Una storia alessandrina (in formato integrale)

 

Più che la mano di Manzoni, come periodo ci siamo in pieno,  si avverte per tutto il breve racconto una certa aria di casa .  Si ritrovano punti conosciuti di Alessandria: l’antico Duomo duecentesco, la via Larga, i negozietti delle strade del ghetto ebraico, la cinta muraria. Il Tanaro. Una storia con un prete faccendiere che, alla fine fa una brutta fine e, di converso una serie di avventure che coinvolgono i due protagonisti (anche se non unici) Maria e Pasquale. Le questioni sono quelle di sempre: il denaro per condurre una vita degna, i problemi legati al matrimonio di Maria, la sua dote, le sue aspettative. Un affresco di un periodo (il Seicento) già ben esplorato dall’autore, costruito in modo piacevole e coinvolgente.

Capitolo I

Pasquale si sveglia, come sempre, all’alba, fa fresco e attraverso le impannate scorge una leggera nebbia: settembre, nonostante il clima, preannuncia l’umidità dell’Autunno e i rigori dell’inverno; si sciacqua il viso, nel bacile accanto alla finestra, si veste in silenzio, per non svegliare la moglie, esce dalla camera da letto e scende in cucina: ardono ancora i carboni della sera precedente; si siede accanto al camino e riflette sul da farsi, ha bisogno di soldi, ma non sa come fare per procurarseli: Sei figli e una moglie non sono uno scherzo, per giunta, la più piccola è a letto con la febbre, sarebbe necessario il dottore, ma come pagarlo?

Quando si alza ed esce di casa, l’uomo è inseguito da brutti pensieri, cammina a passo svelto, dirigendosi verso il Tanaro, al porto fluviale, forse lì riuscirà a rimediare qualche lavoro e quindi qualche soldo per la famiglia.

Mentre cammina è quasi avvolto dalla nebbiolina, sente un certo fastidio: si è adattato al clima, alla lingua al carattere alessandrini, spesso ironico e dissacrante, ai cibi e alle abitudini, così diversi da quelli della sua terra, ma non riesce a sopportare la nebbia, infida e pesante per uno come lui cresciuto all’aria fina delle montagne della foresta umbra.

Eppure il destino lo ha condotto proprio ad Alessandria: si era arruolato per sfuggire alla miseria del suo paese e della sua famiglia, aveva seguito il comandante Racana nelle Fiandre, in Lorena e in Toscana e in uno dei tanti spostamenti si era trovato ad Alessandria.

Quando la vide, la prima volta, gli apparve una città imponente, poderosa, imprendibile, brulicante di mercanti, soldati, contadini, pescatori e prostitute, ovunque, negli spazi erbosi, sui canali che attraversano la città, nelle vie lunghe e strette.

Era stato alloggiato presso una famiglia che avrebbe dovuto fornirgli letto, vitto e legna da ardere. Avrebbe dovuto fermarsi trenta giorni, vi rimase 11 mesi. Conobbe Maria, figlia di Domenico Marchelli, falegname, unica di otto, sopravvissuta alle malattie e alle disgrazie, una giovane schiva e, nello stesso tempo, curiosa di conoscere un soldato del cattolicissimo re di Spagna.

«Non ti avvicinare a lui; i soldati sono brutali!», le ripeteva il padre, timoroso per la sua piccola, ma la curiosità era grande: Maria spiava Pasquale quando si lavava, a torso nudo, quando calzava gli stivali, oppure mentre affilava la spada. Questo soldato, alto, scuro di carnagione, con i capelli lunghi e corvini, lo affascinava, le ricordava paesi lontani e misteriosi.

Pasquale partì, ma tornò dopo tre anni, come presidiario e si presentò di nuovo a casa di Domenico, questa volta come ospite pagante, ma soprattutto desideroso di rivedere Maria.

Un soldato in casa, visto sempre come una iattura, in questo caso fu considerato una benedizione, avrebbe protetto una casa abitata da genitori anziani, avevano ormai superato i cinquanta anni, e da una figlia già in età da marito.

Maria aveva 17 anni, carnagione chiara, capelli biondi ed occhi azzurri; incontrò Pasquale al pozzo di casa, stava sollevando il secchio colmo d’acqua, quando lui l’aiutò, portandoglielo poi fino in cucina.

«Siete diventata una donna.»

Maria non rispose, abbassando gli occhi; Pasquale si allontanò, ma i loro incontri al pozzo divennero frequenti:

Avevano un bel dire papà Domenico e mamma Enrica sui soldati e sulla pericolosità delle loro frequentazioni e che quando se ne sarebbe andato nessuno più l’avrebbe sposata, ma l’amore, si sa, non ha limiti e i due si incontrarono sempre più frequentemente, tanto che il giovane decise di dichiararsi ai genitori di lei.

Domenico avrebbe voluto opporsi, ma capì che sarebbe stato peggio, la loro figliola, in un attimo di passione, sarebbe scappata, seguendo Pasquale chi sa dove, diventandone la concubina, o forse qualcosa di peggio: accettò con rassegnazione.

«Pasquale ti do mia figlia, ma oltre al corredo e dieci scudi non posso darti altro.»

«State tranquillo mastro Domenico penserò io a Maria.»

Pasquale ricorda queste parole e ha un’espressione di stizza, vorrebbe imprecare, ma sta attraversando la piazza Maggiore, in prossimità della cattedrale, maestosa nella nebbiolina settembrina, e si fa il segno della croce. Passa quindi per il corpo di guardia vicino alla chiesa, guarda con malinconia la sentinella un po’ assonnata.

Nel porticato adiacente alcuni mercanti stanno sistemando i banchi per la giornata che inizia.

L’uomo affretta il passo, vuole essere in riva al Tanaro al momento del carico delle merci sulle chiatte, prima però vuole entrare in chiesa, per pregare e riflettere un attimo; lo fa da quando non è più soldato, ma ha sempre rispettato i luoghi sacri, anche quelli dei nemici, tanto da non averne mai saccheggiato alcuno, pur avendone la possibilità, e questo è per lui un titolo d’onore. Si dirige verso il Carmine; entra e va verso la cappella di San Alberto, qui si ferma davanti alla tomba di Giuliano Ghilini. Ama questa chiesa, è un po’ come un angolino della sua terra, frequentata, com’è, da tanti spagnoli, la cui lingua gli ricorda Napoli, città dove aveva vissuto, in cerca di fortuna.

Giuliano Ghilini, grande condottiero, lo riporta ai suoi trascorsi militari: davanti alla tomba pensa ai casi suoi e alle sue disgrazie, torna indietro a quel maledetto 1573, quando ubriaco, insieme ad altri tre soldati sconosciuti, imbrattò le insegne reali poste

sul duomo e su alcuni palazzi patrizi.

Si parlò di congiura, di quei tre si disse che erano manovrati da qualcuno, si cercò di tirarlo in ballo, associandolo a loro, addirittura accusandolo di esserne il capo. Il governatore insisteva nelle accuse, quasi a voler scagionare gli altri: era forse il burattinaio occulto di cui si parlava?

Davanti a lui, Pasquale si era difeso con coraggio: «Culpable.»

