2018 E. Parsi, Titanic. Il naufragio dell’ordine liberale, il Mulino, Bologna 2018.
Abstract. La metafora del naufragio del Titanic scelta da Vittorio Emanuele Parsi quale titolo del suo libro sottende il convincimento che il vascello sul quale l’ordine internazionale liberale dell’Occidente si era imbarcato dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fosse inaffondabile. Ma quel vascello, è la tesi di Parsi, è stato ‘portato fuori rotta’, per di più su una rotta ‘diversa e molto più pericolosa’, sulla quale incombono quattro facce di un iceberg in grado di affondarlo. Questa tesi è suggestiva e lascia intendere che l’ordine liberista nel quale l’ordine internazionale liberale si è trasformato, porterà all’affondamento del vascello. La tesi che qui si sostiene, e che seppure in un’ottica prettamente economica va nella stessa direzione, parte dal presupposto che l’ordine internazionale liberale uscito dalla Conferenza di Bretton Woods del 1944, che pure ha garantito il ventennale periodo di prosperità della Golden Age dello sviluppo economico del dopoguerra, era in realtà già minato. L’esito di quella Conferenza, infatti, ha privilegiato il progetto presentato dal delegato USA Harry Dexter White, incentrato sulla logica della supremazia degli Stati Uniti, a scapito del progetto antagonista del delegato inglese John Maynard Keynes, imperniato in un’ottica di cooperazione tra pari. Uno sguardo alle tendenze economiche in atto dagli anni ’90 del secolo scorso, e ad alcuni importanti cambiamenti che sovrastano la competenza degli stati-nazione, lasciano intendere che, in assenza di nuove regole per l’economia sulla falsariga del Piano elaborato da J.M. Keynes nel 1941 “per la libertà del commercio e il disarmo finanziario” (sulla base del quale indire una Nuova Bretton Woods), l’Occidente si stia avviando verso un rapido quanto inevitabile declino.
“Supporre che esista un meccanismo d’aggiustamento automatico perfettamente oleato, capace di preservare l’equilibrio se solo confidiamo nei metodi del laissez-faire, è un’illusione dottrinaria che ignora le lezioni dell’esperienza storica senza poggiare su una solida teoria”.
J.M. Keynes, Il sistema monetario del dopoguerra, 8 settembre 1941, in J.M. Keynes, Moneta Internazionale. Un piano per la libertà del commercio e il disarmo finanziario, il Saggiatore, Milano, 2016
“(…) non è possibile in alcun modo ritenere che lo sviluppo economico sia un processo «naturale», che interviene a prescindere dal funzionamento di meccanismi fatti funzionare intenzionalmente.”
L. Boggio, G. Seravalli, Lo sviluppo economico. Fatti, teorie, politiche, il Mulino, Bologna 2003 (corsivo mio)
Chiarita fin dalle prime pagine dell’Introduzione, la tesi del libro di Vittorio Emanuele Parsi è che “a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, l’ordine internazionale liberale sia stato progressivamente sostituito dall’ordine globale neoliberale e il vascello sul quale l’Occidente si era imbarcato dopo la fine della seconda guerra mondiale sia stato portato fuori rotta”. Una rotta “diversa e molto più pericolosa”, sulla quale “si staglia, minaccioso, un iceberg, le cui quattro facce sono tutte in grado di affondare il nostro Titanic”. Tutte ben documentate in ognuno dei quattro capitoli in cui si articola la seconda parte del libro, le quattro facce dell’iceberg in grado di affondare il vascello sul quale l’Occidente si è imbarcato riguardano rispettivamente: i) Il declino della leadership americana e l’emergere delle potenze autoritarie russa e cinese; ii) il terrorismo, la polverizzazione della minaccia e il disastro mediterraneo; iii) La deriva degli Stati Uniti da Obama a Trump: da egemone riluttante a potenza revisionista; iv) La scomparsa del popolo: l’Occidente stretto tra il populismo identitario e sovranista e l’oligarchia apolide e tecnocratica. A corredo di ognuna di queste quattro facce dell’iceberg in grado di affondare il Titanic, l’Autore riporta un’ampia messe di fatti, circostanze e citazioni, attingendo ad un’estesa fonte di riferimenti bibliografici.
La metafora del naufragio del Titanic si fonda sul convincimento che “l’insieme di principi e istituzioni attraverso le quali il sistema internazionale è stato governato a partire dal secondo dopoguerra”, un sistema imperniato “sulla leadership degli Stati Uniti”, che ha garantito un lungo periodo di prosperità economica e di sicurezza politica, fosse inaffondabile. Al tempo stesso questa metafora lascia trasparire (pur non essendo questa l’opinione dell’Autore) il messaggio pessimistico che, alla fine, il naufragio ci sarà.
