Sindaci ‘storditi’ dalla carica

E’ fuor di dubbio che con l’introduzione della loro elezione diretta (legge 81 del 1993) la tendenza dei sindaci ad essere protagonisti si sia notevolmente dilatata. A molti il “presidenzialismo comunale” ha dato perfino per così dire un pò alla testa. La sensazione di esercitare un potere poco limitato da partiti ormai evanescenti e dalle assemblee rappresentative alimenta una specie di ‘eccitazione del ruolo’, una euforia che in verità avrebbe poche pezze giustificative se si tenesse più conto della realtà concreta. Il protagonismo civico, benché esercitato entro un recinto inevitabilmente ben delimitato, procura nei sindaci un qualche ‘stordimento’ che li porta a ritenere la comunità da loro amministrata (piccola o meno piccola che sia) l’ ‘ombelico del mondo’ e a dimenticare del tutto che anche la eventuale presenza nel loro comune di “universali” è sempre il risultato di una vicenda e di una realtà più vaste e complesse, di un intreccio del quale si è parte, a volte anche molto piccola.

Leggendo il libro del sindaco di Firenze Dario Nardella, “La città universale. Dai sindaci un futuro per l’Italia e per l’Europa” (La nave di Teseo, pp.397), si ha netta l’impressione che anche l’autore sia ‘vittima’ della carica. E’ certo che nel libro le iperboli non mancano. Così, avendo la fortuna di essere il primo cittadino di una delle più belle città del mondo, dice che nella sua giornata ordinaria “vive il trascendente” e in “una dimensione universale”(p.16) e contestualmente costruisce una immagine ‘eroica’ e ‘sacrificale’ di sé e dei suoi colleghi: perché “quando fai il sindaco e hai decisioni difficili da prendere sei sempre solo”(p.123). Benchè la pratica concreta dimostri che molti sindaci diventano campioni dell’antipolitica, Nardella non esita ad affermare che amministrare una città senz’altro “ti consente di acquisire sensibilità verso l’essenza della politica”(p.19) e di conseguenza di “dare nuova linfa a una politica spenta, rinchiusa in uno sterile esercizio del potere”(p.20). Questo percorso di indebolimento del senso della misura lo porta a sostenere il primato storico-politico delle città rispetto agli Stati. Con limitate cautele storiche sostiene che “i regni passano, le città restano”, trascurando il fatto che prima di “passare” i regni (Stati) devono esserci per combattere la tendenza cittadina alla chiusura particolaristica e che le città senza Stato sempre (fin dall’età di Dante) sono degenerate rapidamente in feroci tiranni.

A Nardella il potere (notevole) che consegna ai sindaci la legge del 1993 non basta. Secondo lui occorrerebbe una ulteriore centralizzazione dello stesso. Per questo non nasconde la sua delusione per la mancata approvazione del referendum costituzionale del 2016 col quale in sostanza si chiedeva una riforma del Titolo V in direzione appunto della concessione di ulteriori prerogative agli esecutivi. Pur ammantato di “buonismo” istituzionale appare evidente il retroterra culturale che sostiene tutto il ragionamento di Nardella: quello di una sostanziale sottovalutazione del ruolo dei corpi intermedi e delle assemblee elettive a vantaggio di una leadership spinta alla quale proprio i sindaci sono addestrati. Da qui il ruolo centrale che nel libro viene affidato agli stessi e che viene elevato a motore della dimensione pubblica e a maggiore garante della tenuta stessa della democrazia. A fronte di questa capacità ‘extra-ordinaria’ il governo centrale appare poca cosa. Anzi, è proprio la spinta dei sindaci a far aprire di frequente gli occhi ai governanti. Che poi tanti sindaci “passati a responsabilità di governo” abbiano fatto fiasco poco importa perché la responsabilità ricade solo “contro il muro refrattario del sistema burocratico e politico della capitale ”(p.329).

C’è nel libro una frequente contrapposizione fra locale e nazionale che, a quelli che hanno una qualche informazione di storia del movimento socialista italiano, non può non ricordare la disputa dei primi anni del ‘900 fra sostenitori del “socialismo municipale” e sostenitori del “socialismo di Stato”. Come allora anche adesso con Nardella appare forte “la tentazione di riproporre l’idea che in se stessa la gestione dal basso possa costituire una sfida agli assetti vigenti sul piano nazionale” (R. Romanelli). Nardella non è sfiorato dal dubbio che la municipalizzazione del potere non significhi necessariamente rafforzamento delle dinamiche disalienanti (avvicinamento del potere al cittadino). E’ convinto che la crisi mortale del centro- sinistra, ormai senza “risorse ideali per dare il la ad un nuovo progetto politico ”(p. 351), può essere superata solo se il comando passa nelle mani dei sindaci, espungendo dai problemi proprio quello dei sindaci costituitisi ormai in “piccolo ceto (anti)politico” (M. Prospero), in apparati territoriali di ‘cacicchi’ da saziare nella distribuzione delle spoglie governative e delle carriere politiche.

Il forte spirito di esaltazione del ruolo del sindaco attenua di molto nel primo cittadino di Firenze il senso delle proporzioni e delle dimensioni dei problemi. Dire che dai sindaci dipende il futuro dell’Italia e dell’Europa e che sono determinanti nella salvezza dell’ambiente, nella lotta alla pandemia, nel portare sul terreno politico- diplomatico il confronto bellico in atto, sicuramente non è cosa priva di una qualche esagerazione. Si tratta, infatti, di enormi problemi globali che solo il concerto fra Stati e fra organizzazioni sovranazionali può governare e portare a soluzione. Del resto, pur nello stato di euforia, è lo stesso Nardella poi a doverlo ammettere esplicitamente di fronte ai ripetuti insuccessi su quei fronti delle iniziative del ‘movimento sindacale’

Con la saggezza dei latini, ci sarebbe proprio da dire a Nardella: Sutor, ne ultra crepidam : Sindaco, sappi stare al tuo posto, non ti allargare troppo, in quanto le tue competenze sono istituzionalmente di natura amministrativa.

Egidio Zacheo

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