«Eccellenza, ero ubriaco ed arrabbiato, non mi rendevo conto di quello che facevo. Quei tre non li conoscevo neppure, vidi che lanciavano sterco contro gli stemmi e feci altrettanto, per vendicarmi dell’ordine di trasferimento per le Fiandre.»

Addirittura aveva tentato una disquisizione filosofica: «Quando una moneta cade nel fango, viene calpestata o qualcuno vi sputa sopra, viene inzaccherata l’effigie del re, ma ciò non rende certo colpevole di lesa maestà chi ha fatto questo.»

Il discorso non faceva una grinza, ma il governatore obiettò che il perdere, o calpestare, una moneta rientrava nella casualità, lo sputarvi apparteneva al diritto popolare, imbrattare di sterco gli stemmi reali, dopo aver ricevuto ordine di trasferimento, era insubordinazione e offesa al re.

Pasquale fece, allora, leva sulla sua disperazione di marito e padre, costretto a lasciare la famiglia, che lo aveva spinto ad ubriacarsi, prima, e a seguire quei dissennati compagni, poi.

Lo salvò l’inquisizione, che accertò la premeditazione dei tre e la casuale partecipazione di Pasquale, e lo salvò anche da morte sicura, allontanandolo dalla cella dove erano ospitati gli altri tre.

Condannati tutti a remare sulle galee, anche se per un numero di anni diverso, andarono incontro ad uno strano destino: la notte successiva alla lettura della sentenza, quei tre sventurati morirono avvelenati, Pasquale si salvò grazie ad un anticipato trasferimento a Genova.

Qui fu imbarcato su una galea spagnola, navigò un anno e mezzo, dopo di che fu raggiunto dal perdono reale per i suoi meriti di guerra e per il denaro profuso da Domenico, per muovere avvocati e causidici nella ricerca di un cavillo che ne permettesse la liberazione.

Quando Pasquale tornò ad Alessandria, smunto e con i capelli rasati, come tutti i galeotti, trovò una famiglia, sì, ad attenderlo, ma povera in canna: Domenico aveva dovuto vendere tutto per raggranellare i quattrini utili per la liberazione del genero, salvando solo la casa.

L’uomo promise che avrebbe riscattato tutti da quella condizione di miseria, ma non combinò un gran che, anzi, aumentarono i figli, rendendo l’abitazione, una cucina, al piano terra, e due stanze, a quello superiore, angusta e chiassosa.

Il problema, però, era un altro e cioè sfamare dieci persone: quando morì Domenico, che aiutava la famiglia con il suo lavoro di falegname, Pasquale fu costretto a tirare avanti con lavori precari, facendo piombare la famiglia nell’indigenza.

Non poteva tornare nella sua terra natale, perché sapeva che lì avrebbe trovato solo miseria: suo padre, barbiere e cavadenti, a Perticara, paese attorniato dalle montagne lucane, per arrotondare, andava a mietere il grano, in estate, e a suonare nelle feste di matrimonio, durante l’anno. Pasquale e altri tre fratelli  erano andati via, lasciando due sorelle da maritare, un fratello malaticcio e Antonio, che aveva seguito le orme del padre.

Aveva chiesto a quest’ultimo, ma la risposta era stata scontata: era lieto del suo matrimonio, anche se con una straniera, addolorato per quanto accadutogli, ma anch’essi avevano avuto delle disgrazie, i genitori erano morti e così pure una sorella, mentre i carlini erano sempre pochi, tanto che i piccininni (i piccoli) erano costretti a lavorare nei boschi con i carbonai.

Pasquale aveva cercato di sopravvivere con i lavori più disparati, uomo di fatica al porto fluviale, suonatore di mandola, fabbricante di unguento, ma senza fortuna; si sentiva tradito dalla vita, anche se però aveva ancora la sua famiglia, numerosa, causa di preoccupazioni, ma anche fonte di gioia, quando tornava a casa, stanco, e i suoi figli gli correvano incontro, abbracciandolo e baciandolo, oppure quando guardava i suoi piccoli mentre dormivano il sonno degli innocenti.

Un tramestio lo riporta alla realtà, sta per iniziare la messa dell’aurora, ma non può fermarsi, deve battere sul tempo i concorrenti, si allontana, facendosi il segno della croce e pensando al sepolcro di Giuliano Ghilini: è spoglio, da quando, per ordine del vescovo, sono stati tolti gli stendardi, gli speroni e la spada che l’adornavano; chi sa perché poi; si dice per venire incontro a decisioni prese a Trento, contro gli eretici, ma un uomo deve essere seppellito con le cose più care e non per questo è meno cristiano; e poi, chi prega su una tomba non è distratto dai trofei, se mai questi lo fanno riflettere sulla vita e sulla vanità della gloria terrena. Continua a intrecciare i pensieri nella propria mente, mentre, camminando, percorre la Strada Larga, giunge in vista del torrione Baratta, supera la Porta Nuova, ancora poco frequentata, con i gabellieri che si stropicciano gli occhi, per la nottata passata nel dormiveglia, e il ponte coperto, finché arriva sulla sponda del Tanaro.

 

Capitolo II

Fra la dogana grande e i bastioni, vi sono alcune case, qualche fondaco, una taverna, un banco di cambiavalute, Pasquale percorre le viuzze che conducono agli imbarcaderi, passando per il banco di Giovanni Milanese, detto l’ebreo; è ancora chiuso, ma qualcuno conta del denaro; si volta, quasi per istinto, verso la porta chiusa, ma non nota nulla, se non la grida sui cambi affissa sulla porta e in parte sgualcita.

Una grossa chiatta è ormeggiata a riva, Pasquale si avvicina, urla: «Avete bisogno d’aiuto?»

«Certo!», gli risponde una voce rauca, «Tre soldi se ci fai scaricare prima delle sette.»

«Affare fatto!»

Pasquale inizia a lavorare di buona lena, senza badare a ciò che accade attorno a lui; quando termina di scaricare, si accorge che molte barche sono ormeggiate agli imbarcaderi e la riva brulica di gente, di carri e di animali: molte merci prendono la strada della dogana grande, altre rimangono sulle chiatte pronte a ripartire verso Pavia, Cremona e, da qui, Venezia.

L’umanità che frequenta il porto è la più disparata, oggi, però, non ci sono arrivi di soldati, se no sarebbe un pullulare di meretrici, mercanti e loschi individui. Comunque, il movimento è notevole: dai mulini sul fiume vi è un andirivieni di barche, che portano cereali e farina, pronta, quest’ultima, per essere caricata sui carri in attesa lungo la riva.

Di fronte a questo spettacolo, Pasquale rimpiange di non aver imparato un vero mestiere, almeno i suoi figli avrebbero la certezza di poter mangiare, mentre, così, è un continuo mendicare e patire.

Quante volte ha pensato di salire su una barca e di raggiungere Venezia, dove si sarebbe arruolato nelle truppe spedite a Candia o in Negroponte. Non lo ha mai fatto perché non poteva abbandonare la famiglia: l’aveva già tradita una volta, non poteva farlo una seconda; però, quanti bocconi amari ha dovuto inghiottire, quanti sguardi e giudizi maligni ha dovuto sopportare, specie i primi tempi, dopo il suo ritorno dalla galera, quando aveva ancora il capo rasato tipico dei criminali e tutti lo guardavano come un lebbroso. Quante volte avrebbe voluto nascondersi, ma non poteva, aveva un dovere verso la sua famiglia… ma… questa voce… è… sì… di Giobatta Pescetto, mercante di Genova, come sempre, bisticcia e, come sempre, per lo stesso motivo: le monete calanti.