Prima ancora di argomentare alcune riflessioni di carattere economico che parrebbero convalidare tale convincimento, sarei tentato fin da ora di condividere la tesi che traspare dal libro di Parsi, se non avessi sott’occhio le conclusioni degli estensori del recentissimo World Inequality Report 2018, tra i quali spicca il nome dell’economista francese Thomas Piketty, più volte citato nel libro. «Le istituzioni e i legislatori – scrivono gli estensori del Rapporto – hanno un’alternativa: possono decidere di domare le forze della globalizzazione e dell’innovazione che provocano l’aumento delle disparità o scatenarle con rinnovato vigore, come fa la riforma fiscale statunitense (…) Le scelte politiche sbagliate possono influire negativamente sulla vita di milioni di persone. Ma i governi hanno ancora il potere di rimediare ai danni fatti».[1] Una conclusione che lascerebbe un piccolo margine alla speranza al fatto che il riscatto della politica e il ripristino della sua supremazia sull’economia possano riuscire ad evitare il naufragio dell’ordine internazionale liberale. O quanto meno a contrastare ancora per qualche tempo quello che sembrerebbe emergere dall’analisi delle tendenze di fondo di alcuni importanti fenomeni che esulano dalle competenze di singoli Stati nazionali, ovvero “il declino dell’Occidente”.
Definito come “l’insieme di principi e istituzioni attraverso i quali il sistema internazionale è stato governato a partire dal secondo dopoguerra”, ed avendo in mente due tipi di preoccupazioni – quella di “ricostruire una struttura istituzionale a vocazione universale” e quella di evitare la riproposizione “del medesimo schema che negli anni Trenta aveva portato alla formazione di blocchi economici chiusi e al più draconiano protezionismo commerciale” –, Vittorio Emanuele Parsi riconduce l’ideazione dell’ordine internazionale liberale al momento in cui il presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt e il Premier britannico Winston Churchill iniziarono a delineare i tratti di quel sistema “che avrebbe dovuto rimpiazzare quello che era stato spazzato via dal conflitto allora in corso”.
A mio avviso occorrerebbe tuttavia prioritariamente chiarire come quel sistema di istituzioni e di regole per la convertibilità tra le monete con il dollaro (ancorato all’oro), eretto a perno del sistema internazionale dei cambi fissi (ma aggiustabili) uscito dalla Conferenza di Bretton Woods del luglio 1944, più che il progetto presentato dal delegato inglese John Maynard Keynes, riflettesse quello del suo antagonista, il delegato USA Harry Dexter White. Va dato atto che il Piano ideato da Keynes già nel settembre del 1941 per la creazione di una “Unione monetaria internazionale” [2], in piena coerenza con la sua filosofia veramente liberale, si fondava su un contesto di «cooperazione internazionale tra pari». Per contro, quello di White era imperniato sull’idea di una «supremazia (economica e militare) degli Stati Uniti», un’idea i cui limiti sarebbero esplosi con la sospensione della convertibilità del dollaro in oro in seguito alla dichiarazione del Presidente Nixon del 15 agosto 1971. Carabelli e Cedrini, nella loro ricostruzione degli avvenimenti di quella Conferenza, scrivono infatti che “è ragionevole ritenere che alcuni elementi costitutivi di quell’ordine stesso potessero facilmente divenire, col tempo, le cause della sua distruzione”.[3]
Con quella dichiarazione il Presidente Nixon darà vita a quel «sistema dei cambi fluttuanti» temuto ed avversato dai Paesi dell’allora Comunità Economica Europea (CEE). Tant’è vero che già sul finire degli anni ‘60 i Capi di Stato e di Governo dei Paesi della CEE diedero vita ad una Commissione, presieduta dal primo ministro del Lussemburgo Pierre Werner, incaricata di elaborare un Piano per la fissazione irrevocabile dei tassi di cambio e al tempo stesso promuovere lo stretto coordinamento delle politiche monetarie. Presentato al summit della CEE dell’ottobre 1970, il Piano Werner, che prospettava la realizzazione di un programma di Unione in 3 stadi non verrà poi realizzato. Diciassette anni dopo, e in seguito alla fallimentare esperienza dell’Accordo Monetario del 1972, il «Serpente monetario europeo», con il quale si è cercato di limitare le oscillazioni dei tassi di cambio all’interno di una fascia di oscillazione, nel 1998 venne approvato il Piano del Comitato Delors, ritagliato sostanzialmente sulle stesse linee di quello di Werner, che avrebbe portato alla creazione dell’Unione Europea e della moneta unica, intesa quale sistema di cambi irrevocabilmente fissi.
Dalla recente ricostruzione delle vicende legate alla Conferenza di Bretton Woods[4], si evince chiaramente come Keynes fosse stato “profeta inascoltato non solo dopo la Prima guerra mondiale, ma anche dopo la Seconda”, dal momento che oggi siano ancora pochi coloro disposti a riconoscere che l’esito di quella Conferenza si sia risolto in realtà nella «saga del disordine internazionale post-Bretton Woods». Già provato nel fisico e a soli due mesi di distanza dalla sua prematura scomparsa, nel corso dell’ultima e deludente trattativa condotta con gli Stati Uniti, Keynes riceverà infatti il “colpo letale (della) delusione nel vedere il suo progetto stravolto e tradito: il sistema approvato alla conferenza di Bretton Woods, come Keynes intuì, avrebbe solo perpetuato quegli squilibri che nei trent’anni precedenti avevano consegnato il mondo alla depressione economica e alla guerra”.[5] Colpito da un secondo infarto, egli morirà nella sua casa nel Sussex la domenica di Pasqua del 21 aprile 1946 all’età di sessantatré anni.
