Società: di femminile non c’è solo il nome

Luigi Gemma, in una lettura presentata all’inaugurazione della Società Operaia di Verona, così affrontava il tema dell’associazionismo femminile:

“Non posso (…) non esprimere il desiderio che le donne abbiano a costituirsi, ad esempio d’altri paesi, in Società separata da quella degli uomini”. (F.Luigi Gemma, Le Società di Mutuo Soccorso, Firenze, Editori della Scienza, 1867).

Dieci anni dopo Cesare Revel, appassionato sostenitore del mutualismo, era convinto che fosse un diritto quello delle lavoratrici di costituirsi in sodalizio:

“(…) e per esser veritieri non dobbiamo tacere che i sodalizi italiani furono degli ultimi a riconoscere alla donna il sacrosanto diritto che le spetta di prendere parte a quei consorzi di cui sono anima e vita, e tale esclusione devesi attribuire al poco conto in cui si teneva quell’essere delicato e gentile, creduto incapace di apprezzare il valore del risparmio e della previdenza, di esercitare quella virtù in cui maestra è la donna, e con la più fragrante delle ingiustizie ne pronunciarono la non annessione, quando più d’ogni altro aveva il diritto di ricercare i conforti derivanti dalla mutualità; e se lo stato di civiltà di una nazione si desume dalla condizione in cui è tenuta la donna, dal modo ond’è trattata, dovremmo vergognarci di aver esitato a dare accesso a colei che madre sposa e sorella ci è larga di tante cure e sollecitudini, ed è la più grande nostra consolatrice sulla terra”. (C.Revel, Del Mutuo Soccorso fra le classi Lavoratrici in Italia, Torino, Borgarelli, 1887, pag.49 e 50).

Perché queste due citazioni? Perché sono emblematiche nell’annotare il ritardo del nostro paese rispetto ad altri nel costituirsi in Società in senso moderno (la patria delle SMS fu l’Inghilterra, a partire dal 1750) e perché, per una volta, il riconoscimento di un diritto ignorato è espresso da uomini. All’epoca, la legislazione vigente dipingeva fedelmente il ruolo sociale della donna, la cui arretratezza culturale e le condizioni penose di lavoro contribuivano a mantenere inalterato.

Nel 1865 il Codice Civile sosteneva che le donne erano incapaci di contrattare, al pari dei minori, degli interdetti e degli inabilitati. Stabiliva anche che “la moglie non può donare, chiedere beni immobili, sottoporli ad ipoteca, contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali, costituire società (…) senza l’autorizzazione del marito”. In aggiunta, il Codice del Commercio (L. 2 Aprile 1882, n.681) vietava alla donna di entrare in società commerciali senza l’autorizzazione speciale del marito o del tribunale (Art.13). Insomma era praticamente privata dei diritti civili: anche in ciò si può individuare un ostacolo sia all’ingresso a pieno titolo nelle SMS maschili, sia di costituirsi in Società autonome.

Il Regolamento della “Società Cattolica Agricola Operaia di N.S. della Parrocchia di S. Lorenzo” di Ovada (1905), affiliata alla Federazione Operaia Cattolica Ligure, prevede, all’Art. 7, che “potranno essere ammessi come soci Benemeriti e Onorari anche persone di sesso femminile, ma senza diritto d’intervenire nel locale della Società né prendere parte alle gite sociali della medesima: godranno però degli utili spirituali” . (Clara Sestilli: Patrie e Pie istituzionie associazionismo dei lavoratori all’indomani dell’unità d’Italia a Ovada. URBS, anno III, n.4, 1990. Accademia Urbense). Ed anche nei Sodalizi non cattolici, soprattutto nelle piccole comunità, lo spirito che animava l’articolazione degli Statuti non si distanziava di molto da questa interpretazione del mondo femminile.

Lavorare, sacrificarsi, sostenere, abbandonare velleità di autogestione,questo sì era dovuto, e poteva succedere di trovarsi a contribuire con la ragguardevole cifra di 500 lire alla realizzazione del magazzino della consorella Società maschile, non potendo amministrarne in proprio: Caselle Torinese, anni ‘80 dell’Ottocento.

In questo contesto generale sorgono le SMS femminili le cui finalità prevalenti consistono in contributi in caso di malattia, puerperio, baliatico, sostegno alle vedove e agli orfani, mentre la formazione culturale si fonda principalmente sul rafforzamento della figura tradizionale della donna, dedita alla famiglia e osservante della morale cristiana cui tutta la società si ispira. Patronesse, soci influenti, onorari, benemeriti garantivano il controllo delle Società piemontesi, prevalentemente conservatrici e fedeli alla monarchia.

Appare dunque assai preziosa e degna l’opera di chi sentiva il ruolo educativo come missione culturale e riscatto sociale: le maestrine, che umilmente si prodigavano nelle campagne; le prime femministe, che consideravano la battaglia per l’istruzione come la continuazione logica dell’impegno politico, o le ricche borghesi che seppero utilizzare diversamente il privilegi forniti dalla loro condizione. Penso a Sara Nathan che, oltre ad impegnarsi con fervore mazziniano a diffondere gli ideali repubblicani e a tenere le fila del movimento democratico, inaugurò nel 1873 la Scuola Femminile “G. Mazzini” in Trastevere, riconosciuta dallo Stato, dove si prefigurava un’istruzione parificata a quella maschile, si ignoravano i lavori donneschi, previsti dai regolamenti ministeriali, e l’educazione morale sostituiva l’insegnamento religioso. (Ricordiamo che negli anni ‘50 del secolo scorso, in epoca non troppo lontana, nelle scuole medie di Alessandria ancora s’insegnava Economia Domestica nelle sezioni femminili).

E’ un esempio raro di un’Italia dove l’analfabetismo femminile toccava, nel 1900, il 75%, le studentesse delle scuole secondarie e classiche erano 5513, e all’università la frequenza femminile si fermava a 250 iscritte. (A. Maria Isastia, Italiane,Vol. 1°.Dipartimento per le Pari Opportunità – Presidenza del Consiglio dei Ministri, 2004. Roma).

E’al Piemonte e ai suoi Sodalizi che, a seguito della promulgazione dello Statuto Albertino in cui si sanciva la libertà di associazione (1848), dobbiamo il primato delle SMS femminili. Nel 1885, su 109 SMS femminili, 49 erano piemontesi mentre 26 erano in Lombardia: le altre regioni procederanno più lentamente, al passo con le vicende legate all’Unificazione.