Giovanni Milanese non vuol ritirare i grossi scudi di Giobatta al valore fissato dalla grida perché sono calanti di peso: «Sono calanti, non ti posso accontentare!»

«La bilancia è truccata, figeu!»

«La bilancia è in ordine, ciapa quai!»

«Ciapa quai a me, sono Giobatta Pescetto, mercante in Genova, mica zucchero caramellato!»

«Mastro Gio…», ma Pasquale non finisce di pronunciare il nome.

«Cosa vuoi? Non vedi che sto discutendo?»

«Vi ricordate di me? Sono Pasquale Laurenzano.»

«Sangue, se mi ricordo: sei Pasquale, lo sfigato.»

«Proprio io, per servirvi.»

«Cosa vuoi, figeu?»

Pasquale, posando lo sguardo sul mucchietto di grosse monete d’argento poste sul bancone: «Ho sei figli e una moglie e ho bisogno di lavorare.»

«Eri un buon soldato, dovevi continuare a farlo.»

«Ad ognuno il proprio destino, questo era il mio. Mastro Giobatta, vi ho fatto fare buoni affari in passato, dovete aiutarmi.»

«È vero, tu mi hai sempre portato buone palanche. Ascolta… Ho la necessità di portare della seta da Milano a Genova, di questi tempi, uno schioppo fidato in più fa comodo: ci stai?»

«Siete un galantuomo.»

«Allora, stasera, al Falcone, per definire l’accordo e ora vattene che ho da fare.»

Finalmente, un lavoro vero, a Pasquale non sembra vero; si allontana quasi senza salutare, accompagnato dalle urla di Giobatta, che ha ripreso a litigare con il cambiavalute.

Pasquale torna sui suoi passi, vuole essere a casa per l’ora di pranzo, per portare la notizia e per sapere come sta Elisa. Passa per contrada Maestra, si ferma dal prestinaio e ne esce con un pane da due libbre. Vede la bottega di Isacco Sacerdoti, un vecchio ebreo, suo amico, decide di fermarsi.

È una bottega anonima, incassata nell’edificio che si affaccia sulla via, buia, spoglia.

Isacco sta sempre dietro il bancone, immobile con la solita zimarra addosso, un copricapo di foggia orientale, dal quale sbucano, ai lati, due lunghi riccioli.

Chi entra, oltre all’ebreo, non vede altro se non la bilancia, un calamaio, alcune polizze in bianco e, affissa su un muro, una grida sui cambi delle monete nel ducato di Milano.

La gente vocifera di un tesoro, monete, gioielli, oggetti preziosi, seppellito, da qualche parte, nel giardino, o nascosto in casa, ma nessuno ha mai visto niente.

Tutte le sere, il vecchio Sacerdoti chiude il negozio da dentro e sale in casa per la scala interna, dove consuma il suo pasto; dopo, mentre le due figlie rigovernano, legge qualcosa, spesso lettere da Costantinopoli, Roma, Mantova o Lodi, quindi, terminata la lettura, quando i figli sono nelle loro camere, si va a coricare, non senza essersi accertato che porte e finestre siano ben serrate.

Sono sempre gli stessi gesti, che neppure la morte di Ruth, sua moglie, ha cambiato.

«Salve, Isacco!»

«Sei venuto per saldare il tuo debito di venti scudi?»

«Per pagare e morire c’è sempre tempo.»

«Fin quando, caro Pasquale, non verranno i messi del tribunale a sequestrarti tutto.»

«Sta’ tranquillo, ti pagherò ogni cosa, forse ora ne avrò la possibilità!»

«Dici sempre così, ma intanto il tuo debito sale.»

«Sei esoso, Isacco, e noioso, sempre pronto a ricordarmi ciò che ti devo, eppure hai ricevuto in pegno il bracciale di Maria, lo avevo tolto dal braccio di un morto, mentre saccheggiavamo una città in Germania.»

Pasquale ha un momento di silenzio, appare una ruga sul suo volto, ma riprende: «Bei tempi, non avevo famiglia, giravo il mondo e avevo sempre la saccoccia piena di monete.»

«Bella per te», lo rimprovera Isacco, «ma dolorosa per chi era costretto a fuggire, abbandonando la propria casa a lupi affamati di ricchezze, pronti ad uccidere amici o nemici. Denari estorti con la violenza, padri costretti ad umiliarsi, pur di salvare i propri figli da torme inferocite di senza Dio.»

«È la guerra.», replica Pasquale, «E i civili non sono da meno, sempre pronti ad entrare nelle case, quando sono andati via i soldati, per portare via ciò che è rimasto; pronti a commerciare con i soldati, per rubargli ciò che hanno. Credimi, non sono migliori dei soldati, che tanto odiano.»

«Hai ragione anche tu.», risponde sconsolato Isacco, «I civili sono sempre pronti a scrivere lettere anonime per accusare di usura un ebreo, dopo che gli hanno chiesto un prestito, o di infanticidio: ti ricordi quando mi accusarono di aver ferito quel bimbo cristiano?»

«Ero qui, che contrattavo la vendita di una collana di Maria, quando entrò quel bimbo ferito: era ammutolito.»

«Medici e frati dissero che fu per lo spavento, ma se non ci fossi stato tu, cristiano, a testimoniare, oggi non sarei qui a parlarne e i miei figli sarebbero allo sbando.»

Isacco emette un lungo sospiro: «Ho tre figli, ma nessuno che mi somigli. Miriam e Deborah pensano solo ai gioielli e a trovare un marito ricco, ma sono senza cervello: quante volte ho detto no a giovani israeliti, di buona famiglia, per timore che l’unione fallisse. Ho due figlie sempre pronte a ridere di tutto e di tutti, come se la vita fosse un’eterna risata. Non parliamo, poi, di Davide, arrogante, con una lingua tagliente, quanto inutile: tante volte ha umiliato chi veniva a chiedere danaro in prestito, per bisogno, disprezzando ciò che portava in pegno: un uomo bisognoso è disperato, se poi lo si umilia è capace di tutto, anche di una follia, ma Davide non capisce, per lui sono gli altri che hanno bisogno, non noi; giovane stolto, se continua così, prima o poi, il re ci costringerà a lasciare la città, allora saremo noi alla mercé degli altri. Simone Sacerdoti ha un bel dire che ha un’idea che ci permetterà tutti di rimanere qui, ma io non ci credo: noi ebrei siamo già stati scacciati dalla Spagna e rifiutati da tante città e succederà anche qui.»

A questo punto cala il silenzio, Pasquale, compresa l’angoscia dell’interlocutore, cambia discorso, parlando dell’ultimo gioiello di Maria portatogli in pegno: «L’anello che ti portai la volta scorsa valeva molto, un orafo di Savona me lo aveva valutato quattro scudi.»