Alla fine delle tre settimane di discussione tra i 730 delegati in rappresentanza delle 44 nazioni alleate che parteciparono alla Conferenza di Bretton Woods, delle originarie proposte presentate da Keynes ─ che prevedevano un sistema di parità fisse, ma aggiustabili tra le monete, una banca mondiale in grado di emettere una moneta unica per la regolamentazione degli scambi internazionali (il «bancor»), e un fondo internazionale di stabilizzazione, in grado di operare come una sorta di “camera di compensazione internazionale”, avente il compito di compensare i vantaggi e gli svantaggi del sistema di parità fisse ─, non rimasero che le due istituzioni, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, prive peraltro delle funzioni che Keynes aveva loro assegnato nel suo “piano per la libertà del commercio e il disarmo finanziario”.
Tornando alla metafora del naufragio l’ordine internazionale liberale evocata nel libro di Vittorio Emanuele Parsi, vorrei richiamare l’attenzione sulle tendenze di fondo di alcuni fenomeni che esulano dalle competenze di singoli Stati nazionali e che, se non controllati, faranno sentire i loro effetti nell’arco dei prossimi anni. Fenomeni e tendenze che, se non opportunamente contrastati a livello internazionale, mi inducono a propendere per la tesi che sia in atto il “declino economico dell’Occidente”.
Povertà e migrazioni. Premesso che la povertà può assumere significati alquanto diversi[6], avendo riguardo alla sola prospettiva del reddito, dall’inizio del nuovo secolo e tranne che nell’Africa Sub-Sahariana, la povertà estrema (quella di coloro che vivono con meno di due dollari al giorno) è diminuita da un miliardo e 800 milioni (pari al 35% della popolazione mondiale) del 1990, a poco meno di 800 milioni (pari al 10,7% della popolazione mondiale) nel 2013. Resta il fatto che la popolazione dei circa 500 milioni (dati del 2016) che nell’Africa Sub-Sahariana vive tuttora in condizione di povertà estrema, cresce ad un tasso anno del 2,7%, un tasso che implica il raddoppio del valore iniziale in soli 26 anni. Ora, dal momento che la popolazione di 510 milioni dell’Unione Europea cresce ad un tasso dello 0,3% (che implicherebbe il raddoppio della popolazione in poco meno di due secoli e mezzo), in base a questa tendenza, l’Ufficio statistico della UE ha recentemente stimato che nel 2060 la popolazione europea dovrebbe raggiungere i 523 milioni.[7] Nel frattempo la popolazione dell’Africa Sub-Sahariana avrà superato il miliardo e 400 milioni (pari a tre volte la popolazione della UE). Ora, a meno che, con un Piano Marshall per l’Africa (ovviamente gestito a livello sovrannazionale) non si riescano a creare le condizioni affinché la popolazione dell’Africa Sub-Sahariana possa uscire dalla sua condizione di povertà estrema, lascio al lettore di immaginare l’impatto sui fenomeni migratori che una simile tendenza demografica potrebbe comportare.
Il declino dei Big Ten e la crescita degli Emergin Seven. Se in base ai dati messi a disposizione dalla Banca Mondiale si guarda all’evoluzione demografica ed economica dell’ultimo mezzo secolo si può osservare che sia l’evoluzione demografica che la crescita economica a livello globale hanno fatto registrare un progressivo rallentamento. Esso, tuttavia, non ha riguardato nell’identica maniera i singoli Paesi e le aree economiche. Dai dati sulla potenza demografica, si evince come la Cina e l’India rappresentino poco meno del 40% dell’intera popolazione mondiale e la crescita della loro popolazione stia decelerando. L’Unione europea e l’Eurozona sono rispettivamente la terza e la quarta potenza demografica a livello mondiale (superiore a quella degli Stati Uniti), ma il loro tasso di crescita della popolazione (0,3%), rimasto praticamente stazionario dagli anni ’90, è la metà di quello degli USA (0,7%) e superiore solo a quello del Giappone (0,1%) e della Federazione Russa (0,0%). Dai dati sulla potenza economica (misurata dalla percentuale sul PIL globale) emergono le seguenti tendenze: i) gli Stati Uniti, benché la loro potenza economica sia declinante (essa è progressivamente scesa dal 34,2% del 1960 al 22,5% nel 2016), rimangono la prima potenza economica a livello mondiale; ii) anche la potenza economica dell’Unione Europea è declinante (essendo scesa dal 27,9% del 1990 al 22,0% del 2016), come pure quella dei paesi dell’Eurozona (scesa dal 20,8% del 1990 al 16,9% nel 2016); iii) negli ultimi vent’anni la potenza economica della Cina, scesa nel decennio 1980-90 alla decima posizione nella graduatoria dei Big Ten, è rapidamente risalita fino ad occupare la seconda posizione dopo gli Stati Uniti, e in base ai tassi di crescita attuali, in soli sette anni raggiungerebbe la potenza economica degli USA; iv) l’India, sempre ai tassi di crescita attuali (8,0%), in poco più di un decennio raggiungerebbe la potenza economica dell’Eurozona, la quale, dall’inizio del nuovo Millennio, è cresciuta a tassi sensibilmente inferiori a quelli della UE (e l’Italia, terza potenza economica e demografica dell’Unione, ha fatto registrare il più basso tasso di crescita in assoluto); v) a partire dai primi anni ‘90 del secolo scorso, infine, le economie dei paesi emergenti ─ che comprendono i cosiddetti BRIC e alcuni altri paesi a rapida crescita come l’Indonesia, la Turchia e il Sud Africa ─, sono cresciute a ritmi molto più elevati rispetto a quelle dei paesi occidentali. Stando a queste tendenze, è difficile negare che l’Occidente stia attraversando una fase di declino economico.
