Rudi Dutschke e la Primavera di Praga

     – 1. Circa cinquanta anni fa, l’11 aprile 1968, avveniva a Berlino l’attentato contro Rudi Dutschke, allora leader del SDS (Sozialistischer Deutscher Studentenbund[1]), da parte di un estremista di destra. Dutschke riportò gravi ferite, riuscì comunque a ristabilirsi e a continuare la sua attività politica per un decennio, fino a quando, nel 1979, morì per cause dovute indirettamente ai postumi dell’attentato. Dutschke proveniva dalla Germania Orientale (DDR), dove era nato nel 1940. In gioventù aveva aderito all’organizzazione giovanile della Chiesa Evangelica e, poiché si era rifiutato di fare il servizio militare, le autorità della DDR gli avevano proibito di frequentare l’università. Dutschke fu così indotto a trasferirsi a Ovest nell’agosto del 1961, proprio pochi giorni prima della costruzione del muro e della chiusura definitiva di qualsiasi possibilità di passaggio da Est a Ovest.

     – 2. Per questa sua drammatica biografia, tutta giocata a ridosso del muro di Berlino e della cortina di ferro, nel cuore più caldo della Europa della Guerra fredda, la figura di Dutschke è quanto mai utile per intendere il significato del Sessantotto come fenomeno transnazionale. Dutschke del resto fu uno dei pochi a comprendere alla perfezione come il Sessantotto fosse una forma di resistenza (lui forse avrebbe detto di rivoluzione) volta a contrastare e superare i due blocchi in cui all’epoca era diviso il mondo. Non a caso il movimento studentesco tedesco ebbe una spiccata vocazione internazionalista e terzomondista. A causa dell’attentato, Dutschke si ritrovò in ospedale durante il Maggio francese e quindi poté viverlo solo per esperienza indiretta. Egli era stato tuttavia testimone della Primavera di Praga. Appena prima dell’attentato, infatti, aveva passato una settimana a Praga per conoscere meglio l’esperimento riformista che si stava conducendo in Cecoslovacchia (l’intervento sovietico avverrà poco più tardi, il 21 agosto). Oggi da molti[2] viene fatto osservare come egli sia stato uno dei pochi, in Occidente, a comprendere l’importanza di quanto stava avvenendo oltre cortina. Oggi c’è chi giustamente ritiene che il Sessantotto dell’Est sia stato addirittura più rilevante di quello dell’Ovest, e che comunque la loro interpretazione debba procedere di pari passo, in termini unitari.

     – 3. Appena prima del viaggio a Praga, Dutschke aveva rilasciato un’intervista a Nadine Lange, della rivista Konkret, proprio sui temi del confronto tra Est e Ovest in merito alla resistenza nei confronti dei due blocchi.[3] È l’ultima intervista rilasciata da Dutschke prima dell’attentato. L’intervista, seppur succinta, è estremamente interessante, soprattutto se riletta oggi alla luce delle nuove tendenze interpretative circa il Sessantotto transnazionale. Nelle parole di Dutschke si coglie con estrema chiarezza la piena consapevolezza dell’impegno globale del Sessantotto contro quello che era, secondo lui, il sistema dei due blocchi della Guerra fredda, costituito da un lato dall’autoritarismo capitalistico e, dall’altro, da quello che egli chiama il sistema autoritario – socialista. Va aggiunto, per la precisione, che Dutschke, in coerenza con quanto si conosceva all’epoca, escludeva dalla sua critica i casi di Cuba e della Cina maoista (assieme ai diversi altri movimenti del Terzo mondo) poiché sembravano estranei alla politica dei blocchi e sembravano essere propugnatori di un socialismo dal volto umano.

     In questo articolo cercheremo di rileggere l’intervista di Dutschke alla luce delle domande interpretative che ancora oggi – a cinquant’anni di distanza – ci poniamo intorno al Sessantotto. Dunque, non tanto un Dutschke da commemorare, ma un Dutschke ancora capace di essere un valido interlocutore e di rispondere indirettamente alle domande che solo oggi, finalmente, riusciamo a porre a noi stessi.

     – 4. La prima domanda dell’intervista propone con estrema chiarezza il tema dei rapporti tra i movimenti collocati a Est e a Ovest: «È evidente, signor Dutschke, che esiste un parallelismo, sia pure temporaneo, tra le lotte antiautoritarie degli studenti a Berlino Ovest e nella Germania Occidentale e il movimento antidogmatico (che si batte anch’esso per la democrazia) degli studenti della Repubblica Socialista Cecoslovacca e della Polonia. Può dirci qualcosa,…».[4] E così via di seguito. Dutschke, nelle sue risposte, al di là dei dettagli, separa concettualmente una «rivoluzione di base» relativa alla statizzazione dei mezzi di produzione, già avvenuta a Est, da una «rivoluzione della coscienza» che sarebbe invece stata in corso a Ovest. Secondo i classici del marxismo, ovviamente le due rivoluzioni avrebbero dovuto essere simultanee e avrebbero dovuto condurre alla formazione dell’uomo nuovo[5] e alla nuova società comunista. L’accidentalità storica aveva invece prodotto una paradossale situazione di due blocchi contrapposti dove si stavano consumando due mezze rivoluzioni, due rivoluzioni incompiute: la rivoluzione di base senza la rivoluzione della coscienza, da una parte; la rivoluzione della coscienza senza una rivoluzione di base, dall’altra. Lo schema è piuttosto elementare ma perfettamente adeguato a interpretare la situazione storica dell’epoca, soprattutto se ci si colloca geograficamente e strategicamente in quel di Berlino nel 1968.