«Storie! Valeva poco e quello che ti diedi era già troppo; se proprio vuoi del denaro dovresti metterti al servizio di qualche nobile», risponde Isacco, ritornato mercante, «in questo modo potresti sfamare la tua famiglia, godendo di qualche privilegio, senza fare la vita da cani che conducete.»

«Ne ho abbastanza di padroni dispotici e capricciosi, che danno ordini e non sono mai riconoscenti, voglio essere un uomo libero. I nobili, le loro vendette e i loro duelli possono andare all’inferno.»

«All’inferno però ci stai tu, ora, e con te quei poveri figlioli e tua moglie, che non hanno colpe.»

«Non hai diritto di giudicarmi.», replica Pasquale, colpito nell’orgoglio, «Parli di Davide, ma ti comporti come lui.»

«Cerco solo di consigliarti, stolto soldato di ventura.»

«Non chiamarmi soldato di ventura! Ho servito il mio re con onore!»

«Con tanto onore che ti ha mandato a remare sulle sue galere.»

«Isacco, non provocarmi! Potrei denunciarti come usuraio e sacrilego, così non pagherei neppure il mio debito!»

«Non lo farai, non sei un vile.»

«Potrei diventarlo, sai che piacere vedere Isacco Sacerdoti e la sua famiglia scappare da Alessandria, inseguiti dai creditori e da una masnada di farabutti!»

«Meglio morire!», esclama il mercante, chinando il capo.

Pasquale, capendo di aver toccato un tasto dolente, non va oltre, cambiando discorso: «Beh, si è fatto tardi, devo tornare a casa e prima voglio fermarmi nella rugata dei portici per comprare del formaggio, un poco, tanto per dare soddisfazione ai miei figli.»

«Ricordati del debito, sono venti scudi.»

«Li avrai. Quanto prima.»

Pasquale esce dalla bottega, percorre un tratto di via maestra, entra nella contrada dei portici, vede i formaggi esposti sul lato destro, entra in una bottega e ne esce, poco dopo, con un pezzo di cacio, avvolto in foglie di fico; si fa largo a fatica, ormai la gente affolla le vie ed è tutto un via vai di carretti, muli, cavalli ed asini, comunque si sente leggero, con un pane sotto il braccio, un pezzo di cacio e la possibilità di un nuovo lavoro, è speranzoso, quasi baldanzoso per il futuro.

 

Capitolo III

La casa appare deserta, Pasquale entra, appoggia la spesa sul tavolo della cucina, vede bollire un paiolo sul camino, ma non c’è anima viva: «Maria, Lisa, Anna, Mimì, Lucia, Gerarda… dove siete?»

«La mamma è uscita, ma non vi preoccupate, papà, ci sono io, fra poco metterò in tavola la zuppa.»

«Lisa? Allora, oggi la zuppa sarà brodosa e la tavola male apparecchiata: pazienza, piuttosto, dov’è la mamma?»

«È uscita. Ha detto che sarebbe andata da donna Isabella Panza, nel Borgo, e che si sarebbe fermata a San Pietro, da don Giovanni.»

«Richetta come sta?»

«Meglio, è sfebbrata, ma è debole, le ho dato un po’ di zuppa.»

«Adesso, salgo a vederla, ma la mamma deve smetterla di lasciarvi soli per andare da quel prete: non mi piace.»

Mentre Pasquale mugugna, Maria è già nel Borgo, a san Pietro, e si sta confessando con don Giovanni: «Sono preoccupata, mio marito è senza lavoro, i miei figli non mangiano e la più piccola sta male, io non so cosa fare, ci fossero almeno i miei genitori, a darmi una mano.»

«Hai mai pensato di lasciare tuo marito?»

«Dio mi è testimone che non farei mai una cosa del genere.»

«Hai mai pensato ad un protettore per te e la tua famiglia? Una persona influente?»

«Mai; non potrei mai tradire mio marito.»

«Che c’entra: tradiresti il corpo, non lo spirito, e poi sarebbe a fin di bene; la provvidenza si manifesta in mille modi.»

«Ma che dite, padre?»

«Dico che sei una peccatrice legata alla carne! Ecco perché la misericordia divina non ti ascolta!»

«Dio mi è testimone che rispetto mio marito e amo i miei figli.»

«Non mettere sempre in mezzo Dio. Spesso darsi agli altri significa fare la sua volontà: pensaci figliola.»

«Cosa intendete?»

«Voglio dire», e parla con tono dolciastro, «che, a volte, la provvidenza vuole che si abbandoni il proprio egoismo a favore degli altri.»

«Egoismo? Volete dire», e parla in modo risentito, «che i miei guai sono il frutto del mio egoismo? Siete ingiusto! Pasquale ha sbagliato, è vero, ma ha cercato di risollevarsi con tutte le sue forze e io gli sono stata accanto, senza risparmiarmi.»

«Non basta.», sussurra don Giovanni, con tono grave, «Devi donare anche agli altri, perché il tuo corpo non ti appartiene e i desideri degli altri sono volontà della provvidenza.»

«Non capisco!»

Maria è frastornata.

«A volte, un mendicante, un nobile, un prete vogliono il tuo corpo e tu glielo devi dare, perché non è peccato, ma è una manifestazione d’amore fraterno.»

«Assolvetemi, padre, perché non ho fatto nulla di male.»

Maria non ascolta tutta la formula, esce dal confessionale turbata e confusa; le parole del prete le pesano come macigni.

«Dio non può essere ingiusto, non può punire chi ama e premiare chi tradisce.»

Maria esce dalla chiesa e cammina presa dai suoi pensieri, tanto da non accorgersi di aver superato la casa di donna Isabella, presso la quale svolge i più disparati lavori.

«Maria! Maria! Ma dove vai!», urla donna Isabella, affacciata alla finestra di casa, «Cosa fai!»

«Scusate, ero distratta.», risponde Maria, ritornando in sé, «Pensavo ad Enrica, che sta poco bene.»

«Veramente mi sembravi morsa da una tarantola.»

«Scusate, sono veramente preoccupata.»

«Entra. Hai mangiato? È già mezzogiorno.»

«No, mangerò stasera, a casa.»

«Entra, che ne parliamo.»

Maria spinge la porta, è aperta, la richiude alle spalle, attraversa un piccolo giardino, prima di raggiungere l’uscio di casa, dove l’attende l’anziana signora.

È una vedova di più di sessanta anni, vive con la rendita di alcuni poderi, sparsi qua e là fra la pianura e le colline del Monferrato, non ha figli e cerca, in tutti i modi, compagnia.

«Vieni, Maria, oggi ho bisogno di te per il bucato e poi ti fermerai a pranzo: ho un bollito veramente buono.»

Effettivamente, per la casa, si spande un buon odore di brodo; Maria, che non mangia dalla sera precedente, sente risvegliarsi l’appetito, ma il pensiero del colloquio con don Giovanni glielo fa passare.

«Sono stata a confessarmi da don Giovanni e mi ha detto delle brutte cose. Lui dice che se le cose vanno male è per colpa mia, che non mi dono, ma a chi dovrei donarmi? Cosa significa? Non lo so.

Siamo poveri e stiamo per perdere anche ciò che ci rimane: perché il Signore non posa lo sguardo su di noi? Cosa abbiamo fatto per meritarci questo castigo?»

