Rodin evocatore di spiriti

La scultura è per me una delle Arti più gentilmente prepotenti, dove il corpo che nasce dal blocco di marmo o di legno è in una consanguineità più arteriosa con il corpo di chi la crea.

Un filo sottile lega sempre artista e opera, ma qui la fatica la si vede, le mani grosse che sgrezzano la durezza della pietra e del legno, la vena della mano che percorre quella della materia e s’intersecano le storie, l’antichità del tempo, la struggente armonia del mondo.

“In natura – scrive Rodin- non c’è nulla che possieda più carattere del corpo umano. Con la sua forza o con la sua grazia esso evoca le immagine più diverse. A volte assomiglia a un fiore: la flessione del busto imita lo stelo; il sorriso dei seni e del viso e lo splendore dei capelli corrispondono allo sbocciare della corolla “.  

Nella mostra Rodin e la danza al Mudec di Milano ci si può tuffare dentro le meraviglie del corpo che la scultura di Rodin sa evocare con quella maestria bene descritta da Rilke. E’  Poesia che si mostra nuda al nostro sguardo. La Poesia di un umano che osa le sue nudità alla cruda verità della vita, un umano senza più strategie da banco di mercato, un umano finalmente povero e in spirito.

Rodin sappiamo bene quale abile Maestro sia, qui le piccole sculture s’aprono come scrigni preziosi al nostro incantato sguardo, uno sguardo che  riporta al cuore anche le delicate minute terracotte di Arturo  Martini, due scultori che sanno dondolarsi tra giganti e nani, raccontando le vertigini delle vette e degli abissi.

Anche se pare non c’entrare nulla, la mostra evoca altri Spiriti oltre a quello di Martini; ecco quello mistico di Gaudì, quelle sue immaginifiche e mai finite forme che hanno dato all’architettura la stessa danza che Rodin e Martini sanno offrire alla materia, quello che Rilke offre alla Parola, quell’indicibile bellezza che l’umano non sa sostenere, lui che vorrebbe certezze qui trova solo possibilità, proprio come quei castelli che costruivamo da bambini con acqua e sabbia, effimeri come solo la Bellezza sa essere.

La mostra offre ombre e silenzi, la possibilità di ricordi, e …un altro Spirito si presenta, quello di Crepereia Tryphaena. Questo era il nome di una giovane donna vissuta nella metà del II secolo d.C., presumibilmente di circa 18 anni, il cui sarcofago fu rinvenuto durante i lavori di scavo iniziati nel 1889 per le fondazioni del Palazzo di Giustizia di Roma e per la costruzione del ponte Umberto I sul Tevere.  Il corredo funebre , presente solo nel sarcofago di Ttryphaena, appariva molto ricco di ornamenti d’oro e deposta accanto allo scheletro vi era una bambola d’avorio, inizialmente creduta di legno di quercia, di pregevole fattura e snodabile in alcune articolazioni.

Corpo anche questo danzante, sempre antico e sempre contemporaneo, manufatti che l’anima ispira a chi sa prestare orecchio a quel vento tiepido che porta memorie, che porta leggere visioni, persistenti voci evocate dalla passione, dall’amore per il bello che non ci dà pace, che chiama sempre a un umano migliore.

Tra i gioielli di Tryphaena fu ritrovato al dito della giovanetta un anello con inciso la parola “Filetus” che fece immaginare a Giovanni Pascoli che fosse il nome del suo promesso sposo mancato poichè la presenza della bambola nel corredo funebre faceva pensare che fosse morta alla vigilia delle nozze non avendo fatto in tempo a donare i suoi giocattoli agli dei per la cerimonia di “addio all’infanzia “.

Scrisse Pascoli:  “Ti nascondevi / o fanciulla / nell’acqua trasparente / e sull’onda nuotavano i tuoi capelli di felce/

                              Avevi concesso alla notte oscura il privilegio di scioglierli /

Sono le mani del Destino che modellano le vite, sono le mani degli uomini che modellano il Destino.

E si sa che gli Artisti la sanno sempre un po’ più lunga.

di Patrizia Gioia

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