     – 5. Dutschke spiega con chiarezza che a Est: «Attraverso la statizzazione dei mezzi di produzione ha avuto luogo una “rivoluzione di base”. Ma a questa “rivoluzione di base” non ha corrisposto una rivoluzione della coscienza». In tal modo: «[…] si è venuta creando, nei paesi del campo socialista, […] una struttura globale autoritario – socialista. Questa struttura autoritaria non è più determinata dal rapporto capitalistico […] e può pertanto essere forzata dal basso attraverso un’autonomia creativa delle masse».[6] Dunque, a Est ci sarebbe lo spazio oggettivo per completare la rivoluzione economica di base, già avvenuta, con una rivoluzione della coscienza, cioè con una lotta antiautoritaria condotta dal basso. È qui il caso di notare che l’antiautoritarismo cui allude Dutschke va ben oltre la questione dei rapporti tra giovani e adulti o la questione della selezione nei sistemi scolastici occidentali: l’antiautoritarismo, in questo contesto teorico, diventava la chiave per un completamento effettivo della rivoluzione a Est. L’antiautoritarismo, in altri termini, era consapevolmente concepito come il correttivo indispensabile del socialismo reale. Scriverà cose assai simili Gorbaciov, vent’anni dopo, ma sarà allora troppo tardi.

     – 6. Dutschke così prosegue: «La statizzazione è naturalmente una condizione preliminare per la costruzione di una nuova società socialista, ma non è questa società. Si può rivalutare sul piano concreto la teoria socialista solo trasformando la statizzazione in una socializzazione sorretta dalle masse vale a dire: la “rivoluzione di base” dev’essere completata da una fase transitoria di rivoluzione culturale in cui venga posta in primo piano la democratizzazione dal basso. Forse la Repubblica Socialista Cecoslovacca è giunta a questo punto. Nel tardo capitalismo, invece, noi dobbiamo ancora attuare una “rivoluzione di base” che spezzi il rapporto capitalistico. Contrariamente alla teoria marxista tradizionale sulla rivoluzione, da noi si verifica prima la “rivoluzione sovrastrutturale”».[7]

     A Ovest, dunque, si era aperto uno spazio per una rivoluzione della coscienza, una rivoluzione sovrastrutturale nei termini marxiani, anche se restava da compiere la rivoluzione strutturale, di base. A Est invece, dopo avere compiuto il primo passo, si trattava ora di realizzare una vera rivoluzione della coscienza, una rivoluzione culturale, una democratizzazione dal basso attraverso la lotta antiautoritaria[8] (che non poteva che coinvolgere l’intera burocrazia socialista e l’intero sistema della Guerra fredda). Su questo punto Dutschke chiarisce ulteriormente quella che avrebbe potuto essere una prospettiva di unificazione delle lotte tra Est e Ovest: «Sarebbe d’importanza decisiva discutere, in dibattiti e conferenze comuni, i procedimenti delle lotte antiautoritarie nei nostri paesi e di quelle antidogmatiche nel campo socialista. Una strategia rivoluzionario – democratica dovrebbe avere per meta comune il raggiungimento dal basso di una reale democrazia socialista, ponendola al centro, organizzativamente e politicamente, in tutti i paesi».[9] Col senno di poi, questa avrebbe potuto essere una strategia credibile per un’uscita consapevole dalla Guerra fredda da parte di entrambi i blocchi, in concomitanza con le trasformazioni che avvenivano nel Terzo Mondo. Una strategia che avrebbe promosso una trasformazione interna di entrambi i blocchi, invece della sopravvivenza di uno dei due ai danni dell’altro, come poi, in effetti, è avvenuto.

