“…Pangloss insegnava la metafisico-teologo-cosmoscemologia. Dimostrava in modo mirabile che non c’è effetto senza causa…”
Voltaire, Candido, Rizzoli 1974
Un mantra, ripetuto instancabilmente nel contesto economico-sindacale, legherebbe la crescita dei salari alla crescita della produttività del lavoro. Rifacendosi alle analisi dell’Ocse, in un articolo apparso sull’inserto Economia del Corriere della Sera di lunedì 4 luglio scorso, Alberto Brambilla, Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, affronta il tema delle disuguaglianze salariali tra l’Italia e alcuni altri paesi europei.[1] Egli ci rammenta che «l’Italia è l’unico Paese che ha avuto una perdita dei salari reali medi stimata nel 2,9%, un abisso rispetto agli altri paesi; in quelli dell’Est Europa i salari dei lavoratori dipendenti sono quasi raddoppiati, in Svezia sono aumentati del 63%, in Danimarca del 39%, del 32% in Finlandia, in Germania del 33%, in Francia del 31%, in Belgio e in Austria del 25%, in Portogallo del 14% e in Spagna del 6%».
La divergenza tra i salari dei lavoratori dipendenti italiani rispetto agli altri paesi europei sarebbe dovuta principalmente, osserva ancora Alberto Brambilla, al numero esorbitante di contratti nazionali nel nostro paese, un fatto che, «secondo la Fondazione Di Vittorio, negli ultimi 10 anni quelli depositati al Cnel sono passati dai 551 del 2012 ai 992 del 2021, anche se quelli attuati, secondo il Cnel, sono 419 di cui 162 sottoscritti dai tre sindacati confederali. (…) Oltre ad essere troppi, molti contratti sono anche scaduti, alcuni da più di due anni e, per la loro impostazione, hanno quasi bloccato la dinamica individuale dei redditi con una crescita salariale (anche a seguito degli accordi Ciampi del 1993), modesta; raccordo tra salari e produttività quasi inesistente».
Questa spiegazione lascerebbe intendere che mentre la produttività del lavoro nel nostro paese sarebbe cresciuta, i salari non avrebbero seguito la stessa dinamica della produttività. A questo punto sorge spontanea la domanda su quali fattori influiscano sulla dinamica della produttività del lavoro e, soprattutto – una questione assai controversa –, da che cosa dipenda la crescita della stessa.
Dal Report dell’Istat del 31 dicembre 2021 sulle misure della produttività nel periodo 1995-2020 – mediante un’analisi basata sull’approccio della teoria della Contabilità della crescita, che consente di stimare tre diverse misure della produttività[2] – si evince l’enorme divario esistente, anche in questo caso, tra Italia e resto d’Europa. Avendo riguardo all’intero periodo di tempo considerato, in Italia il tasso annuo medio di crescita della produttività del lavoro (+0,4%) sarebbe stato decisamente inferiore a quello fatto registrare nel resto d’Europa (+1,5% nell’UE a 27). Tassi di crescita più in linea con la media europea sono stati registrati dalla Francia (1,2%) e dalla Germania (1,3%), mentre quello della Spagna (+0,4%) è risultato uguale a quello italiano. Negli ultimi quattro anni, poi, la dinamica della produttività avrebbe risentito degli effetti della crisi pandemica. Inoltre, dal grafico riportato a pagina 5 di questo Report dell’ISTAT si evince come, nel periodo che va dal 1996 al 2020, tranne che per gli anni dal 2018 al 2020, la dinamica della produttività di tutte e tre le misure considerate nel Report segua, seppure con maggiore o minore intensità, quella del Valore Aggiunto.
In un altro interessante articolo, il professor Roberto Artoni, dopo aver richiamato alcune critiche sulla metodologia utilizzata nel Report dell’ISTAT[3], sottolinea il fatto che il “declino della produttività in Italia ha le sue radici nelle politiche realizzate a partire dagli anni ’90: la compressione della domanda, le distorsioni nella distribuzione del reddito, i tagli alla spesa pubblica, la rinuncia alla politica industriale, a partire dalle privatizzazioni”. Inoltre, dopo aver evidenziato anch’egli come la dinamica di tutte e tre le misure della produttività sia positivamente correlata a quella del Valore Aggiunto, il professor Artoni fa osservare come ciò richiami alla mente la relazione di causalità, nota come “Legge di Kaldor-Verdoorn”, che lega positivamente la crescita della produttività del lavoro alla crescita dell’economia.[4]
In sintesi, i salari dei lavoratori italiani non seguono la dinamica della produttività del lavoro e quest’ultima non cresce – come afferma Marco Bentivogli[5] – non soltanto a causa del “gap tecnologico e di formazione, per [la] taglia dimensionale media troppo piccola e un numero di imprese ‘zombie’ (quelle a rischio fallimento) tra i più alti e differenziata, ma mediamente alta, inefficienza dello Stato (…), [ovvero] uno dei mercati del lavoro con le più alte disuguaglianze d’Europa [nel quale] crescono gli inattivi e i contratti atipici, soprattutto i ‘part-time obbligatori’”. Tutti questi fattori concorrono, in maniera indipendente dalla crescita dell’economia (vale a dire ‘esogenamente’), a formare la terza delle tre misure della produttività (la cosiddetta ‘produttività totale dei fattori’) considerate nel Report dell’ISTAT. Ignorando del tutto l’osservazione che lega, nella misura del 50%, la crescita della produttività del lavoro alla crescita dell’economia.