Il Washington Consensus e la globalizzazione. Come giustamente ha messo in evidenza Vittorio Emanuele Parsi, l’ordine internazionale liberale emerso dagli Accordi di Bretton Woods del luglio 1944, pur con i limiti di cui si è detto ha garantito un ventennio di crescita economica passato alla storia come “L’età d’oro dello sviluppo economico”. E tuttavia, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario ─ le due Istituzioni alle quali Keynes, assieme all’idea abortita di una Camera di compensazione degli squilibri internazionali negli scambi commerciali (la International Clearing Union) aveva assegnato il compito di gestire l’ordine internazionale liberale ─, private dello scopo per le quali erano state pensate si sono dovute inventare un nuovo ruolo. Alla Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (BIRS) ─ in seguito divenuta Banca Mondiale ─, sotto la presidenza di Hollis Chenery (1918-1994), insigne studioso dei problemi dello sviluppo economico, è stato assegnato prioritariamente il compito di favorire la ricostruzione delle nazioni devastate dalla Seconda guerra mondiale, assieme all’aiuto allo sviluppo delle economie sottosviluppate e allo studio della povertà.[8] Il Fondo Monetario Internazionale, invece si è ritagliato prevalentemente il compito di “promuovere la coerenza tra le politiche economiche dei paesi membri e la stabilità del sistema monetario e finanziario internazionale”.[9] Nei primi anni Ottanta, in seguito all’avvento del pensiero unico neo-liberista di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, è però avvenuto un nuovo cambiamento alla guida delle due Istituzioni. Cambiamento che, nel decennio successivo, dopo la creazione dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) nel 1995, porterà all’istaurazione del “paradigma del Washington Consensus”.[10] Tra i primi a segnalare il ruolo del Washington Consensus, gli effetti e le negative ripercussioni della globalizzazione non controllata è il Premio Nobel Joseph Stiglitz.[11] Nel suo atto di accusa, a proposito dei profondi cambiamenti intervenuti nel Fondo Monetario Internazionale, Stiglitz scrive che: “Keynes si rivolterebbe nella tomba se vedesse che ne è stato della sua creatura. (p. 11)”. Oltre a ciò, con l’ideazione dei “dieci comandamenti” che sorreggerebbero la filosofia del Washington Consensus[12], la globalizzazione, quel fenomeno nel quale la “sola libertà ammessa è quella delle forze di mercato”, ha finito per rappresentare “l’interesse generale del Consensus”. Progressivamente trasformata “nel fine ultimo della convivenza internazionale”, la globalizzazione è divenuta l’ideologia che prescrive la “realizzazione di un mondo nel quale ai beni e ai capitali (sia) garantita pienamente la libertà di circolazione”.[13] Se è vero, come scrive Stiglitz a conclusione del suo libro, che la “globalizzazione ha aiutato centinaia di milioni di persone a migliorare le loro condizioni di vita” è altrettanto vero che molti “hanno visto peggiorare le loro condizioni di vita, hanno perso il lavoro e, con esso, ogni sicurezza. Si sono sentiti sempre più impotenti di fronte a forze totalmente al di fuori del loro controllo. Hanno visto mettere in pericolo le loro democrazie ed erodere le loro culture. (…) Senza riforme (enunciate da Stiglitz nell’ultimo capitolo), la reazione violenta che è già cominciata si farà ancora più aspra e il malcontento nei confronti della globalizzazione non potrà che crescere”.[14]
Disuguaglianze crescenti. Dal citato World Inequality Report 2018[15] emergono le seguenti tendenze: i) in Europa, grazie al Welfare, la percentuale del reddito nazionale percepita dal 10% della popolazione nel 2016 è inferiore rispetto a quella di tutte le altre aree a livello mondiale; ii) dalla seconda metà del ‘900 il reddito medio della popolazione dell’Africa e dell’America Latina ha subito una forte diminuzione rispetto al reddito medio globale; iii) in Asia e particolarmente in Cina, per contro, dall’inizio del Nuovo Millennio si è verificato un forte aumento del reddito medio; iv) negli Stati Uniti, a partire dal 1995, si è aperta, e progressivamente ampliata, la forbice tra i percettori dell’1% del reddito (i ricchi) e coloro che hanno percepito fino al 50% (le classi di reddito medio basse).[16] Vittorio Emanuele Parsi riconduce giustamente l’origine delle forti disuguaglianze nella distribuzione del reddito a livello mondiale alla politica della “deregulation”. Iniziata nella prima metà degli anni ’80 da Ronald Reagan e Margareth Thatcher, con l’abrogazione dal Congresso degli Stati Uniti della legge bancaria introdotta nel 1933 per contrastare la speculazione finanziaria (all’origine della Grande Crisi) quella stessa politica è stata estesa negli anni ’90 da Bill Clinton ai mercati finanziari. Le conseguenze non secondarie della filosofia liberista del «libero mercato» sono alla base sia della recente crisi finanziaria statunitense del 2008 propagatasi rapidamente all’economia reale del mondo intero, sia delle enormi disuguaglianze nella distribuzione del reddito e della ricchezza ad esclusivo vantaggio dell’1% della popolazione mondiale.[17]