     – 7. Il tutto avrebbe dovuto comportare anche e soprattutto un rinnovamento della democrazia stessa. Dutschke chiarisce meglio quel che intendeva con rivoluzione culturale e con democrazia dal basso: «Democrazia non significa possibilità formale di un cittadino di esprimere tutti gli anni, oppure ogni quattro, il suo consenso (senza alternative) ai partiti costituiti. La democrazia si regge sulla facoltà cosciente degli individui che vivono nella società di poter permanentemente controllare la società stessa. Il presupposto della democrazia è quindi l’uomo cosciente, creativo, un uomo con bisogni e interessi radicali nuovi, con una struttura caratteriale antiautoritaria, con la facoltà permanente di considerare la società come fatta da lui e che sta in lui dominare».[10]

     La democrazia dal basso implicava dunque, per Dutschke, un salto antropologico, un cambiamento radicale della natura umana. La statalizzazione degli strumenti di produzione (come quella avvenuta a Est) non aveva alcun senso se non era accompagnata da un modello di uomo nuovo. Ciò che stava rovinando il socialismo a Est dunque non era, in sé, l’abolizione della proprietà privata ma la permanenza dell’uomo vecchio. Gorbaciov, che vent’anni dopo approderà a idee analoghe, nel suo breve tentativo di riformare il sistema sovietico sollecitando le energie della partecipazione dal basso, cercava proprio di mettere da parte il vecchio uomo sovietico per far posto all’uomo nuovo della glasnost e della perestrojka. Purtroppo non ebbe alcuna risposta da parte dell’uomo nuovo. Gorbaciov, insomma, era ormai un sessantottino fuori stagione e in terribile ritardo.

     Dutschke esprime nella sua intervista l’idea di una democrazia sostanziale la cui sostanzialità tuttavia non è tanto costituita dalla eguaglianza economica quanto dallo esercizio cosciente della democrazia dal basso da parte dell’uomo nuovo: «[…] socialismo autoritario e democrazia si escludono. La democrazia dal basso è concepibile unicamente come democrazia di produttori, come democrazia delle diverse frazioni del popolo nelle diverse sfere della società. Si tratta di creare una cosciente autonomia democratica dal basso, che possa permanentemente controllare gli organi di direzione temporanei e, se necessario, abolirli».[11] Si tratta di una democrazia che ricalca dunque la tradizione della democrazia diretta. Si tratta, peraltro, di un dibattito mai passato di moda, visto il rilievo, ad esempio, che oggi in Italia il M5S sta dando proprio alla democrazia diretta (altrimenti direttismo).

     Dutschke, per superare i due blocchi, diversamente ma comunemente autoritari, invoca dunque un ripensamento radicale della nozione stessa della democrazia, in direzione di un marcato direttismo. Naturalmente Dutschke ha ben presente la storia del movimento operaio: «Nella tradizione socialista – rivoluzionaria questo modello di democrazia diretta è stato inteso come democrazia dei Consigli. Essa non può essere garantita né formalmente né attraverso meccanismi organizzati. Può formarsi unicamente nel conflitto costante con tendenze autoritario – dogmatiche ed è subordinata alla presa di coscienza e alla consapevolezza delle masse. I temporanei rappresentanti delle aziende, delle scuole, delle fabbriche e delle amministrazioni dovrebbero essere assoggettati, mediante mandati imperativi, al costante controllo dal basso».[12] Ritornano qui addirittura i motivi, tipici del direttismo storico, fin dalla Comune, del mandato imperativo e della revoca dei delegati in qualsiasi momento. Sono peraltro anche questi motivi che sono recentemente ricomparsi anche nel nostro recente dibattito politico.

     La posizione di Dutschke non può dunque assolutamente essere catalogata come posizione anti democratica. Se ce ne fosse stato ancor bisogno, chiarifica ulteriormente a proposito di democrazia e pluralismo: «Noi socialisti non vogliamo abolire la democrazia bensì svilupparla al massimo; questo significa, però, che devono essere ammesse diverse interpretazioni socialiste della realtà per rendere in tal modo possibile in generale lo sviluppo creativo della democrazia. Naturalmente in una concezione della democrazia socialista non dev’esservi alcuna libertà per la controrivoluzione. Ma non dev’essere nemmeno affidato a dei burocrati, separati dalle masse, il compito di decidere che cosa sia controrivoluzionario».[13] Anche Popper avrebbe potuto concordare: non si possono trattare democraticamente gli anti democratici.