«Non bestemmiare; Dio vede e provvede, le sue vie ci sono sconosciute e come ci manda il male così ci dà la consolazione; piuttosto, dovresti smetterla di confessarti da quel prete: non circolano voci belle sul suo conto, si dice che abbia un’amante e induca in tentazione le sue parrocchiane. Non mi piace e quindi, pur essendo il mio parroco, non mi confesso da lui.»

«Eppure è sempre stato comprensivo verso di me.», risponde, turbata, Maria.

«Comprensivo, certo, per farti fare ciò che vuole, è un pervertito. Si dice che un giorno abbia messo le mani addosso ad un giovanotto, intento ad addobbare la chiesa, invitandolo a non sprecare quella abbondanza. Ascolta, Maria, non andare più da lui, va’ piuttosto dal tuo curato, avrai certamente più comprensione e aiuto.»

Le due donne, intanto, armeggiano attorno ad un grosso mastello di legno: Maria lo ha, prima, riempito di acqua, attinta dal pozzo in giardino, e, poi, ha immerso la biancheria, quindi ha iniziato a sgrassarla con la cenere; ultimata questa operazione, aiutata da donna Isabella, trasferisce i panni in un altro mastello, colmo di acqua pulita, per strizzali e stenderli, fra due alberi del giardino.

Maria è esausta, anche se, così, si è risparmiata la fatica di andare fino al lavatoio, e sente la necessità di rifocillarsi, perciò accetta di buon grado il rinnovato invito della padrona di casa a fermarsi a mangiare da lei.

Maria si siede alla tavola, apparecchiata con una tovaglia di lino, e, senza farsi pregare, mangia con voracità il pane raffermo, inzuppato nel brodo, e i pezzi di lesso, nella ciotola, bevendo con soddisfazione il vino che donna Isabella le versa amorevolmente, nel bicchiere.

Ora che è sazia, racconta, per l’ennesima volta, a donna Isabella di come si è innamorata di Pasquale.

«Aveva un bel portamento», inizia Maria, «quando camminava, altero, sembrava un nobile spagnolo e forse nelle sue vene scorre sangue spagnolo, la sua carnagione, scura, e la sua parlata, così diverse dalla nostra, mi hanno subito colpito e così pure la voce, profonda, e lo sguardo, che mi ha fatto sentire donna fin dall’inizio. L’ho sempre amato e non me ne sono mai pentita, neanche nei momenti brutti della nostra vita: quando venne arrestato, lasciandoci nella più grigia povertà. Aveva imbrattato quegli stemmi per amore nostro, avrebbe potuto portarci con sé da una fortezza all’altra, oppure lasciarci, facendosi un’altra vita, ma preferì la sua famiglia, forse era destino.»

«Non rattristarti, Maria, vedrai che anche per voi, prima o poi, si aprirà uno spiraglio. Piuttosto, ma, con un marito di un altro paese, vi siete sempre compresi?»

«No.», risponde Maria, abbozzando un sorriso, «All’inizio era geloso, avrebbe voluto che non rispondessi neppure al saluto dei conoscenti, amici di mio padre, suoi vecchi garzoni, come si fa dalle sue parti, dove le donne vivono nascoste. Quante volte mi ha rimproverato perché stavo troppo alla finestra, a innaffiare i vasi, o sulla porta, a contrattare con il venditore di scope. Quante volte ho abbassato la testa, ma era più forte di me, mi piaceva chiacchierare, sapere notizie di paesi lontani, non facevo nulla di male. Ora, invece, non ho voglia di niente, sono stanca, alla sera, mi addormento di colpo, poi, però, mi sveglio, a notte fonda, e non chiudo più occhio; penso ai miei figli, al loro futuro, senza una dote, le bambine difficilmente potranno sposarsi. Pasquale crede di svegliarsi prima di me, ma, quando si alza, io ho già gli occhi aperti da un pezzo e lo vedo, seduto, ai piedi del letto, preoccupato, spesso con la testa fra le mani; a volte, mormora qualcosa, ma non riesco a capire.»

«Ma la sua famiglia non sa niente?», chiede, quasi stizzita, donna Isabella.

«Sono più poveri di noi. Quando ci sposammo, con la scusa della lontananza e della sposa straniera, non mandarono uno scritto. Sono fatti così; è gente diversa da noi; si vestono in un’altra maniera, mangiano e parlano diversamente e, soprattutto, sono di carattere acceso: si infiammano per poco, anche Pasquale è così, a volte, mi fa paura.»

A questo punto, Maria cambia discorso: «Donna Isabella, chiedete sempre di me, ma non parlate mai di voi.»

«Non ho molto da dire, pensa che volevo farmi suora, ma i miei avevano un’unica figlia e così fui maritata ad un uomo più vecchio di me: Baudolino aveva 15 anni più di me; comunque, è sempre stato buono e non mi ha mai fatto mancare niente; purtroppo, la peste del 1579 se l’ è portato via.

Aveva una bottega di orefice proprio in piazza grande, di fronte alla cattedrale, faceva dei bei lavori e aveva molti clienti, soprattutto nobili. Il governatore di allora avrebbe voluto farlo cavaliere –  te nombrarè noble caballero –  ma Baudolino badava alle cose concrete, per questo ha sempre lavorato, pensando al futuro: vicino a Villa del Foro e a San Salvatore dai quali proviene la mia rendita, più il vino e la farina, che uso per i miei bisogni.»

«Non avete mai avuto figli?»

«No. Forse Dio ha voluto punirmi per non aver seguito la sua strada. Quando morirò, la casa e tutti i miei beni passeranno ai nipoti di Baudolino; sono bravi giovani, hanno ereditato il mestiere del padre e dello zio e non hanno certo bisogno del mio; a volte, mi chiedo se non sia più giusto aiutare chi non ha.»

A questo punto, donna Isabella si alza da tavola e si allontana, va verso la scala, sale e ne discende, poco dopo, con una scatolina di legno ben rifinita, in mano.

«Ascolta, qui c’è un anello, è uno dei lavori del mio Baudolino: prendilo, è più giusto che lo metta al dito una donna giovane.»

Maria è confusa: «Non posso accettare.», balbetta.

Donna Isabella è irremovibile: «Prendilo, è tuo; meglio che te lo dia adesso, che sono viva, perché, dopo morta, potrebbe finire in altre mani.»

«Non dite così.»

«Lasciami fare.», la interrompe l’anziana donna, «Mi hai sempre aiutato e io non ti ho mai dato un segno della mia riconoscenza, né un ricordo. Questo ricordo ti potrà servire nei momenti brutti.»

«Grazie», sussurra, commossa, Maria, «ma ora devo proprio andare.»

«Aspetta, prendi questo.»

Donna Isabella le porge un fagotto, dal quale esce un pezzo di salame.

«Grazie ancora!», risponde la giovane donna incamminandosi verso l’uscio.

L’anziana, nel frattempo, si affaccia alla finestra, vede passare un carrettiere di sua conoscenza, lo ferma e gli chiede di far salire Maria, per risparmiarle un tratto di strada.

Maria esce in strada, accompagnata dallo sguardo dell’anziana, che salutandola, le grida: «Torna presto, dobbiamo parlare ancora.»