Le innovazioni tecnologiche. Gli enormi cambiamenti indotti dalla «Rivoluzione digitale», i cui effetti sull’attività produttiva hanno dato vita all’«Industria 4.0» e all’“Economia della condivisione», stanno provocando profonde ripercussioni politiche e sociali e occupazionali, che si sommano a quelle imputabili alla globalizzazione non controllata. L’espressione «Industria 4.0», nasce alla Fiera di Hannover in Germania nel 2011. Essa sta a significare che è in atto, nel modo di produrre le merci, la quarta rivoluzione dovuta all’introduzione del sistema fisico cibernetico.[18] Recenti studi, come quello della McKinsey sulla “forza globale che trasformerà le economie e la forza lavoro”[19] citato da Parsi, prefigurano tendenze occupazionali nell’industria simili a quelle indotte dalla “de-agriculturizzazione”, a seguito della quale il numero degli addetti nel settore agricolo è crollato dal 40% del 1900 al 2% attuale. L’ultima grande innovazione tecnologica, infine, è quella della «smaterializzazione della produzione»: fenomeni come Airbnb, Amazon, AOL, Uber, mostrano come i servizi in rete, e più in generale, l’«economia della condivisione», abbiano reso superflua la proprietà materiale dei beni. I Big dell’hi-tech non possiedono beni, ma solo algoritmi e software e le loro aziende valgono in borsa più di quelle proprietarie dei beni che forniscono servizi analoghi.[20] Trasformazioni come queste procurano indubbiamente vantaggi sia per l’industria che per i consumatori, ma comportano al tempo stesso elevatissimi costi sociali. Al pari della globalizzazione e della finanziarizzazione dell’economia, tali trasformazioni provocano enormi disuguaglianze sociali e la «disoccupazione tecnologica», quella «nuova malattia» già preconizzata da J.M. Keynes nel 1931.[21] Senza parlare dei rischi impliciti nell’uso dell’«intelligenza artificiale» e la possibile manipolazione dei «Big Data» da parte di imprese senza scrupoli (pericoli ampiamente documentati dalla cronaca di questi ultimi giorni).
I cambiamenti climatici, l’esaurimento delle risorse e la siccità. L’ultimo gruppo di fenomeni, che richiamano in primo luogo la responsabilità dell’Occidente, riguardano, in generale, la compatibilità dello sviluppo economico con le condizioni ambientali. Questo tema è stato sollevato per la prima volta nel 1972 dal Rapporto del System Dynamic Group dell’MIT di Boston, divenuto noto come «Rapporto del Club di Roma», con il titolo «I limiti dello sviluppo». In quel Rapporto si metteva in luce il fatto che tra gli elementi necessari a sostenere la crescita della popolazione e lo sviluppo economico del mondo figurano in primo luogo i cosiddetti «fattori materiali»: «alimenti, materie prime, combustibili fossili e nucleari», dei quali si riteneva «opportuno fare una stima, giacché in definitiva è proprio la disponibilità di terra coltivabile, di acqua, di metalli, di foreste, a condizionare ogni possibile tipo di sviluppo futuro sulla Terra».[22] Non vi è dubbio che, essendo passato da 1 a 8 miliardi in poco più di due secoli, l’Uomo è il primo inquinante della Terra.
Grazie ai Rapporti dell’Intergovernmental Pannel on Climate Change (IPCC) sullo stato delle ricerche climatiche nel mondo[23], è ormai scientificamente acclarato che le «forzanti antropiche» (ovvero l’azione dell’uomo) siano state responsabili di oltre il 50% dell’aumento di temperatura tra il 1951 e il 2010. In altri termini, per la prima volta nella storia dell’umanità, il genere umano, che ha sempre subito gli effetti del clima, con le sue attività sta influendo su di esso con ripercussioni che potrebbero rivelarsi catastrofiche. L’intreccio dei fattori climatici, sociali, economici e biologici è talmente stretto e complesso da rendere estremamente complicato districare il peso di ciascun fattore. E tuttavia, resta il fatto che il riscaldamento globale non è l’unico fattore che concorre a determinare le condizioni ambientali: l’esaurimento delle risorse[24] e la siccità, quest’ultima strettamente legata ai cambiamenti climatici, sono fattori altrettanto rilevanti, e non solo per il declino dell’Occidente, ma per il futuro dell’umanità intera.