     – 8. Il discorso di Dutschke – se attentamente esaminato nelle sue implicazioni politico filosofiche – ruotava allora integralmente intorno alla possibilità effettiva della costruzione, in un processo di cambiamento rivoluzionario, dell’uomo nuovo. Si potrebbe certo asserire che questo sia un classico dell’ideologia e della retorica marxista. Tuttavia in Dutschke troviamo alcuni notevoli spunti di novità. Ogni modello di umanità, oltre alla sua descrizione morale, ha necessariamente una descrizione di tipo psicosociologico. Il modello descrittivo adottato da Dutschke era ovviamente quello che proveniva dai lavori della scuola di Francoforte. In particolare egli si riferiva alle teorie di Eric Fromm e alle ricerche sulla personalità autoritaria condotte da Adorno e dai suoi collaboratori mentre si trovavano in America.[14] Su questo punto occorre tuttavia segnalare una differenza. Mentre Adorno, Horkheimer e Marcuse avevano tratto una serie di conclusioni assai pessimistiche circa la possibilità della costruzione di un uomo nuovo che potesse andare oltre l’uomo unidimensionale – era la loro una filosofia della storia pessimistica, come quella esposta nella Dialettica dell’illuminismo – Dutschke ne ricavava invece una prospettiva ottimistica. Era per lui evidente che alle radici di tutti gli autoritarismi, sia a Est sia a Ovest, si trovava la medesima sindrome autoritaria fascista e quindi anti democratica. La sindrome autoritaria poteva e doveva essere superata poiché ciò era considerato come una specie di bisogno primario dell’uomo stesso. La lotta antifascista dunque non era finita, anzi era appena all’inizio, poiché si trattava di realizzare un grandioso progetto di rivoluzione delle coscienze per rimettere le cose a posto, per rimettere l’uomo in un compiuto accordo con se stesso.

     Secondo Dutschke in Occidente: «[…] la forma odierna di fascismo è molto più generale della forma tradizionale di fascismo. […] La nuova forma di fascismo non è più reperibile in un partito o in una persona; è presente piuttosto in tutte le istituzioni del tardo capitalismo. In queste istituzioni, dalla fabbrica all’Università, dalla scuola alla chiesa, giorno per giorno gli uomini vengono formati autoritariamente. […] Sorgono così personalità autoritario – nevrotiche che non si riconoscono nella società, che hanno paura, che perciò diventano manipolabili e che tendono facilmente a scaricare la loro aggressività su minoranze. In questo modo la lotta antiautoritaria è, direttamente, una lotta antifascista».[15] Non ci interessa – in questo frangente – quanto fossero fondate le teorie francofortesi sull’autoritarismo e sul fascismo. Quel che è interessante è che Dutschke fosse perfettamente consapevole della necessità di integrare la sua teoria della rivoluzione, di derivazione rossa, legata comunque alla storia del movimento operaio, con una teoria della personalità che avrebbe dovuto addirittura gettare le fondamenta della costruzione di un nuovo modello di umanità, valido a Est e a Ovest. A onor del vero, in proposito, va per lo meno segnalato al lettore il fatto paradossale che Habermas, allora giovane esponente della Scuola di Francoforte, poco tempo prima, in netto dissenso con il movimento, aveva accusato gli studenti dell’SDS di fascismo di sinistra. Per brevità, non entriamo qui nel merito di questa controversia.[16]

     – 9. Nella visione di Dutschke – questo è uno degli aspetti che assolutamente all’epoca non era stato capito – l’avanguardia di questo processo di costruzione dell’uomo nuovo poteva nascere e svilupparsi più facilmente a Est che a Ovest: «Quanto più rapidamente si svilupperà la democrazia rivoluzionario – socialista nei paesi del campo socialista, quanto più rapidamente sarà eliminata l’estraniazione tra partito e masse, tanto maggiori saranno nell’Europa occidentale le probabilità di imporre l’idea della liberazione sociale dal capitale, dalla guerra e dallo sfruttamento».[17] Addirittura si prospettava dunque – secondo Dutschke – la possibilità che l’uomo nuovo si formasse prima a Est, attraverso una sorta di riappropriazione politica da parte delle masse divenute coscienti. Questo perché a Est la “rivoluzione di base” c’era già stata. La possibilità concreta era quindi che la rivoluzione nell’Ovest potesse essere in un certo senso trainata e guidata dalla rivoluzione delle coscienze nell’Est. Questo era, evidentemente, il motivo per cui nella primavera del 1968 Dutschke aveva sentito il bisogno di andare a Praga.

     – 10. Dunque, per Dutschke quello che stava avvenendo nel 1968 a Est era molto più interessante e importante di quello che stava avvenendo a Ovest. In altri termini, col senno di poi, la Primavera era decisamente più importante del Maggio. Nell’aprile del 1978 Jacques Rupnik propose a Dutschke – poco prima della sua definitiva scomparsa – un’intervista per una trasmissione televisiva, in occasione del decimo anniversario del Maggio 1968 in Francia. Pare che Dutschke gli abbia in primis risposto: «Non ho granché da dire sul Maggio francese, prima di tutto perché mi trovavo in ospedale, ma soprattutto perché, retrospettivamente, l’avvenimento importante del Sessantotto in Europa non fu Parigi, bensì Praga. Allora però non fummo capaci di vederlo».[18] La breve e interessante intervista che segue quest’affermazione si trova in Rupnik 2018. Per un raffronto puntuale tra il Maggio 1968 e la Primavera di Praga si veda anche l’interessantissimo saggio di Rupnik (in Rupnik 2008). Tutte queste problematiche concernenti il rapporto tra i due Sessantotto di Est e Ovest sono state recentemente riprese – per la prima volta in Italia – nel volume collettaneo di Crainz & Al. 2018. Secondo questa prospettiva, di fronte al più strombazzato Sessantotto dell’Ovest, il Sessantotto dell’Est sarebbe stato in un certo senso kidnapped,[19] cioè sequestrato dalle forze del Patto di Varsavia. Forse, tuttavia, non solo sequestrato dalle forze preponderanti dell’Est, ma anche perfettamente ed elegantemente rimosso dalle coscienze dei sessantottini dell’Ovest e dei partiti di sinistra dell’epoca.