Maria, sul baroccio, risponde con un cenno della mano; seduta, col busto eretto, si sente una nobildonna e guarda gli altri quasi con una sorta di sufficienza, è felice per una amica trovata, sulla quale potrà contare nei brutti momenti.

Che giornata, è cominciata con le parole oscure di don Giovanni ed è finita nella speranza.

 

Capitolo IV

I vespri sono stati recitati, è sopraggiunta la sera e poi la notte, con la sua scia di pensieri e paure.

Le vie sono quasi completamente buie; alcuni passi annunciano una ronda solitaria, che vede, intorno a sé, una oscurità totale, rotta soltanto qua e là da qualche lumino che brilla dinnanzi alle immagini sacre: tutti dormono, o quasi.

Don Giovanni, nel suo letto, continua a rivoltarsi, roso da un pensiero fisso: «Dannata donnetta, Maria, possibile che non hai capito le mie allusioni? O sei furba, o molto ingenua. Maledizione, è sempre stato facile convincere le beghine che baci e carezze sono atti di carità, e queste non hanno mai indugiato a baciare, abbracciare, a farsi spogliare, in canonica o nel confessionale. Maria non ha capito, o forse non ha voluto capire, ma io non mi tiro indietro, la possiederò, con le buone o le cattive; le farò il vuoto intorno, la costringerò a chiedermi aiuto, a quel punto sarà un gioco prenderla. Avrò commesso un peccato, ma sono già dannato e un peccato in più non cambierà certo la situazione.»

Don Giovanni si alza, comincia a camminare avanti ed indietro, sforzandosi di architettare qualcosa, ma certo! Perché non ci ha pensato prima?

Il marito di Maria ha avuto guai con la giustizia e non è più riuscito a trovare un lavoro dignitoso: potrebbe essere argomento, sapientemente manipolato, di una lettera anonima all’inquisitore, a San Marco.

Certo, non è decoroso che un parroco invii una lettera anonima e meno ancora vederlo imbucare la lettera a San Marco. Ci potrebbe andare di notte, con il pretesto di una estrema unzione, sarebbe un’idea, ma Borgoglio, di notte, è chiusa e la città inaccessibile, si dovrebbe attraversare il fiume, ma è una cosa conveniente?

Don Giovanni si lambicca il cervello: «Ma certo, perché non ci ho pensato prima? La lettera sarà recapitata all’inquisitore tramite un suo familiare, uno di quei tirapiedi del santo uffizio che, con la scusa di difendere la fede, riferiscono ogni cosa, adulterii, litigi, risse, eredità e perdite al gioco. Il nobile Parma fa al caso mio, tronfio e decaduto com’è, non gli parrà vero di recapitare un documento così importante per la salvezza della fede e dello stato: addirittura una congiura tramata dai francesi in combutta con maghi e fattucchiere. Non ho tempo da perdere, devo subito mettermi all’opera.»

Il prete si alza dal letto, prende il lumicino, posto sul tavolino da notte, e si incammina verso il piccolo studio, adiacente alla camera da letto, entra, posa il lumino sul tavolo, si siede, prende carta e penna e comincia a scrivere:

 

All’Egregio Signor Conte Cesare Parma

Illustrissimo Signor Conte, Le scrivo per denunciare…

E per questo ho ragione di credere che tal Pasquale Laurenzano, già noto come sacrilego, sia anche negromante e avvelenatore.

Durante il processo, minacciò malefici e, a condanna avvenuta, cedette il pavimento della casa di Lorenzo Mairolo, causando la morte di 22 persone.

Tornato dalla galera, si diede a fare fatture, non tanto per lucro, quanto per rancore, verso la città e i suoi abitanti, al punto di accettare la proposta dei francesi di uccidere con la magia il più alto numero possibile di persone.

L’elenco delle vittime illustri è preoccupante: Margherita Guasco, Nicolao Conzano, Caterina Scoglia, Antonio e Isabella Ottello, Francesco Barbero, Giovanni Gonzales.

Pasquale Laurenzano è al centro di una trama fittissima, bisogna fermarlo prima che sia troppo tardi.

Un amico.

 

Quando don Giovanni termina la lettera, con una grafia chiara ed ordinata, è l’alba, non ha più tempo di pensare, deve prepararsi per la prima messa. Si affaccia alla finestra e vede un cielo nuvoloso, torna al tavolo, piega il foglio, lo ripone nel cassetto e intanto pensa a come recapitarlo: ora ha fretta, deve celebrare la messa dell’aurora, ci penserà dopo, con calma.

In chiesa assume l’atteggiamento di sempre, ma non gli è difficile, visto che ha sempre finto, fin da quando è entrato in seminario, convinto da un vecchio prete nicolaita, che ripeteva spesso: «Pietro era forse scapolo?»

Giovanni aveva seguito questa strada, convinto che avrebbe vissuto bene, rispettato da tutti. A Trento, però, qualcosa era cambiato per la Chiesa e per i suoi figli: non potevano più essere accuditi da donne giovani, dovevano rispettare il celibato e sottoporsi alla disciplina del seminario: Qui aveva appreso il resto: in varie occasioni qualcuno gli aveva fatto credere che erano disdicevoli solo i rapporti con le donne e, più volte, era capitato nel letto di qualche suo compagno; all’inizio con riluttanza, poi con piacere, tanto da non poterne più fare a meno.

Diventato seminarista anziano, aveva cominciato a dare la caccia a quelli più giovani, un po’ effeminati e puliti, soprattutto puliti, non sopportava il puzzo di sudore, e se qualcuno resisteva, ecco il ricatto, o le minacce, per farlo soggiacere.

Tutto era avvenuto sempre di nascosto, senza che qualcuno se ne accorgesse; Giovanni era orgoglioso di questo, stimato dai superiori, si era sempre mosso senza destare sospetti e senza sospetti aveva condotto con sé, nella parrocchia di San Pietro, a Borgoglio, oltre il Tanaro, una vecchia meretrice, raccolta chissà dove, con due figlie, spacciandole per un’anziana sorella e le nipoti.

Certo, però, che la tresca con le tre non era passata inosservata agli occhi di qualche parrocchiano maligno, o soltanto più accorto, ma ciò sembrava non spaventare il sacerdote, che, con il passare del tempo, era diventato più impudente.

Don Giovanni, mentre ricorda la sua vita, si trova di fronte all’altare, qui assume un atteggiamento ieratico, ma quante volte il suo occhio, durante la messa, è caduto su una bella parrocchiana?

«Missa est.».

La funzione è terminata, don Giovanni si ritira frettolosamente in sacrestia, si toglie i paramenti, li ripone in un pesante armadio, quindi, va verso una porticina, che apre, entrando nel suo appartamento.

Qui trova Rita, la perpetua, ha più di cinquanta anni, i capelli in parte biondi, in parte bianchi, è avvizzita, ma ha ancora molto ardore e soprattutto accampa qualche diritto sul prete; è gelosa, ma teme anche che le tresche dell’uomo portino un mare di guai, causando, a lei e alle ragazze, la perdita di quegli agi che la parrocchia concede.

«Eri preoccupato stanotte? Non mi hai chiamata, eppure eri in piedi.»

«Niente che ti riguardi.»