Dove faticosamente maturano le coscienze e con più coraggio emerge l’esigenza d’emancipazione, si devono affrontare la diffidenza, il fraintendimento se non la derisione, che possono essere sopportati ricorrendo ad un conforto tutto femminile da condividere nella solidarietà: anche in questo risiede l’importanza formativa delle Società femminili, nel loro lento procedere, un confronto talvolta aperto all’esterno, nei Congressi generali organizzati ai primordi del mutualismo, negli anniversari, nelle commemorazioni, o per affinità di orientamento con altre SMS femminili che si contano, è vero, ma “contano”. Elenchiamo le più antiche:

  • Torino, Associazione generale delle Operaie (1851);
  • Savigliano e Pinerolo (1851);
  • Cuneo, Ivrea, Moncalieri, Valenza (1852);
  • Chieri (1853);
  • Alba, Casale, Fossano, Vercelli (1854);
  • Alessandria (1855).

“ (…)Ma al sarcasmo, alle esagerazioni subdole, risponde il diritto naturale e la ragione. Pari i sacrifici per l’esistenza, pari il lavoro, pari le emozioni delle domestiche vicende, pari i sentimenti innanzi alle sventure e alle glorie della patria e dell’umanità, siano pari anche i diritti e le prerogative innanzi all’ente collettivo che regge la società”. (La donna e l’Associazione, Milano, Tipografia degli Operai, 1884, p.13,14).

Sono parole della moglie di Antonio Maffi, primo operaio eletto al Parlamento (1882, lo stesso anno di Andrea Costa, primo socialista eletto deputato) a lungo presidente della Lega delle Cooperative che, per quanto evoluto, resta fedele all’immagine di “una donna nella sua missione di madre, e quindi non costretta a mettere le sue energie nel mercato della manodopera in concorrenza con l’uomo”. (Antonio Maffi, Il lavoro della donna, in: La cooperazione italiana, 12 maggio 1900, p.15).

La donna deve soprattutto a se stessa il conseguimento della propria emancipazione, alla costanza e alla forza di quelle che si sono levate in difesa dei diritti delle lavoratrici della terra, delle operaie delle fabbriche e dei laboratori, e di altre che sottopagate e stremate da orari massacranti, oltre che dalle gravidanze, hanno partecipato ai primi scioperi.

Che lo sciopero fosse per lo più materia maschile, ben lo sapevano le operaie agli albori del Novecento (mi preme ricordare ancora una volta le filandiere del Setificio Salvi di Ovada, entrate in sciopero nel novembre del 1900, prime in provincia di Alessandria, la cui storia è fedelmente riportata nella ricerca di Paolo Bavazzano, in “D’fome a Uò un’è moi mortu ancioun”. 1900, le filatrici entrano in sciopero. URBS, anno XIX, n.2, giugno 2006. Ovada, Accademia Urbense).

“Osare far sciopero è sfidare l’opinione pubblica, uscire dalla fabbrica è comportarsi come donne di strada”. (M. Perrot, Uscire, in: G.Duby- M.Perrot, Storia delle donne. L’Ottocento, Bari, 1991, p.456). Sottrarre le donne alla strategia di lotta di sapore socialista, in cui si ravvisava il pericolo di comportamenti ribelli, è prerogativa delle patronesse, così come i comportamenti immorali, stigmatizzati negli articoli di alcuni statuti, inibiscono ogni trasgressione, pena il taglio dei contributi assistenziali fino all’espulsione delle iscritte dai Sodalizi.

E’ un tratto comune il richiamo alla moralità come condizione di diritto al sussidio anche nelle SMS maschili. Nello statuto della Società Operaia di Silvano d’Orba (1876), maschile, si legge:

“Art. 49. I soci affetti da malattia proveniente da abuso abituale del vino o dei liquori, o feriti in rissa, non hanno diritto al sussidio”.

Art. 50. I soci presi da malattia venerea o sifilitica non percepiranno sussidio, salvo il caso in cui il medico dichiari la malattia indipendente da volontà o vizio dei soci”.

E per gli agitatori, coloro che creano disordine, il monito è chiaro:

“Art. 35. I soci che per colpe o mancanze compromettono la Società, tendono con parole o atti a disonorarla, cercano di suscitare ire,partiti, ovvero turbano la calma delle discussioni potranno (…) venire privati del diritto di partecipare alle adunanze e coprire uffici pel tempo prescritto dal Consiglio, e per gravi motivi radiati dal Ruolo dei Soci”. (M.E. Maranetto, Una storia nella cronaca, la Società Operaia a Silvano d’Orba dal 1876 al 1926, Accademia Urbense di Ovada, 2004).

Nel minuzioso Statuto della “Società di M.S. fra gli Operai-Unione Ovadese” (Fondata nel Marzo 1870, nuovo Statuto approvato il 12 Maggio 1904), si legge: “Non sono ammessi a far parte della Società coloro che furono condannati per furto, truffa, ferimento, od attentati ai buoni costumi, o che non conducano una vita onorata ed operosa da buoni cittadini”.(Art.25). Le stesse ragioni sono motivo di perdita del diritto di associazione, insieme a malversazione e danni con fatti e parole a membri della Società e alla sua immagine.(Art.28,Archivio dell’Accademia Urbense di Ovada).

Quando anche in Italia si creeranno le condizioni propizie allo sviluppo dell’industria e di un proletariato moderno, divenuto capace di sollecitare lo Stato e gli ambienti economici ad avanzare concreti programmi di riforme sociali, e il movimento mutualistico avrà una vigorosa ripresa (8.000 SMS nel ‘900), saranno le circostanze a infondere coraggio alle istanze di partecipazione femminile, anche attraverso il ricorso allo sciopero.

In un articolo intitolato “Scioperi e Patronato” del 15 marzo 1902 (“La Lavoratrice”, organo della Società di Patronato e Mutuo Soccorso per le Giovani Operaie di Torino) si leggeva:

“Nelle contese gravi e continue che oggigiorno fervono fra capitale e lavoro, manca sempre questo elemento intermedio, regolarmente costituito, che frenando le pretese sregolate, da qualunque parte esse vengano, riconduca subito gli animi sulla via della concordia, impedendo il trionfo della violenza insana e devastatrice. Si potrebbe ancora discutere se lo sciopero sia un’arma civile di lotta, ma non avremo mai bisogno di arrivare a questo estremo espediente per ottenere concessioni e miglioramenti”.

La pratica della mediazione, per strappare concessioni al padronato, fu efficacemente sperimentata da questo insigne Sodalizio in ogni vertenza riguardante le lavoratrici dell’ago e, in seguito, altri settori dell’occupazione femminile. Ma l’estremo espediente, a partire dai primi anni del Novecento, cominciava ad essere una realtà diffusa di cui il mondo femminile prendeva coscienza: in un caso (lo sciopero delle sartine torinesi del 1906) il Patronato, rappresentato dalla sua presidente Cesarina Astesana e dalla segretaria Margherita Albini, otteneva che nel concordato definitivo con la controparte si stabilisse in dieci ore giornaliere l’orario di lavoro, in osservanza della legge in favore delle lavoratrici e dei minori (1902), nonché fosse riconosciuto il pagamento dello straordinario ed il riposo festivo, successivamente regolato da una legge dell’agosto 1907.