     – 11. Sappiamo ora, col senno di poi, com’è andata a finire. La speranza che a Est, in concomitanza con una sostanziale democratizzazione dei regimi del socialismo reale, si sviluppasse una rivoluzione delle coscienze e si generasse l’uomo nuovo si è vanificata progressivamente nel corso dell’era Brežnev (quella che dalle nostre parti è stata invece conosciuta e vissuta come epoca del riflusso). In altri termini, l’avvenuta «rivoluzione di base» di tipo economico nell’Est non è stata in grado di produrre nulla in termini di rivoluzione culturale e di democratizzazione. Dopo la rivoluzione del 1989-1994 è anzi apparso chiaro come la rivoluzione di base (proprio quella derivata dall’Ottobre 1917) avesse contribuito a produrre, a lungo andare, una mostruosa devastazione delle coscienze. Dopo il 1989, i Paesi ex socialisti, in un breve volgere di anni, hanno visto – oltre al prevedibile ritorno generalizzato e spesso indiscriminato del mercato – l’esatto rovescio dello sviluppo di un’autentica democrazia politica: la proliferazione dei nazionalismi a sfondo etnico, lo sviluppo di sistemi democratici autoritari e la delega del potere alle oligarchie, talvolta anche l’emergere di vere e proprie oligarchie criminali. Anche i paesi che all’epoca di Dutschke potevano sembrare più promettenti nei termini di una rivoluzione democratica dal basso, come Cuba e la Cina, hanno seguito la medesima tragica traiettoria, seppure con qualche specifica differenza. Stanno comunque a dimostrarlo, come un timbro indelebile, i carri armati di Tienanmen, proprio nel 1989. Insomma, nell’Est Europa, la sconfitta del Sessantotto ha significato la fine di ogni seppur piccola possibilità di salvare qualcosa dell’Ottobre 1917. Come ha detto Rupnik: «Ce qui reste de l’échec de 1968 à Prague, c’est «la mort clinique du marxisme en Europe» (Kolakowski) et la perestroïka de Gorbatchev, arrivée vingt ans trop tard».[20] Detto in altri termini, il Sessantotto ha rappresentato davvero l’ultima espressione dell’ipotesi che a Est non fosse proprio tutto da buttare e che qualcosa di quell’esperimento, attraverso un cambiamento radicale dal basso, poteva forse ancora essere salvato e riproposto al resto del mondo. È stato il fallimento del 1968 nell’Est a predisporre l’implosione del 1989.

     – 12. Se tuttavia guardiamo al decorso post Guerra fredda che è avvenuto in Occidente, non c’è ugualmente da stare molto allegri. Che ne è stato del Maggio parigino, della rivoluzione delle coscienze e dell’uomo nuovo occidentale? Che ne è stato della lotta anti autoritaria e della nostra «rivoluzione sovrastrutturale»? Questo è il punto centrale, per rispondere adeguatamente alla questione «Quel che resta del ‘68» che sembra oggi andare di moda dalle nostre parti.[21] Quella che doveva essere, negli intendimenti di Dutschke e delle culture politiche del Sessantotto, una rivoluzione delle coscienze, che doveva resistere alla Guerra fredda e dare origine all’uomo nuovo, si è progressivamente smorzata e rattrappita. Si è ridotta alla maschera di se stessa. Si è al più realizzata surrettiziamente nei termini di una qualche trasformazione dei costumi che certamente ha promosso un miglior benessere e una maggiore libertà individuale. Le positive trasformazioni del costume indotte in Occidente dal Sessantotto sono ormai un classico assai frequentato, per cui ci asteniamo dal riprenderle qui una per una. Tuttavia la rivoluzione delle coscienze nel suo significato più proprio, quello esattamente inteso da Dutschke, è sostanzialmente fallita anche in Occidente, soprattutto perché non ha dato luogo a un miglioramento delle nostre democrazie, anzi. Oggi sembra poter dire che stiamo assistendo a un’involuzione, a un netto peggioramento, nonostante le rosee speranze di Fukuyama. Oggi, per di più, assistiamo alla diffusione di una squallida vulgata secondo la quale il peggioramento delle nostre democrazie sarebbe proprio un effetto del Sessantotto e non un effetto dalla sua sconfitta.[22]

     – 13. Il fallimento più rilevante che qui ci interessa evidenziare è avvenuto nel campo della partecipazione politica. All’individuo pubblico del Sessantotto, che realizzava se stesso nell’impegno pubblico, si è progressivamente sostituito l’individuo privato che si esibisce in pubblico, dei giorni nostri. Si tratta di un individuo – nonostante tutti i bagordi derivanti dalla liberazione del desiderio – dotato di un self assai povero, proprio perché deprivato della dimensione della vita pubblica. Deprivato cioè dall’esercizio di una matura condizione civica. Tanto deprivato da non riuscire neanche a capire come la propria condizione possa costituire una deprivazione. Per una vivace descrizione di questa abietta condizione, definibile in modo del tutto appropriato come la libertà dei servi, si veda Viroli 2010.