La sottovalutazione dei rischi impliciti nei fenomeni sopracitati e nelle tendenze in atto è dovuta al fatto che si temono maggiormente gli eventi prossimi rispetto a quelli più lontani, per cui nella percezione del rischio e sulle conseguenze del riscaldamento globale e dei mutamenti climatici c’è una sensibilità minore rispetto a pericoli considerati più vicini, come il terrorismo internazionale dello Stato Islamico e la diffusione del virus dell’ebola. In altri termini, interessi economici e politici, dotati di grandi risorse finanziarie e l’accesso ai mezzi di comunicazione, limitano la percezione del rischio, che è il rischio dell’estinzione della specie umana. Come già ebbe a scrivere, nel 1962, il grande storico dei fatti economici Carlo M. Cipolla nel suo impareggiabile “Uomini, tecniche, economie”,[25] “anche se si resiste al pensiero sconfortante che (sia) già troppo tardi, difficilmente si può evitare la sgradevole sensazione che tutto ciò che possiamo prevedere per il prossimo futuro è un peggioramento della situazione generale. Al fine di migliorare i loro miseri livelli di vita, i paesi sottosviluppati e quelli in via di sviluppo devono affrontare la Rivoluzione Industriale. Se non riusciranno a entrare in tale fase, saranno condannati a un’abbietta miseria. Se riusciranno, contribuiranno in misura notevole ad aggravare i problemi dell’inquinamento e dell’impoverimento che stanno affliggendo già oggi il nostro pianeta”. Giungendo a concludere con una sconfortante previsione: “Se l’umanità non farà uno sforzo enorme per auto-educarsi, non si può escludere completamente la possibilità che la Rivoluzione Industriale possa rivelarsi infine una calamità disastrosa per la specie umana”.[26]
Stato, mercato, democrazia e le nuove regole per l’economia. Per concludere, e per tornare al tema sollevato dal libro di Vittorio Emanuele Parsi, non posso fare a meno di accennare al fenomeno dei populismi, ai rischi per la democrazia e alla necessità di nuove regole per l’economia, richiamandomi alle contraddizioni messe in evidenza dal cosiddetto «trilemma di Rodrik».[27] I cultori dell’Economia Internazionale conoscono il cosiddetto “trilemma dell’economia aperta”, formulato da Robert Mundell e Marcus Fleming nell’analisi delle politiche macroeconomiche in un contesto di economia aperta, stando al quale un paese “non può perseguire contemporaneamente politiche monetarie indipendenti, tassi di cambio fissi e libertà di movimento dei capitali”. [28] Il “trilemma politico dell’economia mondiale” di Rodrik, che sotto certi aspetti è un’estensione del “trilemma dell’economia aperta” di Mundell-Fleming, riguarda il fatto che non si possono avere contemporaneamente: l’integrazione economica internazionale; gli stati-nazione, vale a dire entità territoriali giurisdizionali dotate di poteri indipendenti legislativi e amministrativi; e un sistema politico “mass politics”, senza restrizioni nei diritti, con un elevato grado di partecipazione politica e con istituzioni in grado di mobilitare gruppi di interesse politico. “L’affermazione implicita, come nel trilemma standard – scrive Rodrik -, è che non possiamo avere più di due di queste tre cose”. Se la scelta prioritaria è in favore di una reale integrazione economica internazionale, occorrerà superare gli stati-nazione in favore di un federalismo globale (cosa che implica una restrizione delle sovranità nazionali). Se si vogliono mantenere gli stati-nazione, occorrerà scegliere tra un sistema politico “mass politics” e l’integrazione economica internazionale. Infine, se vuole perseguire il mantenimento di un sistema politico “mass politics”, la scelta non potrà che essere tra il mantenimento degli stati-nazione e l’integrazione economica internazionale (come nel caso del compromesso raggiunto con gli Accordi di Bretton Wood).[29]
Il “trilemma” di Rodrik è un chiaro riferimento al capitolo conclusivo del libro di Vittorio Emanuele Parsi, laddove egli si pone il quesito se l’Europa si salverà. Se non vado errato, la risposta che egli si dà è contenuta tutta nella seguente affermazione: “Il futuro dell’Unione Europea (…) dipende in gran parte dall’atteggiamento con cui sapremo e vorremo porci la sfida di una ri-articolazione nei suoi rapporti con gli Stati membri che non ne mortifichi le necessarie sovranità, ma che si ponga piuttosto il problema di armonizzare la pluralità e di renderne compatibili gli obiettivi. E che preveda un sempre più improcrastinabile riequilibrio tra la dimensione sociale e quella economica e finanziaria dell’Unione. Per quanto possa apparire un compito arduo, non esistono scorciatoie o alternative perché, giova ribadirlo, solo accettando di ripartire dalla sovranità sarà possibile garantire un futuro tanto alla democrazia politica quanto all’economia di mercato”.
La risposta di Parsi al suo quesito mi pare perfettamente coerente con l’affermazione di Rodrik quando sostiene che “In un modello di federalismo globale, il mondo intero – o almeno le parti economicamente più rilevanti –, dovrebbe essere organizzato in maniera analoga al sistema degli U.S. I governi Nazionali non necessariamente debbono sparire, ma i loro poteri dovrebbero essere circoscritti in maniera severa da una legislazione sovrannazionale, un potere esecutivo e una autorità giudiziaria. Un governo mondiale dovrebbe sovrintendere il mercato globale.” In estrema sintesi, quindi, entrambi pensano al passaggio dall’Unione Europea agli Stati Uniti d’Europa, contestualmente all’adozione di quelle “nuove regole dell’economia” ipotizzate dal Premio Nobel Joseph Stiglitz. “Non sarà facile – egli scrive – cambiare rotta nell’attuale contesto, ma possiamo decidere di riscrivere le regole che strutturano il nostro sistema economico. (…) Partendo dal lascito innovativo del New Deal, dobbiamo frenare la crescita dell’1 per cento più ricco della popolazione e stabilire regole e istituzioni che garantiscano sicurezza e opportunità alla classe media”.[30]
Non vorrei mai che, con il probabile affondamento del Titanic, in assenza di «nuove regole» ed il fallimento del progetto politico degli Stati Uniti d’Europa, John Maynard Keynes diventasse un “profeta inascoltato”, non solo dopo la Prima e la Seconda guerra mondiale, ma anche dopo la Terza.