Nonostante i dieci anni trascorsi a tessere la rete di relazioni, necessarie ad attuare un proprio sistema di mediazione con cui superare la conflittualità sociale (la ”collaborazione fra le classi” in vece della “lotta di classe” predicata dalle associazioni femministe),le patronesse mantennero il silenzio in occasione dello sciopero del 1911, in cui si chiedeva il rispetto delle norme sancite dal concordato del 1906: questa volta era impensabile affidarsi ad una protesta egemonizzata dalla Camera del Lavoro e strumentalizzata per fini politici.

“La Lavoratrice”, esce tuttora semestralmente a cura della Società di Chieri.

Come sarà interpretato, in seguito, l’estremo espediente dall’area più conservatrice del Paese? Pur con differenti premesse e modalità, rispetto alle iniziative di lotta di matrice socialista, essa riconoscerà la necessità di rispondere alle istanze che via via emergeranno dal mondo del lavoro, aggregandosi nelle Leghe e nei Sindacati bianchi.

Determinante in tal senso fu la corrente cattolica che interpretava il messaggio della Rerum Novarum di Leone XIII (1891) nei tratti di una più coraggiosa milizia sociale che si confrontasse col socialismo non tanto sul piano dell’opposizione, quanto sulla concorrenza, diversamente dall’interpretazione prevalente secondo cui operai e padroni dovessero collaborare e non combattersi: in questa direzione, nell’arroventata atmosfera di fine ‘800, vediamo orientarsi un gruppo di cattolici facenti capo ad un sacerdote marchigiano, Romolo Murri, che a Roma nel 1898 fondò la rivista Cultura sociale, speculare alla socialista Critica Sociale. Furono i seguaci di questa corrente che si caratterizzarono come democratici cristiani, svolgendo tra il ’98 ed il ‘902 un’intensa opera di propaganda e organizzazione da cui presero forma numerose leghe cattoliche.

Piemonte e soprattutto Lombardia, con le sue fabbriche tessili principalmente dotate di manodopera femminile, ed i suoi contadini in maggioranza legati al clero, furono la roccaforte del nascente sindacalismo cattolico. A Sud, dove compiva le sue prime esperienze un altro giovane prete, Luigi Sturzo, anche la Sicilia viveva un radicarsi della democrazia cristiana e delle sue organizzazioni, nonostante l’ostilità delle gerarchie ecclesiastiche.

Ma il seme era gettato e vedremo come gli stessi clerico-moderati avvieranno ufficialmente l’ingresso sulla scena politica dei cattolici, sollecitati ad unire le forze a difesa dell’ordine costituito (Pio X abolirà il veto per i cattolici di partecipare alle elezioni (1904), il non expedit vigente dal tempo delle breccia di Porta Pia).

In uno dei periodi più critici della Storia italiana, quello tra il ‘19 e il ‘22, la cronaca locale ci offre una visione degli eventi che vedono impegnati su posizioni diverse le due principali organizzazioni sindacali, in alcuni articoli tratti dal “Corriere delle Valli Stura ed Orba”. Uno dei più significativi inerenti gli scopi del Sindacato bianco, cui il giornale è molto vicino, ha come titolo: Lavoratori di tutto il mondo unitevi in Cristo (Ovada,7/5/1922, n.19).

“(…) Ed è cosi che nel corso dei secoli noi vediamo fiorire potenti le organizzazioni di classe. Ogni categoria d’individui tende a stringersi insieme per la difesa dei comuni interessi. La classe che più si tenne stretta e quasi sempre si trovo concorde nell’agire fu la padronale. Sempre i pochi potenti, i pochi ricchi di ogni paese si trovarono uniti quando si trattò di opprimere i poveri lavoratori, quando si trattò di tenerli schiavi.”

Ma dopo quest’analisi che mette tutti d’accordo, ecco l’affermazione che opera la distinzione dalle organizzazioni sindacali socialiste:

“Sorse il Socialismo per unire il proletariato del mondo e liberarlo dalla schiavitù padronale (…) ed abbiamo visto i lavoratori stringersi alle bandiere rosse a decine di migliaia. La Chiesa cattolica però non era rimasta soltanto spettatrice (…), ma per bocca del suo capo visibile, il Papa, aveva parlato a tempo. Leone XIII, nella sua immortale enciclica “Rerum Novarum”, dettava le norme per la sistemazione della questione sociale.

(…)Mentre a base della sua opera di elevazione del proletariato la Chiesa pone il Vangelo e la legge dell’amore, il socialismo, pur avendo detto delle verità, si lasciò condurre dallo spirito d’odio e di vendetta. Così mentre l’opera delle Federazioni e Sindacati cristiani registra sempre un crescendo meraviglioso nei suoi quadri di organizzazione, noi vediamo sgretolarsi l’edificio socialista fondato specialmente sulla concezione nefasta della lotta di classe (…).

Nella stessa pagina, una breve nota riguardante la Conferenza di Genova , La plaga ovadese e il nostro movimento, riporta un intervista a Don Sturzo che si dice “molto soddisfatto del rifiorire delle forze politiche e sindacali bianche nell’Ovadese, e (…) raccomanda la propaganda anche fra le donne, ripromettendosi da queste gran parte del risanamento nazionale. La forza della donna nella vita politica si manifesta vieppiù necessaria e s’impone”.

Il 28 maggio (n.22), il giornale dà notizia di una grande adunata delle Società femminili cattoliche diocesane, che è utile citare per fornire al lettore un elemento di comparazione con le affermazioni di Don Sturzo..

“(…) Sono migliaia di Donne e di Giovani Cattoliche che ai piedi della nostra Madonna vengono a ritemprare le loro energie per la conquista del loro sublime ideale: la cristianizzazione della società moderna.

(…) Una donna dal cuor nobile e dalla vita integerrima, nobilita e santifica l’ambiente in cui vive; essa diventa la forza motrice delle più sane energie morali e sociali, la custode fedele del santuario domestico”.

Intanto le donne, inserite nelle fabbriche, escono dal loro santuario domestico: è sufficiente sfogliare qualche pagina del Corriere. (Ovada, 16/7/1922, n.29).