     Il modello di individualità (il carattere sociale avrebbe detto Fromm) post Guerra fredda, che sta oggi prevalendo ovunque, a Est e a Ovest, purtroppo non rappresenta effettivamente alcuna autentica realizzazione liberatoria. Lo si potrebbe anzi decisamente inquadrare all’interno di una qualche patologia della personalità, esattamente come avevano fatto Adorno e collaboratori, alla loro epoca, con la loro teoria della personalità autoritaria. Il quadro oggi è poi ovviamente aggravato e amplificato dal sopravvenire delle nuove tecnologie, della rete e dei social media. Da tempo si susseguono sempre più preoccupate grida di allarme circa il deterioramento progressivo della materia prima delle nostre democrazie. La democrazia ha cessato completamente di essere un progetto da realizzare e ha finito per diventare una quotidiana minestra riscaldata. L’uomo vecchio a quanto pare continua a tener banco e ad accumulare proseliti, anche e soprattutto dopo la fine del comunismo. Così abbiamo assistito impotenti un po’ ovunque, sia nei Paesi occidentali di più antica origine sia nei Paesi ex comunisti – più o meno a partire dall’inizio degli anni Novanta – a una regressione della democrazia nella direzione del populismo.[23] Si tratta di un fenomeno che, pur avendo avuto ormai diverse declinazioni, è assai generale, dagli USA alla Gran Bretagna, dall’Ungheria fino all’Italia. Anzi, l’Italia ha fatto da capofila, esibendo in maniera pionieristica i nuovi modelli di umanità di Bossi e Berlusconi. Si tratta anch’esso di un fenomeno transnazionale dunque, da riconoscere senz’altro indirettamente come un effetto del fallimento del Sessantotto – sia di quello a Est che di quello a Ovest. Effetto soprattutto del modo distorto attraverso cui siamo usciti dalla Guerra fredda. Effetto – a costo di rischiare un tormentone ripetitivo – di una mancata rivoluzione delle coscienze e di una mancata rivoluzione democratica.

     Sul piano metodologico, sono ben consapevole che le teorie interpretative che fanno riferimento alle mancate rivoluzioni – pur avendo avuto assai illustri cultori – dal punto di vista esplicativo siano piuttosto deboli. Il fatto è tuttavia che per spiegare i problemi del mondo odierno siamo costantemente indotti a far riferimento alle nostre carenze, cioè più a quel che ci manca che a quel che abbiamo. Se non altro, durante la Guerra fredda c’erano due mondi in competizione e, intorno alla c0mpetizione, c’era una qualche mobilitazione. Oggi c’è soltanto un piagnisteo generalizzato sulle nostre carenze e inadeguatezze.

     – 14. Dunque, siamo usciti dalla Guerra fredda, ci siamo liberati dal comunismo, siamo entrati nella fine della storia, secondo la profezia di Fukuyama. Tuttavia siamo sempre più carenti e inadeguati e viviamo in un mondo sempre più precario. Ci manca sempre qualcosa, anche se non sappiamo mai bene che cosa. In realtà quel che ci manca, sotto il profilo più generale, è ancora e sempre – per dirla in sintesi – la rivoluzione delle coscienze, l’uomo nuovo. Non c’è più spazio per dare la colpa agli altri. La colpa è solo e soltanto nostra. Nella visione di Dutschke – come del resto nella visione culturale di tutto il variegato Sessantotto di Est e di Ovest – c’era un ottimismo antropologico di fondo che oggi abbiamo completamente perduto. Nel Sessantotto, nel bene o nel male, si erano mobilitati gli sforzi generosi di milioni e milioni di persone per cambiare il mondo. Oggi invece c’è nell’aria un rassegnato pessimismo diffuso che perviene alla nostra coscienza solo se ci confrontiamo con un pensiero scandalosamente umanistico e ottimista, proprio come quello di Dutschke. Vale la pena di ricordare, tanto per capire i pericoli che stiamo correndo, che il pessimismo antropologico – nei termini della pur controversa teoria della personalità autoritaria – è uno dei tratti della personalità fascista. Il fascista in termini di personalità diffida nei confronti dei diversi. Invoca l’autorità perché parte dal presupposto che l’uomo non è in grado di badare a se stesso. Lo stesso individuo autoritario non è un grado di badare a se stesso, per cui cerca costantemente un’appartenenza solida che lo rassicuri. A spanne, queste sono esattamente le dinamiche del populismo che sono oggi quotidianamente sotto i nostri occhi. Che si sono diffuse a Est e a Ovest esattamente come un fenomeno transnazionale.

