Santa ignoranza

Sono stato designato in una commissione che doveva assegnare borse di studio a studenti universitari meritevoli.
Siccome la cifra a disposizione era consistente e la selezione era intitolata a Umberto Eco, chissà perché pensavo che il riconoscimento dovesse premiare elaborati che approfondissero i peraltro enciclopedici interessi del grande semiologo e romanziere alessandrino.
Tutto si è poi risolto nella individuazione, da parte dell’Università stessa, dei più brillanti fra gli studenti, sulla base di una trasparente selezione meritocratica, calcolata unicamente sull’esito degli esami.
I primi 16 allievi (tante erano le borse) hanno conseguito una media spaventosa: 100+lode alla maturità, per il premio alle matricole neo iscritte e 29.70 punti per gli studenti dei vari anni successivi.
La media del 29.70 significa che un paio di somari, onta della classe, durante tutto l’anno hanno floppato ignominiosamente un solo esame, prendendo il vergognoso voto di 29.
Ora voglio riflettere sul perché mi sia sembrato, per un attimo, incongruo che degli studenti ricevessero un premio unicamente per la loro abituale dedizione allo studio.
Vedete, tutti ci sciacquiamo la bocca con le parole merito, diligenza, disciplina ma poi quando ne troviamo esempi pratici sviliamo il tutto con la considerazione che, in fondo, non hanno fatto altro che il loro dovere.
È vero, fa parte del proprio impegno studiare, applicarsi e guadagnare un giudizio sufficiente ma certamente supera la norma avvicinarsi alla perfezione.
La verità è che il sacrificio degli altri ci appare relativo, volontario e compiaciuto.
Come se ottenere ottimi voti fosse nient’altro che un esercizio di esibizionismo, una vanità praticata unicamente per umiliare i compagni.
Oppure un’ossessione tipica dei timidi e complessati che, insicuri dei loro mezzi, sono costretti a performance esagerate.
Come vedete, alla mia generazione le persone che si sacrificavano per lo studio apparivano quanto meno affette da patologie.
Tanto è vero che un mito intramontabile viene trasmesso di generazione in generazione: l’eroe scolastico più inossidabile è lo studente che non fa nulla tutto l’anno, poi si concentra all’ultimo e, senza sforzo, si guadagna la sufficienza.
Siamo di fronte ad una variante del genio incompreso: il genio inconsapevole. Questo nostro Paese arranca agli ultimi posti di ogni classifica internazionale e pensare che basterebbe che quel tipo di alunno si concentrasse un po’ più spesso.
Il problema è ben altro! la realtà che ci circonda è diventata così complessa e sofisticata che per, non dico dominarla, ma semplicemente comprenderla, sarà necessario un approfondimento continuo e una solida tecnica di apprendimento. Lo studio permanente sarà l’unica certezza nella vita dei nostri eredi.
Nel mondo globalizzato milioni di studenti di paesi emergenti rischiano l’esaurimento nervoso, inchiavardati sui libri 10 ore al giorno. L’unica speranza per fare uscire la famiglia dalla povertà è infatti continuare a mantenere quella borsa di studio che permetterà loro -in un perverso vicolo cieco- di studiare ancora per anni.
Oggi ci scandalizziamo del poco coordinamento esistente tra scuola e lavoro. Molte delle difficoltà che i nostri ragazzi incontrano nella ricerca di un impiego derivano da errori commessi durante il ciclo scolastico: la scelta sbagliata dell’indirizzo di studi, il pressappochismo nell’insegnamento delle lingue, la sottovalutazione di alcune materie “pratiche”.
Noi italiani così fieri del nostro umanesimo (qualunque cosa voglia dire), non solo glissiamo sulla nostra ignoranza scientifica (che spiega la goffaggine tecnologica) ma ci scandalizziamo anche ogniqualvolta qualcuno tenta di svecchiare i programmi scolastici e di uscire dai sacri testi.
Lo studio, la conoscenza, la cultura non sono entità astratte, facoltative attività da tempo libero, dilettevoli giochi di società; sono la principale risorsa economica di un paese. Ogni lavoro ormai, anche il più manuale e ripetitivo, ha alle spalle un investimento economico, tecnologico ed intellettuale impressionante.
Le anime belle inorridiscono quando sentono parlare di “capitale umano”, mercato del lavoro, lavoro in affitto etc., ritenendole parole troppo liberiste, tecnocratiche ed efficientiste.
Sognano ancora l’impiego a tempo indeterminato, nel luogo dove ha lavorato il padre, anzi proprio, come una volta, con lo scambio padre/figlio.
Pensate che ricerche serissime dimostrano che i bambini che iniziano oggi il ciclo scolastico si addestreranno per lavori che non esisteranno più al momento del loro diploma e che, viceversa, nessun insegnante è oggi in grado di prepararli ad affrontare quanto si troveranno davvero di fronte.
Quando si parla di scuola ci si interroga e ci si accapiglia unicamente sui reciproci egoismi di insegnanti, studenti e genitori, mai su programmi educativi, tecniche di insegnamento, aggiornamento professionale, calcolo costi/benefici, “fatturato sociale”.
Già, perché un laureato è una ricchezza pubblica, non solo per gli oneri che il paese ha sostenuto per istruirlo ma anche per il moltiplicatore economico che ci si aspetta dal suo sforzo.
Per questo è uno spreco assoluto pensare che 800mila italiani (in gran parte laureati) se ne siano andati all’estero negli ultimi 10 anni, solo in parte compensati dall’arrivo (in genere osteggiato) di stranieri professionalizzati.
Tuttavia questo dato negativo ne nasconde uno positivo: se i nostri concittadini hanno sfondato all’estero e superato la generale propensione a proteggere e preferire gli indigeni, vuol dire che le nostre scuole li avevano preparati bene.
Da ciò si trae una conseguenza logica: che i nostri imprenditori pubblici e privati non sono stati capaci di creare in patria posti di lavoro di qualità, ad alto valore aggiunto, ad alto contenuto di conoscenza e ad adeguati livelli contributivi.
Professioni che sappiano meritare questo buon livello di preparazione.
GianlucaVeronesi

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