La richiesta di aumentare l’orario di lavoro manifestata dalla Direzione del Cotonificio Ligure di Rossiglione, viene rifiutata. L’assemblea della Lega bianca, presente il segretario Palenzona, così si esprime:

“(…) Gli operai e le operaie della Lega Tessile bianca di Rossiglione, riuniti in Assemblea, confermano la loro disciplina d’azione conforme alle direttive già prese per il rispetto dei concordati di lavoro regolarmente pattuiti e firmati”.

E a sinistra? Vengono descritte realtà un po’ meno edulcorate dalla cristiana prudenza.

L’Emancipazione, settimanale socialista, affronta il tema dello sciopero alla Ditta Beccaro, Vini e Aceti (28/11/1920, n.14), citando come fonte il Corriere di Acqui. Lo sciopero riguarda il licenziamento di cinque operaie, di cui due saranno infine reintegrate per anzianità di servizio. Le donne sono sempre le prime ad essere licenziate, ma in questo caso è di conforto la solidarietà dei compagni di lavoro che si offrono di diminuire le ore giornaliere per mantenere il posto alle compagne.

“(…) col danno subito in questi giorni di sciopero, avrebbero potuto mantenere in servizio le suddette e assumerne altre…” , è il commento.

La costituzione della Camera del Lavoro, convocata nei locali dell’Unione Operaia Ovadese, risale al febbraio 1921. L’Emancipazione ne dà notizia nel n. 27 (27/2/1921). Risultano rappresentate le Leghe contadini, tessitrici, filatrici, panettieri, falegnami, carrettieri, dipendenti comunali, elettricisti, fornaciai, cantonieri provinciali di Ovada e le Leghe contadini di Rocca, Carpeneto, Silvano, Molare,Prasco, Lerma, Cremolino, Belforte, Trisobbio, Montaldeo, e boscaioli di Lerma.

Altre notizie permettono di addentrarsi nel panorama della collocazione femminile:

– l’istituzione di scuole serali a Ovada (28/11/1920, n. 14).

“Vorremmo che i genitori stessi mandassero i loro figli alla scuola, le loro figlie, che anche queste abbisognano d’istruzione, che venissero essi stessi, tutti tutti. Vorremmo vedere le aule scolastiche invase da una vera folla di fanciulli, di giovani lavoratori e lavoratrici, animata di sapere”;

  • I corsi serali professionali di cucito (20/2/1920,n. 18), a cura dell’Amministrazione Comunale;
  • L’inaugurazione dell’Esposizione dei lavori donneschi (3/7/1921, n. 45), “tra cui anche il ceto signorile”: è il coronamento dei corsi di cui sopra, e dell’applicazione dopo l’estenuante lavoro dell’opificio. Spicca l’elogio dell’operaia bambina, “che corona un largo stuolo di compagne di lavoro strette attorno alla loro valente e simpatica Direttrice”. Il discorso inaugurale è nutrito di retorica e buoni sentimenti, e non manca di rievocare “la santa missione della donna nel seno della società” oltre ad esortare alla perseveranza “nel difficile e lungo cammino che il proletariato deve ancora compiere per la definitiva e completa sua elevazione”.

Il settimanale dell’Appennino Ligure “La Valle Stura”, Campo Ligure, aderente al Partito popolare, completa la breve rassegna della stampa locale.

Un articolo datato 13/3/1920, tratta della vertenza degli operai tessili, discussa a Milano tra il Sindacato Italiano Tessile e gli industriali cotonieri.

Aumenti salariali giornalieri proposti dagli industriali:

Salario Uomini: L. 8 cottimo; L. 4 caroviveri = L. 12

Salario Donne: L. 6,50 cottimo; L. 2,92 caroviveri = L. 9,42

Lavoro straordinario Uomini: L. 2,25 orarie. Donne: L. 1,75

E ancora: viene istituita la commissione di controllo della Lega tessile (Pres. Salvatore Pastorino), per comparare le tariffe dei cottimi, in accordo con la Direzione dello Stabilimento di Masone. La commissione, composta da quattro operaie ed un operaio sotto l’auspicio della Bianca bandiera, si recherà a Varazze in analogo stabilimento.(26/6/1920, Campo Ligure)

L’affresco presenta tonalità differenti, talvolta in contrasto, sintomo di una società in trasformazione e votata ad un’imminente stravolgimento.

Da L’Emancipazione ( 7/5/1922, n. 89), un articolo dedicato alle operaie agricole tratta di un episodio che si verifica giornalmente a Boscomarengo:

“ (…) Un piccolo gruppo di provocatori fascisti si reca alla tenuta S. Michele, munita di tricolore, chitarra, a cantare “Giovinezza alalà” ed altri repertori fascisti, a quelle donne che ivi lavorano per far loro vedere che il socialismo non esiste più e che il trionfo del fascismo e grande. (…) Esse son figlie proletarie, esse son donne del popolo e sanno disprezzarvi. Fiere nella loro povertà e rettitudine d’animo, anziché cedere, rispondono col canto della loro fede, “Bandiera rossa trionferà”. Epilogo: quelle donne, ree d’eresia bolscevica, non devono più lavorare e sono licenziate.

Un’altra travagliata storia concerne l’estensione del voto alle donne , un diritto cui si risponderà, come noto, solo dopo il secondo conflitto mondiale.

In A che giova il voto alle donne? (11/4/1926) Il Corriere delle Valli Stura ed Orba manifesta un atteggiamento favorevole (in linea con il Partito Popolare) e risponde agli scettici attraverso un articolo tratto dalla rivista Il femminismo Cristiano nel Belgio, diretta da una certa Van de Plas, soddisfa piccole curiosità con l’intento di evidenziare miglioramenti in campo sociale nei Paesi dove è riconosciuto il diritto di voto femminile: in Norvegia l’abbattimento dell’alcolismo; in Finlandia, la presenza obbligatoria in ogni Comune di un’ostetrica; in Australia, il soccorso per le vedove e le donne sole; nel Kansas, un Ufficio d’Igiene e beneficenza grazie al quale dal 1873 la mortalità infantile e quasi dimezzata, così come in Nuova Zelanda, dove per la minuziosa attenzione al problema, la mortalità infantile si è ridotta al minimo assoluto; negli Stati americani dove votano le donne, la cura dell’igiene scolastica è assicurata dall’assunzione di responsabilità degli insegnanti; a Budapest, il primo collegio della città ha eletto a deputato una suora di carità, specialista nel soccorso ai fanciulli e agli indigenti.

Durante il percorso accidentato della battaglia femminile per raggiungimento dei diritti civili e politici, in atto ormai da decenni (cito in proposito, tra le figure di spicco, Anna Maria Mozzoni, Anna Kuliscioff , Maria Montessori, Argentina Bonetti Altobelli e Carlotta Chierici) si era sfiorata l’ammissione al diritto di voto, sia prima che dopo la Grande Guerra.