     – 15. Il modo specifico con cui siamo usciti dalla Guerra fredda – cioè, non in seguito a una resistenza vittoriosa ma in seguito alla pesante sconfitta dei progetti umanistici che erano allora sul mercato – ha diffuso in tutto il mondo la netta impressione, spesso non del tutto consapevole, della impossibilità di una rivoluzione delle coscienze. Ha seminato ovunque una vera e propria antropologia negativa, una prospettiva fatalista e misantropica. L’Occidente ha vinto sul comunismo ma ha perso la scommessa sull’uomo. O forse l’ha data in cambio. Si tratta di una sorta di regressione hobbesiana che ha senz’altro fatto più danni, nell’ambito delle coscienze, del neoliberismo o del finanzcapitalismo messi insieme. Invece del motto paradossale del Maggio «Siate realisti, domandate l’impossibile» abbiamo silentemente adottato il motto «Siate realisti, siete esattamente quello che siete, rimarrete sempre così e non diventerete mai nulla di diverso. Continuate così!». L’uomo post Guerra fredda in altri termini ha appreso a considerare se stesso come un ente che non è in alcun modo riformabile o educabile. Chi cercasse inopinatamente di riformarlo, potrebbe essere seriamente sospettato di autoritarismo. Al più si possono porre dei limiti alle manifestazioni più deteriori e pericolose ma, per il resto, ognuno non ha che da continuare a ripetere se stesso, senza speranza.

     – 16. Il Sessantotto pensava – proprio come Rudi Dutschke – che l’uomo fosse educabile e migliorabile, che la massima espressione dell’uomo fosse quella politica e che questa espressione si manifestasse nella sfera pubblica. Così credevano gli antichi filosofi della politica, così i padri della democrazia, così credeva Don Milani. Il Sessantotto ha sempre predicato l’impegno e non l’anarchia. La teoria della liberazione intesa come distruzione vandalica di tutte le regole, se mai c’è stata, è stata una componente assolutamente minoritaria, che è venuta in primo piano soltanto dopo la sconfitta del Sessantotto. La “liberazione” vandalica, cioè lo scatenamento dell’individualismo esasperato, appartiene piuttosto alla fine della storia, al mondo della post Guerra fredda, più che al mondo del Sessantotto. Nel nostro Paese – ad esempio – è stato un atteggiamento ampiamente diffuso e sperimentato dalle masse a partire da quando un genio nostrano ha pensato di costruire una casa delle libertà, ottenendo grandi consensi. Pare però che i vizi privati cui è stata data la stura dopo la fine della Guerra fredda non si siano trasformati affatto in pubbliche virtù, anzi la sfera del pubblico, priva di ogni seria cura e manutenzione, ha finito per allinearsi sempre più alla sfera del privato. Le campagne elettorali oggi rincorrono sempre più con ogni evidenza i vizi privati degli elettori sovrani. Ma c’è l’inevitabile risvolto psicopatologico. L’appiattimento sul presente e sul privato, determinato dalla sconfitta dei progetti umanistici, ha così portato con sé l’avvento di quella che è stata definita l’epoca delle passioni tristi,[24] cioè di una società e di una cultura sempre più deteriori, di individualità sempre più fragili, volubili e indifferenti a tutto. Caratteri che si addicono peraltro all’epoca della postverità.

     – 17. Questo del resto era il senso profondo della fine delle grandi narrazioni di cui avevano parlato i postmoderni, i quali sono stati i veri profeti della rassegnazione anti umanistica post Guerra fredda, i grandi celebratori ed esaltatori dell’individuo anomico. La fine delle grandi narrazioni si riferisce indubbiamente alle ideologie che hanno fatto la storia della modernità, si riferisce dunque, apparentemente, agli aspetti esteriori del mondo storico. In realtà, poiché la modernità è stata fondamentalmente una scommessa sull’umano, la fine delle grandi narrazioni rappresenta anche e soprattutto la fine di qualsiasi possibile scommessa sull’umano. Forse è per questo motivo che Nietzsche e Heidegger sono diventati così tanto di moda. Se non possiamo più scommettere sull’umano – se a farlo è rimasto solo il Papa, per altro poco ascoltato e poco seguito dai suoi stessi credenti – non possiamo fare altro che coltivare la nostra corazza caratteriale e diventare sempre più cinici e particolaristi e imboccare la strada del pessimismo antropologico – comunque lo vogliamo definire – e accettarne tutte le conseguenze fino in fondo. Insomma, non possiamo fare altro che diventare massa populista buona per tutti gli usi.