«Come? Ti accudisco, ti servo, soddisfo i tuoi piaceri e non ho diritto di…»

«Taci! Non hai alcun diritto, devi solo servirmi; e ora fila, ho da fare, fra poco verranno i fedeli per la confessione e io devo essere pronto.»

«Come sempre, specie quando ti apparti in quella stanzetta vicina al confessionale; non ti bastiamo noi? Ne vuoi altre?»

«Fila! Lasciami solo!»

Rita esce dalla camera, sa che non ha nulla da guadagnare a star lì, meglio lasciarlo solo con i suoi pensieri.

Non c’è che dire don Giovanni è bravo a mentire e sedurre; se avesse il coraggio delle proprie azioni direbbe che la sua è una situazione squallida, oltre che peccaminosa, ma è un vile ed ama vivere così, lo appaga; ma se dovesse morire all’improvviso? No c’è ancora tempo per pentirsi e salvare l’anima; piuttosto non c’è più tempo per la lettera, deve farla recapitare subito.

«Bartolo! Bartolo! Vieni ! Presto! Ho bisogno di te!»

Il ragazzo, un trovatello di 12 anni, scende di corsa dalla soffitta, incrocia Rita, che gli grida qualcosa, arriva davanti all’appartamento del parroco, bussa, entra: «Avete chiamato?»

«Certo, ho bisogno di te: devi portare questo biglietto a palazzo Parma, ma non devi dire chi ti manda, è per un’opera di bene e la carità non ha nomi.»

«Farò come dite.»

«Sai dov’è palazzo Parma?»

«Certo, ci vado subito.»

Bartolo esce con la lettera in mano, sa di compiere un’opera buona per conto del suo padrone, che è un uomo buono, è felice; supera il ponte coperto, di corsa, percorre le vie in un baleno, scomparendo fra la folla, per poi riemergerne subito dopo; nulla lo ferma, musici, attori, venditori di ogni genere, è per un’opera buona, è per il suo padrone, chi riceverà il biglietto non avrà che bene.

A palazzo Parma, il portone è aperto, un servitore, in livrea, sta lì, come se fosse in attesa, Bartolo si avvicina, gli urla: «È per il vostro padrone.»

Gli mette in mano il biglietto e si allontana di corsa.

Il servitore non ha il tempo di rispondere, rimane sul portone con la lettera in mano, una supplica forse, ma di chi? Questo però non lo riguarda; tante cose non riguardano i servi, che devono lavorare e obbedire: questo è il loro destino.

La lettera passa di mano in mano, finché, posta, con altri biglietti, su un piatto d’argento, giunge sul tavolo dello studio del nobile Parma, che però è troppo pigro per leggere la corrispondenza quotidianamente e poi vi sono altre beghe da risolvere: la sua casata, un tempo potente, versa in gravi condizioni, sono già stati venduti alcuni privilegi, come la chiave dell’arca, in possesso dei Parma da secoli, ma non è bastato.

I debiti accumulati sono tanti, per questo don Cesare ha chiesto di diventare un familiare dell’inquisizione, forse così riuscirà a salvare i beni e l’onorabilità della casata.

Familiare, sarebbe meglio dire spia, delatore, traditore degli amici: ogni cosa udita viene riferita a chi di dovere e i suoi amici, ignari, parlano.

Fino ad ora, però, non gli è capitato nulla di importante da riferire e le volte in cui gli amici hanno superato i limiti ha preferito dimenticare, forse per timore di perdere gli amici e rimanere solo: il nobile Parma odia la solitudine, ama le feste, i balli, le donne e gli amici.

Già, gli amici: le denunce all’inquisizione vengono sempre dagli amici, che fanno nomi, citano fatti, ma amici di chi? Di se stessi? Dell’inquisizione ? Forse di nessuno.

Don Cesare è sovrappensiero, rammenta l’adolescenza, quando suo padre lo portava con sé, a caccia e alle feste; vestiva gli abiti più belli, calze di seta e scarpe di Genova. Sognava di diventare un condottiero, di combattere per il re di Spagna e per la fede, di riconquistare il Santo Sepolcro; quante volte, nei sontuosi palazzi di Genova, aveva ascoltato i racconto di viaggiatori e naviganti, che parlavano di siriani, arabi e persiani.

Cosa era diventato, invece? Una nullità, aveva perso anche i privilegi che la sua famiglia aveva acquistato nei secoli.

Si era sposato, ma il suo era stato un matrimonio di interesse, neppure completamente onorato, visto che non tutta la dote era stata versata. Gli sposi non avevano avuto figli e questo aveva riavvicinato Cesare al gioco, alle donne e alle allegre brigate.

L’uomo si guarda allo specchio, non si riconosce, ha un gesto di stizza, si allontana, va verso il tavolo e qui nota il vassoio colmo di posta arretrata.

Comincia, stancamente, ad aprire i plichi, leggendone il contenuto: inviti alle prossime feste che precedono l’Avvento, un invito di don Ferdinando Rosales, avvocato fiscale: che vorrà? Non sarà ancora per quella pendenza? E se invece fosse per qualche nomina? Ma ti sei visto, Cesare ? Hai mai amministrato qualcosa? La tua vita è passata fra una caccia e una partita, fra un’avventura e un’alcova.

Quest’invito sarà l’ennesima umiliazione di uno che vuol ricordarti il tuo attuale scadimento.

Mentre Cesare va dietro a questi pensieri, ha un sussulto, leggendo il contenuto della lettera anonima, non gli par vero: si sta consumando una congiura e lui può evitarlo: ciò che desiderava è a portata di mano.

Si alza, scaccia dalla mente ogni brutto pensiero, comincia a camminare avanti e indietro, una congiura, deve impedirla, potrebbe già essere tardi, urla: «Presto! Devo uscire!»

Entrano due domestici, iniziano a vestirlo, in silenzio, con fare esperto: calzoni a sbuffo, calze di seta, scarpe di Genova, un elegante farsetto, con ampie maniche, sul quale poserà il mantello, quello leggero, perché non fa ancora molto freddo, ma comincia ad essere umido.

Uno dei domestici, dopo averlo fatto accomodare, lo pettina, i capelli sono ancora lunghi e folti, ma ormai brizzolati; ha cinquanta anni, ma è ancora un bell’uomo e questa occasione potrebbe rimetterlo in sella, soprattutto con le femmine: «Donna Isadora è una bella gnocca.»

«Come dite, eccellenza?»

«Nulla, stavo pensando ad alta voce.»

«Mi scusi, mi è parso che si rivolgesse a me.»

«No, Ignazio, stavo riflettendo che la giornata è umida e mi tocca uscire.»

«Cosa desiderate per pranzo?»

«Non credo che tornerò per quell’ora. Piuttosto, fammi preparare una cena leggera e il letto, oggi, temo, sarà una giornata pesante.»

Il vecchio servitore è alquanto stupito, il padrone non ha mai mancato ad un pranzo, anzi, per dispetto a sua moglie, ha sempre invitato gente, a tutte le ore, senza badare ad incomodi e spese, oggi invece non mangerà a casa e andrà a dormire presto, certo è strano.

«Ah!», geme don Cesare, «Mi tiri sempre i capelli, Ignazio, quando imparerai?»

«Scusate, eccellenza!»

E fra sé: «Imparerò quando mi avrai corrisposto tutto il salario.»