E’ invece del 1912, durante la discussione del progetto di legge di riforma elettorale, l’ammissione al voto dei maschi analfabeti. Per Giolitti il voto femminile era un “salto nel buio”… e tutto fini lì, poiché riteneva si dovesse estendere gradualmente a partire dalle amministrative, e non prima del pieno raggiungimento dei diritti civili. La Commissione nominata in proposito per affrontare la riforma del Codice Civile rimandò in pratica la questione a tempi indefiniti.

Si giunse ad un passo dall’approvazione nel 1919, ma al momento del passaggio al Senato vennero convocate nuove elezioni, e tutto fu rimandato. In compenso, pur con notevoli limitazioni, in quell’anno era stata abolita l’autorizzazione maritale, dando alle donne almeno l’emancipazione giuridica. Non si poteva più trascurare che tra il primo ed il secondo passaggio, di mezzo c’era stata una guerra mondiale dove toccò alle donne rimpiazzare gli uomini richiamati al fronte, fino all’80% del personale nell’industria meccanica e in quella bellica anche se poi, accusate di rubare il lavoro ai reduci, persero il loro impiego.

In questo spazio di Storia, necessario per cogliere il senso di una piccola realtà come tante, diffuse nella provincia di Alessandria, nasce e si svolge l’esistenza di una SMS femminile ovadese, che porta lo stesso nome di un’altra più rilevante, già citata per la lungimiranza nell’affrontare i temi del lavoro femminile. La comparazione tra le due, è un aspetto della realtà che fin qui abbiamo provato a descrivere.

La “Società di Patronato e Mutuo Soccorso per le Giovani Operaie” (Torino, 1901).

L’importanza di questo Sodalizio torinese, estesosi in altri centri della Penisola (Alessandria compresa), si distingue per l’attenzione che rivolge alle problematiche del lavoro femminile ed è all’avanguardia rispetto ad altre realtà analoghe del Piemonte, se ci fermiamo a confrontare gli articoli degli Statuti.

Nello Statuto della Società (1901) si affermava la tutela dei diritti di categoria, il collocamento delle socie disoccupate, la composizione delle vertenze tra capitale e lavoro (cui si è accennato in precedenza), il miglioramento economico delle associate mediante il mutuo soccorso, la riduzione delle quote per favorire le adesioni, e l’elevazione morale ad opera delle patronesse. Significativo fu il contributo all’istruzione che prevedeva corsi di formazione professionale, corsi di apprendimento di lingue straniere, un corso commerciale triennale legato ai programmi ministeriali ed anche una scuola della buona massaia.

La Casa famiglia forniva accoglienza e assistenza adeguata alle giovani lontane da casa, mentre il soccorso terapeutico era garantito da una rete di ambulatori medici, dall’erogazione di medicinali gratuiti, dall’istituzione di colonie montane e marine che offrivano un benefico miglioramento della qualità della vita ed un’occasione di svago e socializzazione. Tutto ciò s’inquadra in un’opera di prevenzione attenta rivolta alla piaga delle malattie professionali (tubercolosi e clorosi, una forma anemica favorita dalla prolungata permanenza in ambienti chiusi e malsani), facendo del Sodalizio un esempio unico nel suo genere.

Per poter essere ammesse in qualità di socie effettive, le aspiranti dovevano rispondere ai seguenti requisiti; sana costituzione fisica, buona condotta morale, età compresa entro i limiti stabiliti (dagli 11 ai 45 anni) e consenso scritto dei genitori o del marito.

I contributi mensili versati dalle socie (L. 0,25) e il sussidio giornaliero per malattia (L.0,50), venivano integrati dalle oblazioni annuali assai generose delle patronesse onorarie ed effettive, che contribuivano anche a sostenere una cassa dotale cui contribuivano le socie con una piccola somma al fine di costituire una dote “per l’epoca del matrimonio, oppure un piccolo capitale quando rimanessero nubili”.

Da Torino a Ovada: la “Società di Patronato e di Mutuo Soccorso per le Giovani Operaie”.

L’analogia nel nome è sufficiente a motivare la curiosità del confronto.

Lo Statuto, rinvenuto nell’Archivio Parrocchiale insieme ad altri documenti, è conservato nell’Archivio dell’Accademia Urbense di Ovada.

“Lodiamo lo scopo che si propone la Società Femminile di Patronato e Mutuo Soccorso, ne approviamo il regolamento ed auguriamo che alle operaie di Ovada apporti un grande vantaggio morale e materiale”.

Acqui, 8 Giugno 1906

Disma Vescovo

La dicitura fa riferimento alla data di fondazione ed introduce il Regolamento della Società. Il certificato d’iscrizione, contenuto nel libretto destinato alle socie, reca il nome di Maria Malaspina, fu Francesco e di Nespolo Rosa, abitante in Via Bisagno, lavandaia. Presidente: Nina Ivaldi Pastorino (1/12/1914), che presiederà fino al 1939.

Non porta la firma della richiedente, né quella del padre defunto, né quella del marito, come si evince a fondo pagina. Vige ancora l’autorizzazione maritale, o quella paterna, e la richiedente è nubile. L’Art.14 recita: “Per essere ammesse occorre la fede di battesimo e di sana e robusta costituzione fisica. Per le minorenni e le maritate occorre inoltre il consenso rispettivamente dei genitori e del marito”.

Chissà se Maria Malaspina, lavandaia, seppe leggere l’Art.2:

“Essa (la Società) ha per scopo:

  1. Di procurare alle operaie il vantaggio morale mediante l’appoggio e l’assistenza delle Patronesse.
  2. E possibilmente ogni miglioramento ragionevole delle condizioni economiche delle iscritte.

Come si evince dalla lettura, lo scopo primario si fonda sul vantaggio morale che le socie possono trarre dall’appartenenza al Sodalizio.

Segue la composizione della Società composta da Patronesse ed Operaie.

Le Patronesse effettive sono tutte le Signore che fanno parte dell’Associazione delle Dame di Carità; Patronesse Onorarie, sono quelle che offriranno L.5 annue, oppure L.50 una tantum.

Le Operaie, “sì nubili che maritate, sono quelle che traggono mezzi di sussistenza dall’onesto lavoro nelle Arti, nell’industria, nell’agricoltura, nei servigi domestici”.

Quote di partecipazione: L. 0,25 mensili più una tassa d’ingresso di L.0,50 dai 15 ai 20 anni; L.1 dai 21 ai 25; L.2 dai 26 ai 30; L.3 dai 31 ai 35; L.5 dai 36 ai 40.

Pur invariate nello Statuto, queste norme subirono deroghe frequenti. Molte associate non riuscivano a versare puntualmente le quote. Troppo misere le condizioni di vita di tante lavoratrici. La nostra Maria Malaspina, al contrario, ha puntualmente pagato fino al 1939, come attesta la tesoriera AnnaPernigotti, in ultima pagina.