     – 18. Qualcuno dice che la diffusione del populismo stia avvenendo per causa dell’insicurezza e della paura. Qualcuno dà la colpa alla globalizzazione o ai burocrati di Bruxelles. Qualcuno incolpa l’immigrazione o il terrorismo. Oppure la mancanza di lavoro. Magari anche le disuguaglianze che stanno aumentando a dismisura. Sono senz’altro, tutti questi, elementi veri e documentati.[25] A questa serie di concause si sovrappone tuttavia ormai ovunque il fenomeno del pessimismo antropologico. Di fronte a tutti i pur gravi problemi della nostra epoca abbiamo già perso la partita fondamentale. Perché non crediamo più nella possibilità di migliorare noi stessi e tutti quelli che ci stanno intorno. Non crediamo più nella rivoluzione delle coscienze. Non crediamo più in alcun modello di uomo nuovo. Abbiamo anzi – come forma estrema di miope saggezza – rinunciato del tutto a cercarne uno. Questo, oltretutto, è il motivo fondamentale per cui, oggi, il tedesco orientale Rudi Dutschke ci sembra un marziano. E, sempre per questo, avviene oggi con ogni evidenza che dei cinquant’anni del Sessantotto non importi proprio niente a nessuno.

30/04/2018

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OPERE CITATE

1968 AA. VV., – Dutschke a Praga, De Donato, Bari.

1950 Adorno, T. W. & Frenkel-Brunswik, Else & Levinson, Daniel. J. & Al. – The Autoritarian Personality, Harper. Tr. it.: La personalità autoritaria (2 voll.), Edizioni di Comunità, Milano, 1973.

2003 Benasayag, Miguel & Schmit, Gérard – Les passions tristes. Souffrance psychique et crise sociale, Éditions La Découverte, Paris. Tr. it.: L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2004.

1968 Dutschke, Rudi – Rudi Dutschke in Prag. Liberalisierung oder Demokratisierung?, in Konkret, n. 5 maggio 1968. Tr. it.: Dutschke a Praga, in AA. VV., (a cura di), Dutschke a Praga, De Donato, Bari, 1968. [Intervista di Nadine Lange]

2017 Ricolfi, Luca – Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi, Longanesi, Milano.

2008 Rupnik, Jacques – Les deux Printemps de 1968, in Études, n.5 – 2008, pp. 585-592.

2018 Rupnik, Jacques – Il malinteso del 1968. Rudi Dutschke in conversazione con Jacques Rupnik, in Micromega, 1/ 2018, pp. 139-142.

2010 Viroli, Maurizio – La libertà dei servi, Laterza, Bari.

 

NOTE

[1] Era in origine l’organizzazione giovanile della SPD. Furono espulsi dalla SPD nel 1961 poiché non avevano accettato la svolta riformista di Bad Godesberg del 1959. Dal 2007 la SDS è conosciuta come Die Linke SDS.

[2] Cfr. Crainz 2018 e Boato 2018.

[3] L’intervista è contenuta in AA. VV. 1968.

[4] Cfr. Dutschke 1968: 97-98.

[5] Userò necessariamente questo termine in tutto il resto dell’articolo, sperando di non incorrere nell’accusa di mancanza di correttezza politica.

[6] Cfr. Dutschke 1968: 98.

[7] Cfr. Dutschke 1968: 98-99.

[8] Siamo qui ben distanti dalla concezione dell’antiautoritarismo del Sessantotto inteso come una sorte di vandalismo contro tutto e tutti. Una simile inaccettabile riduzione si trova, ad esempio, in Pombeni 2018.

[9] Cfr. Dutschke 1968: 100-101.

[10] Cfr. Dutschke 1968: 101.

[11] Cfr. Dutschke 1968: 101-102.

[12] Cfr. Dutschke 1968: 102.

[13] Cfr. Dutschke 1968: 103-104.

[14] Cfr. Adorno et Al. 1950.

[15] Cfr. Dutschke 1968: 107-108.

[16] Nello stesso volume (AA. VV. 1968) si trova un articolo con la risposta di Dutschke ad Habermas.

[17] Cfr. Dutschke 1968: 110-111.

[18] Cfr. Rupnik 2018.

[19] Pare che il termine risalga a Milan Kundera.

[20] Cfr. Rupnik 2008: 591.

[21] Alludo qui all’assai discutibile Pombeni 2018.

[22] Su questa linea, il già segnalato Pombeni 2018.

[23] Rinvio in proposito al mio saggio I soggetti del populismo, pubblicato sul mio blog Finestrerotte.

[24] Rubo ovviamente il concetto a Benasayag & Schmit 2003.

[25] Una meditata e documentata rassegna di queste questioni e un’approfondita discussione delle stesse si trova in Ricolfi 2017.

 

 

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