alla pandemia – tenuto banco sulla scena italiana, e oggi tornano a gonfiare il vento della protesta. La leader più in tiro – e in sella – è la Meloni. Salvini è ancora incerto sul da farsi, Conte sembra aver rotto gli argini e vorrebbe recuperare i voti che avevano messo le ali al Movimento: disoccupati, emarginati e ribelli al grido di «uno vale uno».

Per il momento, non ha molto senso valutare questi due poli sulla base del «progetto politico». È fin troppo facile, con Draghi a Palazzo Chigi e la guerra ucraina ancora in corso, far pesare il senso di responsabilità nazionale che accomuna i filogovernativi. Ma, nel segreto delle urne, la vera domanda – brutalmente – è: chi vincerà? Riusciranno i partiti storici a conservare la bussola e i suffragi, o lo scontento della crisi economica finirà con l’avere il sopravvento? Se c’è una lezione del passato recente è l’estrema volatilità elettorale. L’ascesa improvvisa e imprevista di nuove leadership, e il ribaltamento di schemi che apparivano consolidati. La parabola di Conte è emblematica di questo spirito del tempo. Catapultato dal nulla sullo scranno più alto del potere esecutivo, si è conquistato una capacità di manovra – e un seguito di consensi – autonomi al punto di restare incollato alla poltrona di Presidente del Consiglio mentre cambiava radicalmente maggioranza e direzione di marcia. Chi lo accusa di opportunismo dimentica che – in tutto l’Occidente – i cambiamenti repentini di scenario impongono, piaccia o non piaccia, queste doti. Doti, peraltro, non facili da coltivare. A chi lo criticava per il fatto di andare dove soffiava il vento, un celebre giornalista rispose che non era per niente semplice.

Conte ha capito che lo spazio centrista, che ambiva a coltivare e presidiare fin tanto che era a Palazzo Chigi, è oggi affollato da altri contendenti, con le mani molto più libere. Compreso il suo competitor interno più insidioso, che da tempo pensa a formare un proprio partito, e col quale ieri è andato a uno show-down. Se vuole provare a restare al di sopra di una percentuale a doppia cifra, non gli resta che ritornare ad alzare i toni e la posta. Lo farà ininterrottamente fino alla fine della legislatura. Con uno stop and go in cui sfruttare le sue doti di manovratore. Non è escluso che gli vada male. Sia tra le fila del Movimento, più disorientate che mai, ma dove – a norma di statuto – può contare su un controllo abbastanza blindato. Sia nell’urna dove, al momento, è impossibile prevedere se il richiamo della foresta populista avrà ancora il seguito che l’avvocato professore si augura.

Ma non ci sono molte alternative. Certo, in questo modo Conte rischia di mettere a repentaglio l’alleanza già molto traballante col Pd. Ma nel nuovo scenario bipolare, questa alleanza non ha un gran futuro. E prima Letta se ne rende conto e lo accetta, meglio sarà per le strategie nei collegi. Se ci sarà un effetto Draghi sul voto, sarà nel senso di rafforzare l’Italia meritocratica e europea di cui il premier è simbolo e motore. Conte ha scelto una strada diversa. Quanto sia per necessità o per convinzione è, ormai, una discussione oziosa. L’unica domanda che conta è quanto possa portarlo lontano. Ma questo si vedrà dopo il voto. E, dopo il voto, non è da escludere che il vento possa cambiare di nuovo. E che il capo dei Cinquestelle cambi anche lui, di nuovo, direzione.

di Mauro Calise.

(“Il Mattino”, 20 giugno 2022)

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