Il Patrimonio sociale è costituito da due Casse: la Cassa Patronato,sostenuta dalle oblazioni delle Dame di Carità, o da altri introiti derivati dalla loro iniziativa; la Cassa Mutuo Soccorso, retta dai contributi mensili delle Operaie.

In proposito l’Art. 17 richiede il pagamento anticipato delle quota mensile. Ogni mese di ritardo è multato con L.0,5, mentre il ritardo di quattro mesi prevede l’esclusione dalla Sociètà, allo stesso modo per il contegno poco corretto od offensivo, o l’essere colte a lavorare ugualmente durante l’erogazione del sussidio per malattia (Art.15). I sussidi sono di L.0,50 e non possono superare i 20 giorni, rinnovabili tre volte in 12 mesi consecutivi, con intervalli di 15 gg. da un periodo all’altro, ed in tempo scaduto erogati di 6 in 6 giorni. Esauriti i tre periodi cessa il diritto al sussidio (Art.18). Il sussidio non spetta se le malattie risultano cagionate da risse, da stravizi, da temerarie imprudenze (Art.22), ma questa è una prescrizione abituale dei regolamenti delle Società.

La puerpera si considera come ammalata e verrà sussidiata con la somma totale di L.5 (Art.24), e quando trattasi di operaia maritata, e può sorgere il dubbio che la malattia derivi da gravidanza, non si deve sussidiare dopo il periodo di quattro giorni (Art.23), ma attendere un tempo sufficiente per constatare che il malessere provenga realmente da questa.

La Società, che non ha una sede propria, si riunisce soprattutto nei locali mesi a disposizione dalle Madri Pie,nel salone di S. Caterina, nel Ricreatorio festivo Don Salvi, ed anche presso l’Asilo Infantile Opera Pia S.Tito. E’ governata dal Consiglio del Patronato (Citato anche come “Consiglio Superiore”) e dal Consiglio delle Operaie.

La Presidente delle Dame di Carità nomina la Presidente del Consiglio del Patronato, la quale nomina una Tesoriera ed una Contabile. Al Consiglio del Patronato spetta: a) la sorveglianza sul buon andamento della Società, con sentenza definitiva su qualunque divergenza possa sorgere nel Consiglio delle Operaie; b) l’amministrazione e l’impiego dei fondi sociali; c) l’approvazione dei sussidi proposti dalle operaie; d) la compilazione di rendiconti; e) la corrispondenza con istituzioni affini: Protezione della giovine, Cassa Naz.le di Previdenza, ecc.

Il Consiglio delle Operaie è composto da nove membri scelti in Assemblea, a maggioranza, con voto segreto. Dura in carica tre anni.

Le elette nominano una Presidente ed una Tesoriera con funzioni di segretaria. Al Consiglio delle Operaie spetta: a) accettazione ed esclusione delle domande d’iscrizione; b) la reiezione delle socie che tenessero condotta pubblicamente immorale o fingessero malattie, danneggiando la Società; c) la riscossione delle quote mensili; d) lo studio dei bisogni delle associate. Il Consiglio si riunisce mensilmente, con presenza trimestrale del Consiglio del Patronato, per dare il rendiconto finanziario del trimestre ed udire il rendiconto morale dalle Consigliere.

Entro il mese di gennaio di ogni anno è indetta l’Assemblea generale ordinaria, presieduta dal Direttore del Consiglio delle Dame di Carità, in cui viene dato il rendiconto annuale, morale e finanziario della Società.

Più suggestivo della lettura pur necessaria delle norme, è sfogliare il Registro della Segreteria che comprende un lungo periodo, dal 1906 al 1939,e suggerisce il fatto non trascurabile di aver resistito, dopo il consolidamento del fascismo, all’epurazione di tutte le forme di associazionismo confluite, con le Leggi Speciali del 1926, nell’Opera Nazionale Dopolavoro.

La prima Adunanza della Società si svolge il 14 Ottobre 1906, nel salone delle Madri Pie. Sono presenti il Rev. Prevosto Mons. E. Mignone, il Rev. Prof. Chiarella, le Dame di Carità, tra cui le Patronesse Onorarie le Socie Onorarie e le effettive. Il Prof. Chiarella apre il discorso, esponendo il duplice scopo della nascente Società: alleviare i bisogni materiali e sollevare le morali depressioni. Le madri, le figlie, le sorelle che “con sì bella solidarietà contribuiscono a soccorrere oltre se stesse, tante compagne di lavoro e di lotte, devono essere luce benefica, angioli buoni per i loro figlioli, per i loro padri, per i loro fratelli…” .

La Cassa Patronato si avvale di un fondo iniziale di L. 951 e la Cassa di Mutuo Soccorso di L.93,75, un fondo che si vede aumentare nei successivi verbali col progredire del Sodalizio.

Per consentire al lettore locale di riconoscersi in questo primo atto di costituzione della nuova Società, le nove Consigliere elette furono Olivieri Giacinta, Berta Rosa, Parodi Maria, Pesce Giuseppina, Daglio Angela, Gea Giuseppina, Beretta Teresa, Porta Luigia, Repetto Rosa. Presedente e Tesoriera sono nominate Olivieri Giacinta e Berta Rosa.

Presidente del Consiglio del Patronato risulta essere la Sig.ra Oddini. Segretaria Adele Carosio, Tesoriera la Sig.na Torielli.

Già dalla II adunanza (13/1/1907), la Presidente delle operaie è costretta a sottoporre al Consiglio alcune deroghe al Regolamento. La Olivieri osserva la mancanza di puntualità delle socie nel versare le quote mensili: “Spesso la loro miseria è tanto grande che sono costrette a domandare una proroga, cosa che un cuore pietoso non ha coraggio di rifiutare”. Inoltre è difficile per le Consigliere delle operaie, per quanto volenterose e zelanti, recarsi nelle case ad esigere i pagamenti dalle “300 e più operaie” (è da questo passaggio che apprendiamo il numero delle iscritte durante il primo anno d’esistenza della Società). L’abolizione delle multe appare come un primo atto necessario.

Le adunanze si susseguono con la volontà di trovare la via migliore per adeguare la vita della Società ai problemi emergenti, agli aspetti imprevisti, nel comune interesse. Tra i più sentiti, l’esigenza di snellire le procedure di riscossione dei mandati e la necessità di avere un medico addetto alla Società, assai difficile da reperire per l’esiguità del compenso previsto. Dopo mesi di ricerche sarà il Dott. Grillo ad accettare l’incarico, con uno stipendio annuo di L. 60, provenienti dalla ritenuta di metà del sussidio previsto per le socie inferme (Ad. 1/11/1908).