Alessandria, 9 aprile 2018
[1] Elaborato da venti ricercatori del World Inequality Lab, e pubblicato il 14 dicembre 2017, il World Inequality Report 2018, vanta nel Comitato esecutivo cinque economisti di due prestigiose Universtità: Facundo Alvaredo, Lucas Chancel e Thomas Piketty della Paris School of Economics and Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales and Sciences Po, ed Emmanuel Saez e Gabriel Zucman, della University of California at Berkeley.
[2] Si veda “Il sistema monetario internazionale”, in J. M. Keynes, Moneta internazionale. Un piano per la libertà del commercio e il disarmo finanziario, il Saggiatore, Milano 2016, pp. 55-70.
[3] A. Carabelli, M. Cedrini, Secondo Keynes. Il disordine del neoliberismo e le speranze di una nuova Bretton Woods, Castelvecchi, Roma 2014, p. 7.
[4] A. Carabelli, M. Cedrini (2014), citato e B. Steil, La battaglia di Bretton Woods, Donzelli Editore, Roma 2015.
[5] L. Fantacci, Introduzione a J.M. Keynes (2016), cit., p. 9.
[6] Così la Banca Mondiale, nei suoi Rapporti sulla Povertà, fa distinzione tra i concetti di povertà assoluta, che fa riferimento ad uno standard di fabbisogno minimo, che definisce la «soglia di povertà», fissata in 3,10$ al giorno, che scende a 1,90$ al giorno nella definizione della «povertà estrema», a quello di povertà relativa, che indica una posizione di svantaggio rispetto a coloro che appartengono al gruppo di persone con il reddito più basso, alla povertà di genere, che attiene alla condizione femminile, ossia al fatto che le donne siano o meno escluse dalla partecipazione attiva alla vita politica e sociale, alla cosiddetta povertà umana, che riguarda l’ampiezza delle alternative di cui un individuo dispone congiuntamente alla minore o maggiore libertà di scegliere l’alternativa che preferisce.
[7] Fonte: The EU in the World 2016 Edition, p. 22.
[8] A. Magnoli Bocchi, M. Piazza, La Banca Mondiale, il Mulino, Bologna 2007.
[9] G. Schlitzer, Il Fondo Monetario Internazionale, il Mulino, Bologna 2000.
[10] A. Carabelli, M. Cedrini (2014), citato, p. 28.
[11] J. Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, Torino 2002. Sul rifacimento della governance del capitalismo globale dopo il Washington Consensus si veda anche l’interessante lavoro di E. Sheppard e H. Leitner (2010), Quo vadis neoliberalism? The remaking of global capitalistic governance after the Washington Consensus, Geoforum, disponibile in pdf sul sito www.elsevier.com/locate/geoforum.
[12] Coniate nel 1990 dall’economista John Williamson e originariamente indirizzate ai paesi dell’America Latina, le dieci direttive alle quali avrebbero dovuto uniformarsi le politiche economiche dei singoli paesi, riguarderebbero: “disciplina fiscale, riordino delle priorità di spesa pubblica, riforma fiscale, liberalizzazione dei tassi d’interesse, tassi di cambio adattati all’esigenza di favorire la competitività internazionale, liberalizzazione del commercio, liberalizzazione degli investimenti diretti esteri, privatizzazione, deregolamentazione, difesa dei diritti di proprietà”, A. Carabelli, M. Cedrini, cit., pag. 28.
[13] A. Carabelli, M. Cedrini, cit., pagine 37 e 43.
[14] J. Stiglitz (2002), cit. pag. 252.
[15] A pagina 61 del libro di Parsi si fa cenno alla famosa “curva dell’elefante” di Milanovic», relativa alle enormi disuguaglianze nella distribuzione del reddito tra il 1980 e il 2016, i cui effetti, sia politici che sociali, hanno giocato un ruolo significativo nell’esito del referendum sulla Brexit, come nelle elezioni che hanno portato alla elezione di Trump alla presidenza degli Stati Uniti.
[16] Fonte: World Inequality Report 2018.
[17] Sulla necessità di regolamentare l’economia finanziaria, nonché sulle recenti tendenze in atto sul tema delle disuguaglianze, al fine di favorire la ripresa economica della classe media si veda, del Premio Nobel Joseph Stiglitz, Le nuove regole dell’economia. Sconfiggere la disuguaglianza per tornare a crescere, il Saggiatore, Milano, 2016. “In campo monetario – scrive Luca Fantacci facendo eco alle parole di Keynes – il laissez-faire porta, dunque, a risultati diametralmente opposti a quelli che promette e persegue sul piano dello scambio dei beni: instabilità, squilibrio, contrapposizione d’interessi politici fra i paesi. Un mercato finanziario non è un mercato come gli altri, e tanto meno il più importante ed efficiente, ma è un antagonista del libero commercio dei beni: un anti mercato, secondo l’espressione di Fernand Braudel”. Ibidem. p. 19. Sull’importanza della regolamentazione dei mercati finanziari si veda anche il Capitolo 10, Una finanza per la crescita, del libro di G. Amato e F. Forquet, Lezioni dalla crisi, Laterza, Bari 2013, pp. 93-103.