In conclusione, poiché da oltre un ventennio l’economia italiana cresce mediamente ad un tasso annuo dello 0,5%, tutto si spiega: a differenza degli altri paesi europei, la dinamica salariale in Italia è sganciata da quella della produttività e la crescita di quest’ultima è frenata dalla lenta crescita dell’economia (ossia è ‘endogena’). Stando così le cose, il problema rilevante diventa quello di spiegare quali siano le cause del declino dell’economia italiana, che ha inizio a partire dai primi anni ’70 del secolo scorso, un tema sul quale ho avuto modo di esprimermi già in altre un’occasioni.[6]
Fuori tema (ma non troppo), concluderei la mia analisi con un commento finale sull’attualità politica italiana: “In un paese in declino – scriveva Carlo M. Cipolla nel suo impareggiabile “Le leggi fondamentali della stupidità umana”[7] –, la percentuale di individui stupidi è sempre uguale; tuttavia, nella restante popolazione, si nota, specialmente tra gli individui al potere, un’allarmante proliferazione di banditi con un’alta percentuale di stupidità (…) e, fra quelli non al potere, una ugualmente allarmante crescita del numero degli sprovveduti (…). Tale cambiamento nella composizione della popolazione dei non stupidi, rafforza inevitabilmente il potere distruttivo della frazione degli stupidi e porta il Paese alla rovina”.
La Salle, venerdì 22 luglio 2022
Bruno Soro
- A. Brambilla, Perché i salari scendono nell’Italia dei mille contratti, L’Economia del Corriere della Sera, 14 luglio 2022, p. 6. ↑
- Le tre misure di produttività considerate nel Report dell’ISTAT riguardano: 1) la produttività del lavoro, intesa quale “rapporto tra il Valore Aggiunto le ore lavorate”; 2) la produttività del capitale, calcolata “come flusso di servizi produttivi forniti dallo stock esistente per le diverse tipologie di capitale” e 3) la produttività totale dei fattori, misurata dal “rapporto tra l’indice di volume del valore aggiunto e l’indice di volume dei fattori primari che misura gli effetti del progresso tecnico e di altri fattori propulsivi della crescita, tra cui le innovazioni nei processi produttivi, i miglioramenti nell’organizzazione del lavoro e delle tecniche manageriali, i miglioramenti nell’esperienza e nel livello di istruzione della forza lavoro”. ↑
- Il professor Roberto Artoni ci rammenta che nell’interpretazione dei dati sulle misure della produttività riportati nel citato Report dell’ISTAT, si tende spesso a trascurare il fatto che la metodologia adottata dall’ISTAT si basa sulla teoria della cosiddetta Contabilità della crescita, la quale “si fonda su una funzione di produzione caratterizzata da rendimenti costanti di scala nella tecnologia impiegata, sul riferimento a mercati in concorrenza perfetta, sull’assunzione di progresso tecnico neutrale, per ricordare solo alcune delle ipotesi restrittive (…) si tratta di ipotesi discutibili”, che indurrebbero ad una certa cautela nell’interpretazione dei risultati ottenuti. R. Artoni, Da cosa dipende la bassa produttività italiana, Sbilanciamoci, 4 maggio 2021. ↑
- “Questa legge, sotto l’impulso di Kaldor – scrive il professor Artoni – richiamò diffusa attenzione alla fine degli anni ’60 del secolo scorso, per poi essere totalmente dimenticata a causa della prevalenza di logiche alternative di tipo supply side”. Essa è stata oggetto di un convegno internazionale tenutosi nell’Università di Genova nel 1999 in occasione del cinquantesimo anniversario della pubblicazione dell’articolo originario di P.J. Verdoorn, gli atti del quale sono stati raccolti nel volume edito a cura di J. McCombie, M. Pugno e B. Soro, Productivity Growth and Economic Performance. Essays on Verddoorn’s Law, Palgrave Macmillan, Houndmills, Basinstoke, Hampshire, 1992. ↑
- M. Bentivogli, “Partiamo dalla produttività”, la Repubblica, 3 giugno 2022, p. 30. ↑
- Mi sia consentito di fare riferimento al mio saggio “ ‘La crisi nella crisi’: l’economia italiana nel contesto internazionale e nazionale ”, in Capire i fatti. Saggi divulgativi di Politica economica e Società, Epoké, 2018, capitolo Undici, e “La lunga crisi dell’economia italiana”, in L’economista dissenziente. Scritti divulgativi 2016-2021, Epoké, 2021, pagine 143-148. ↑
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C.M. Cipolla, “Le leggi fondamentali della stupidità umana”, in Allegro ma non troppo, il Mulino, 1988. ↑
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