La Società vede diminuire le iscrizioni e necessita di elementi nuovi e sani. Per favorire incremento e rinnovamento si pensa di sospendere la tassa d’ingresso di L. 0,50, compensando parte del mancato introito con un prelievo della metà della quota mancante, dalla Cassa del Consiglio delle operaie. Inoltre, aumentare il limite d’età a 50 anni significherebbe ottenere quote più alte di tasse suppletive dai 45 anni in su. Queste iscritte avranno la possibilità di esaurire il debito rinunciando temporaneamente ad eventuali sussidi.

La XI adunanza (1/11/1908) si chiude con una riflessione ed un auspicio di prosperità per il 1909: “Noi sappiamo che queste Società di Mutuo Soccorso hanno prosperato in mille luoghi, in mille paesi diversi. E migliorando si sono ampliate e invece di dare un semplice sussidio alle socie ammalate hanno potuto procurar loro ben altri sollievi. Le hanno mandate, quando il medico ne dimostrava la necessità, al mare o in montagna a trovare nelle acque benefiche o nell’aria balsamica il mezzo di rinnovellare la loro fibra guasta, le loro energie perdute. Qual soddisfazione se anche la nostra Associazione sorta così modestamente potesse raggiungere una così benefica prosperità”.

E’ in questa dichiarazione che possiamo rilevare l’amarezza nel confronto, se pensiamo alla più ricca ed organizzata omonima Società torinese.

Molta attenzione è rivolta all’opera delle Consigliere delle operaie, depositarie delle fiducia delle compagne, il cui compito è anche ascoltare, cercare soluzioni , diffondere i principi su cui si fonda le Società per estendere i benefici del Soccorso, senza però “condurre a proteggere vite disoneste, e questa severità di regolamento non potrà da nessuno esserci imputata come ingiustizia o intolleranza”.

E’ gravosa per loro riscossione delle quote perché tanti sono i ritardi o le inadempienze, e la Società dovrà spesso disattendere il regolamento, concedendo facilitazioni ed amnistie (un solo caso di espulsione per morosità è registrato nell’adunanza del 5/2/1914). Diventa un atto d’abnegazione anche presenziare alle adunanze e fare proselitismo, oltre alla difficoltà di affrontare il problema morale di chi si finga malata per ricevere il sussidio: “L’Associazione femminile di M.S. vi appartiene… voi congiurereste contro la sua vita, e congiurereste contro voi stesse”.(Ad.XV, 10/10/1909).

Il Consiglio Superiore stabilisce di utilizzare la Cassa Patronato per intervenire là dove la Cassa delle Operaie necessiti di un intervento integrativo. S’intravede la possibilità di offrire “una stagione climatica di mare o di montagna, per i bambini delle socie”, nonché il progetto,da valutare occasionalmente, di organizzare “gite e ricreazioni” perché chi lavora abbia qualche giornata di svago. (Più avanti annoteremo che la mete privilegiate saranno i pellegrinaggi al Santuario dell’Acquasanta o alla Madonna delle Rocche).

Una timida apertura alla partecipazione si verifica quando il Consiglio Superiore propone di convocare con maggior frequenza le socie, per “seguire con più competenza l’andamento morale e finanziario della Società” (9 Ottobre 1910,)ed il Consiglio delle Operaie chiede di tenere copia dei resoconti finanziari annuali in apposito registro, per soddisfare le esigenze delle associate.

Sono questi piccoli segni di crescita economica e d’esigenza d’integrazione. Tra le righe dei verbali delle adunanze,nelle frequenti esortazioni alla concordia tra le operaie e verso le patronesse, trapela il fermento dell’insoddisfazione. Del tutto assenti le iniziative rispondenti all’istruzione e alla crescita culturale delle socie, confermando in ciò il prevalere nella Società dell’aspetto religioso e caritativo, arroccato in difesa della tradizione, con rarissime aperture a quanto si muove intorno.

La Società non ha ancora la bandiera, per tutte simbolo di fratellanza e orgoglio d’appartenenza. La proposta viene inoltrata, accettata (Ad. 16/5/1910), e finalmente esaudita, il 12 Ottobre 1913.

La navata centrale della Chiesa Parrocchiale è gremita: le socie, innanzi tutto, con la rappresentanza di altri Sodalizi femminili, le Figlie di Maria, le Donne Cattoliche, le Dame di Carità, patronesse e benefattrici. Celebra la messa Sua Ecc. Rev.ma Mons. E. Mignone fondatore della Società. Madrina Marianna Clavenna ved. Montano, padrino l’On. Deputato Brizzolesi, industriale. La bandiera avvolta nel bianco nastro si scioglie, dopo aver ricevuto il battesimo, al canto vibrante “libera ai venti la nostra bandiera”.

Degli eventi che portano al primo conflitto mondiale, nulla traspare. La vita della Società lascia appena intravedere l’evoluzione di quegli anni e la loro connotazione.

Nell’Adunanza Generale del 9 Nov.1912, il Rev. Sig. Prevosto illustra alle intervenute Lo Statuto e le varie opere di protezione a favore delle giovani operaie. Esse saranno indirizzate, su richiesta alla Presidente del Patronato, a uffici e sindacati “esistenti nelle grandi città” con lettera “raccomandatizia”. E’ un cenno di riconoscimento all’opera delle organizzazioni dei lavoratori che integrano le funzioni delle SMS.

Non manca l’adesione e il sostegno al Patronato Scolastico, promosso dal Comune, con la somma di L.50, ridotte poi a 25 nel 1916, e neppure l’adesione all’appello di protesta contro l’Autonomia Scolastica e contro la legge sulla precedenza del matrimonio civile, “pretesti null’altro ideati per calpestare la nostra religione e reprimere la libertà di coscienza. Sempre animiamoci per combattere i nemici della nostra fede, che vogliono bandire dalle coscienze e dalle Società ogni concordia cristiana (Ad.5/2/1914).

In questo stesso anno la Società riconosce nel 29 Maggio, giorno della SS. Annunziata, la propria festa religiosa da celebrarsi con il pellegrinaggio alla Madonna delle Rocche. Inoltre si propone di costituire una Cassa di Previdenza, progetto reso concreto nel marzo 1916, con un deposito di L.1000 ed un lascito di L.300, rispettivamente dalla madrina Sig.ra Montano e dalla Sig.ra Moiso.

Gli anni di guerra

L’eco della guerra si coglie in un elogio della donna sulle cui spalle gravano lutti e responsabilità.

“(…) questo anno di pianti molto a tutti ha richiesto e molto chiede a voi, operaie nostre buone”. Le operaie hanno rinunciato alla somma elargita dalla Cassa Patronato per la gita annuale, a favore del Comitato di Organizzazione Civile. Sembrano piccole cose che si dotano di significato nella ristretta quotidianità di quel mondo.