[18] L’esperto di ‘Internazionalizzazione dei progetti spagnoli’ Francisco Manuel Vargas Jimenez ha visualizzato in una figura divenuta famosa la successione delle quattro Rivoluzioni Industriali dovute: all’introduzione del telaio meccanico nel 1784; della catena di montaggio nel 1870; della macchina a controllo meccanico nel 1969, e infine, del sistema fisico cibernetico nella prima decade del Terzo Millennio. Sviluppata da un gruppo di lavoro promosso da una multinazionale tedesca di ingegneria ed elettronica e dall’Accademia tedesca delle scienze e dell’ingegneria (ACATEC), l’«Industria 4.0» è divenuta uno dei quattro temi principali trattati nel World Economic Forum 2016 di Davos.
[19] Mckinsey Global Institute, A Future that Works: Automation, Employment end Productivity, January 2017.
[20] Per fare qualche esempio, Uber vale più di Hertz, che possiede e affitta migliaia di auto nel mondo e della General Motors che le auto le fabbrica; Facebook di Mark Zuckerberg, vale più di 100 volte il New York Times; Amazon, che distribuisce libri, vale più della catena di grandi Magazzini Wall-Mart; Airbnb vale più del gruppo Hilton che possiede 4500 alberghi in 100 paesi.
[21] J. Maynard Keynes (1930), Possibilità economiche per i nostri nipoti, in Esortazioni e profezie, il Saggiatore, Milano 1968, recentemente ristampato da Adelphi, Milano 2009. “(…) negli ultimi dieci anni – scrive Keynes – i progressi della tecnica per quanto riguarda la manifattura e i trasporti si sono susseguiti a un ritmo fin qui sconosciuto. (…) Al momento la rapidità stessa di questi cambiamenti ci turba, e ci pone problemi di non facile soluzione. Per paradosso, i paesi più attardati sono anche più tranquilli. Noi abbiamo invece contratto un morbo di cui forse il lettore non conosce ancora il nome, ma del quale sentirà molto parlare negli anni a venire – la «disoccupazione tecnologica». Scopriamo sempre nuovi sistemi per risparmiare forza lavoro, e li scopriamo troppo in fretta per riuscire a ricollocare quella forza lavoro altrove”.
[22] D.H. Meadows, D.L. Meadows, J. Randers, W.W. Beherens, I limiti dello sviluppo. Rapporto del System Dynamic Group Massachusetts Institute od Technology (MIT) per il progetto del Club di Roma sui dilemmi dell’umanità, Mondadori, Milano 1972, pag. 74.
[23] Creato nel 1988 dall’Organizzazione Meteorologica Mondiale e dal Programma ambientale delle Nazioni Unite, l’IPCC non è un centro di ricerche, ma ha il compito di raccogliere e valutare le ricerche altrui. Al processo di elaborazione di ciascun Rapporto partecipano circa 2.500 scienziati da tutto il mondo.
[24] Una recentissima ricerca pubblicata sui Proceedings of the National Accademy of Science (PNAS) degli Stati Uniti ha messo in evidenza i rischi di un conflitto per l’appropriazione delle cosiddette “terre rare”, ossia quei 44 minerali utilizzati dalle tecnologie più avanzate (giacenti in gran parte nelle miniere della Cina, dell’Africa e dei Paesi dell’America Latina), sui quali si giocherà nei prossimi anni la sfida geo-tecnologica tra gli USA e la Cina. Cfr. Andrew L. Gulley, Nedal T. Nassar and Sean Xun, China, the United States, and competition for resources that enable emerging technologies disponibile sul sito https://doi.org/10.1073/pnas.1717152115.
[25] C. M. Cipolla, Uomini, tecniche, economie, Feltrinelli, Milano 1966, pagine 125-126. L’edizione originale in lingua inglese, uscita negli Stati Uniti quattro anni prima, portava il titolo, forse più appropriato, di The Economic History of World Population (La storia economica della popolazione mondiale). Mi sia consentito il riferimento al mio contributo “The Economic History of World Population cinquant’anni dopo”, in “Italia, Europa, Mondo. Liber amicorum di Franco Praussello”, a cura di L. Gandullia, D. Preda e G. Varnier, Franco Angeli, Milano 2013, disponibile in pdf a coloro che ne facciano richiesta al mio indirizzo di posta elettronica bruno.soro@unige.it.
[26] Ibidem, p. 135.
[27] Dani Rodrik è professore di Economia politica internazionale alla J.F. Kennedy School of Government dell’Università di Harvard e ricercatore associato presso il National Bureau of Economic Research (NBER) in Cambridge Massachusetts.
[28] D. Rodrik, “How Far Will International Economic Integration Go?”, Journal of Economic Peispectives, Volume 14, Number 1, Winter 2000, Pages 177-186, pag. 180 (traduzione nostra).
[29] D. Rodrik (2000), cit., pagina 180 (traduzione e rielaborazione nostra).
[30] J. Stiglitz, Le nuove regole dell’economia. Sconfiggere la disuguaglianza per tornare a crescere, il Saggiatore, Milano, 2016, pag. 147.
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