A Ovada sono presenti 2.500 soldati “per istruzioni di guerra” (Ad. 26/3/1916), ai quali s’intende donare un ricordo della loro permanenza in città. Si prelevano L.25 dalla Cassa. Alcune operaie si sono ferite nel lavoro prestato negli opifici, ma non è specificato se si tratti di manodopera femminile impiegata al posto degli operai inviati al fronte.

Largo spazio si dedica alla scomparsa della madrina della Società, Marianna Clavenna Montano. La memoria della pia Signora, “resterà sacra per la gratitudine del beneficio ricevuto e per la venerazione che come aureola si leva ad incoronare delle virtù che tanto più furono elette quanto più elevate nella modestia di un grande censo”.

Non vi sono altre notizie rilevanti, ma è probabile che parte della documentazione sia andata smarrita.

I verbali sono brevi e talvolta riassuntivi di più adunanze che trattano quasi esclusivamente dei rendiconti finanziari della Società.

Il dopoguerra

Il cambiamento in atto nella società italiana dovrebbe aver influenzato l’altra Società di cui trattiamo. Il sospetto che giungessero all’interno differenti istanze e contrapposizioni, non certo rispondenti allo stile dei verbali, dovrebbe avere elementi di verità. La scorgiamo in un’esortazione alla decenza nel vestire, anche nel rispetto del nobile e religioso carattere della bandiera, rivolta dal Rev. Sig. Prevosto (18/1/1920).

“Si porta in discussione il deplorevole e indecoroso agire delle nostre socie negli interventi di rappresentanza della nostra Società”. Le socie “intervengano decentemente vestite ed animate al vero spirito di dovere”. Più oltre si legge che negli anni calamitosi e disastrosi, oppressi dagli avvenimenti, altre ragioni hanno obbligato la Società a limitarne le esigenze, pur rimanendo mai inoperosa Infatti sono aumentate le socie e le benefattrici per l’instancabile attività di consigliere e patronesse: ciò consente di promuovere l’istituzione di una Cooperativa per contrastare il caro viveri.

“Il movimento incosciente e spensierato delle classi operaie” spinge il Consiglio a disporre una serie di conferenze, in accordo con altre associazioni cattoliche. Le operaie, si legge, intervengono numerose, ma la parola luminosa, intelligente e saggia, pare non abbia sortito gli effetti desiderati. In molte sembra attecchire un altro seme: le socie sono minacciate “dalle lusinghe eversive di chi non mira che a finalità materiali calpestando ogni idealità morale e religiosa”.

Si devono tener saldi i principi cristiani. L’avanzata socialista e l’acceso confronto politico sono una minaccia alla tradizionale figura della donna: le operaie devono adoperarsi “per il trionfo di quei medesimi principi santi che furono l’onore e il decoro delle generazioni antiche”.

Il verbale riassuntivo dell’attività svolta nel 1920, reca notizia d’un fatto interessante che cinquant’anni più tardi appassionerà ancora una volta la società italiana, divisa tra laici e cattolici: “In ottobre fu notevole la partecipazione alla propaganda contro la legge del divorzio aderendo con molte firme alla protesta delle U.D.C.I.” (19/2/1921).

Da questo verbale in poi s’intuisce l’assenza di un dibattito che esuli dai resoconti amministrativi. L’interesse è rivolto alle convenienze di carattere economico e assistenziale per le socie: se e come aderire alla Cassa di Previdenza Sociale, se e come sostenere chi, confluendo nella pubblica Istituzione, deve versare i contributi allo Stato, o versare le eccedenze nella Cassa di Previdenza istituita dalla Società nel 1916.

La Società aderisce, nel 1928, all’Istituto Cattolico per l’Assistenza Sociale, presso la Giunta Centrale dell’Associazione Cattolica, che rappresenta tutte le Società cattoliche presso il Governo.

Corsi e ricorsi storici: sappiamo del fallimento della Banca S. Lorenzo di Genova che coinvolge la Società con la perdita di una cartella di L.3.000 (22/10/1932).

La Società sarà sciolta, come si evince dalla Circolare prefettizia n.23031-24/9/1939,cui fa riferimento la lettera inviata alla Presidente dal Podestà di Ovada. Il verbale ne dà laconica notizia:

“(…) per ottemperare all’ordine ricevuto, chiudiamo ogni attività, tanto per amministrazione, quanto per adunanze e relativi verbali”.

Ovada,15 Ottobre 1939

La Presidente La segretaria

Pastorino Chiara ved. Ivaldi* Maria Mongiardini

Solo pochi mesi prima (Ad.22/5/1939), Sua Ecc. Mons. Beccaro aveva ricordato con gratitudine i suoi predecessori (Mons. Mignone il fondatore e Don Luigi Leoncini, il successore) e, nell’accomiatarsi, aveva rivolto alle patronesse e alle socie un encomio per il bene compiuto, esortandole a “continuare, mai stancarsi e fare sempre più e sempre meglio”. Riferendo poi di un incontro avuto con Mons. Mignone, cui ancora stavano a cuore le sorti della “sua” Società, era stato felice di dirgli che Essa “vive e fa tanto bene”.

Tutto sembrerebbe concludersi eppure, consultando il Registro di Cassa, osserviamo che i resoconti annuali proseguono fino all’anno 1947, mentre il Registro delle entrate e uscite si chiude nel 1944. L’ultimo resoconto (9/11/1947), Presidente Pastorino Chiara ved. Ivaldi,recita così nella premessa:

“La Società per mancanza di personale che volessero occuparsene dopo la morte della povera e buona Sig.ra Pernigotti Anna siamo costretti a sciogliere la Società. Interpellato il Sig. Prevosto si è venuto nella determinazione di dare ad ogni Socia lire cento che ancora rimangono di fondi. Le Socie iscritte sono circa 80, 2 defunte”.

La “Società di Patronato e di Mutuo Soccorso per le Giovani Operaie” non è citata nel Censimento storico sulle SMS pubblicato dalla Regione Piemonte, Cent’anni di Solidarietà,(Bianca Gera-Diego Robotti, 1989).

Il merito del ritrovamento della documentazione relativa ad un Sodalizio così a lungo operante nella comunità ovadese, va all’Accademia Urbense.

*Il nome della Presidente risulta talvolta essere Chiara (come nel Registro di Cassa 1927-1947 o nella comunicazione inviatale dal Podestà di Ovada) altre Nina, come negli articoli di giornale o in calce al libretto di Maria Malaspina. Riteniamo trattarsi della stessa persona.

Marina Elettra Maranetto

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