«Presto, Guido.», rivolgendosi all’altro domestico, «La mia carrozza.»

Il servitore esce, mentre Ignazio continua a pettinare Cesare, che, ad operazione conclusa, si alza e si fa aiutare a mettere cappello e mantello; prende la spada, più per finezza che per utilità, e poi lui non ha nemici, tranne i mariti traditi, ma questi non sanno di esserlo (almeno per ora).

Cesare esce dalle proprie stanze, scende le scale, rimuginando qualcosa: «Ma perché proprio a me? Perché l’autore della lettera anonima non ha denunciato il fatto direttamente all’autorità? È troppo nobile per farlo? E se non lo fosse? A maggior ragione, trarrebbe un vantaggio dalla denuncia diretta.»

Intanto raggiunge lo scalone ed inizia a scenderlo: «E se fosse una trappola? E se fosse un tentativo per screditarmi? È tutto molto strano, ma l’inquisizione farà chiarezza.»

Giunto nella corte, ode la consorte chiamarlo da una finestra del piano nobile: «Cesare dove andate? Quando tornate?»

L’aristocratico però non la degna neppure di uno sguardo e sale sulla carrozza: una nobile non può comportarsi come una pescivendola, urlando dalla finestra, per la delizia della servitù.

La carrozza supera il pesante portone, immettendosi nella via ormai affollata (sono già le undici) da popolani, serve con la sporta, bambini scalzi e urlanti, che si aggrappano al veicolo, contadini con asini, mercanti con muli e poi, ovunque, ai bordi delle strade, accampati sui sagrati, seduti davanti alle taverne, soldati, spagnoli, svizzeri, napolitani, tedeschi e lombardi, tutti uguali, violenti, rissosi, giocatori d’azzardo, fornicatori.

La carrozza si fa strada lentamente nella piazza maggiore, l’umidità rende il terreno molle e ciò ne rallenta ulteriormente la marcia.

Ad un tratto, si parano davanti quattro soldati napolitani, il cocchiere urla che si scansino, ma questi sembrano sordi, schiocca la frusta, senza risposta. La carrozza si ferma, si affaccia don Cesare: «Giorgio, che succede?»

«Eccellenza, quattro napolitani, sembrano sordi, non si muovono.»

«Largo! Canaglie!», urla don Cesare.

«Ueee! Che allucca a fa’?»

«Allora non siete sordi! Liberate la strada, presto!»

«Eh, statte soro.»

«Largo, canaglie! Giorgio, avanti!»

La carrozza si muove, il cocchiere cerca di forzare, i cavalli si imbizzarriscono.

«Ue, ue, scarrafone!»

«Marioli!»

«A chiii!»

I quattro tirano fuori i loro coltellacci e si fanno sotto, il cocchiere si difende con la frusta, don Cesare estrae lo spadino, ma è come se non lo avesse, perché non sa usarlo, quindi si rintana nella carrozza, urlando: «Via di qua! Aiuto!»

I quattro stanno per scaraventare a terra Giorgio, quando l’intervento della guardia armata, a presidio del loggiato adiacente alla cattedrale, rovescia la situazione, mettendo in fuga i quattro malintenzionati.

Il parapiglia non ha disturbato più di tanto le persone che affollano la piazza e i banchi del porticato, ma ha messo agitazione a Cesare, già teso per la sua missione.

«Grazie a voi!», rivolgendosi al drappello di salvatori, «Perdonate se non do udienza, ma sono atteso per gravi motivi di stato. Sarete ricompensati! Presto!», rivolgendosi al cocchiere un po’ malconcio, «A San Marco.”

I soldati rimangono lì, stupiti, di gente ne hanno vista tanta, ma uno così eccitato e dal comportamento a dir poco strambo, non gli era mai capitato.

 

Capitolo V

Quando il nobile Cesare si presenta al cospetto dell’inquisitore e del suo vicario è ancora pallido e quasi senza fiato.

«Don Cesare, state bene?»

«Eccellenza…no… porto…»

«Sedetevi, calmatevi, presto un bicchiere d’acqua.», ordina l’inquisitore.

«No, ho solo bisogno di un attimo di respiro.»

Ripresosi, il nobile, porgendo la lettera, si guarda attorno, come se cercasse qualche spia nascosta dietro i pesanti tendaggi o i quadri dei precedenti inquisitori, unico addobbo di una sala austera, con, al centro, un pesante tavolo e quattro sedie rivestite di cuoio, quindi inizia, con tono solenne: «Eccellenza, sono al vostro cospetto per denunciare una congiura.»

«Cosa?», sibila l’inquisitore, dando un rapido sguardo alla lettera, «Che dite…»

«Sì, una congiura, dalla fitta trama, ordita da un losco individuo al soldo dei miscredenti francesi.»

L’inquisitore non risponde, legge con attenzione la lettera, quindi, dopo un lungo silenzio, inizia ad interrogare il nobile Parma: «Don Cesare, da chi avete avuto la lettera?»

«Un anonimo me l’ha fatta pervenire, questa mattina stessa.»

«Quindi, non avete fatto indagini per accertarne la veridicità.»

«No, signore.»

«No, e allora come fate a parlare di congiura, con quali prove?»

«Ho pensato che una lettera anonima, in quanto vox populi, non possa che avere un fondamento di verità.»

«La verità va dimostrata.», interviene l’inquisitore, quasi redarguendolo, «Specie quando riguarda la vita di un uomo. Non possiamo condannare solo in base ad accuse anonime: ricordate le parole di Traiano a Plinio il giovane?»

«Ma, eccellenza», risponde, annuendo il nobile, «ho pensato che la lettera mi fosse stata inviata da una persona informata sui fatti, ma desiderosa di celare la propria identità, vista la dovizia dei particolari.»

L’inquisitore emette un lungo sospiro e, guardando negli occhi don Cesare, gli chiede: «Da quanto siete un nostro famiglio?»

«Da non molto, eccellenza.»

«Allora dovrete imparare che appartenere all’inquisizione non significa disporre del privilegio della credibilità…»

«Ma io…»

«Non mi interrompete!», sibila, con tono seccato l’inquisitore, «La credibilità si conquista con la verità e questa va cercata ovunque e ad ogni costo. Dio non potrebbe perdonarci di aver condannato un uomo senza aver fatto ogni cosa prima di determinarne la colpevolezza. Che giudici saremmo se condannassimo a priori?»

A questo punto, quasi per smorzare la tensione e con un tono di voce più dolce, interviene il vicario: «Don Cesare, il reverendo padre vuole solo dirvi che le accuse devono essere provate, non abbiatevene a male, piuttosto continuate sulla strada dello zelo e vedrete che sarete premiato.

Per ora, apprezziamo il vostro impegno e ve ne siamo grati.»

Il nobile non fa a tempo a riprendersi d’animo, che subito viene gelato dal tono secco dell’inquisitore nel congedarlo: «Potete andare, ora, dobbiamo consultarci.»

Don Cesare si ritira, profondendosi in un vistoso inchino e lasciando soli i due domenicani.

«Che ne pensate, padre Eusebio?»

«Non so che dirvi, reverendo padre. Tutto mi sembra troppo lampante, una congiura, un capro espiatorio: c’è qualcosa che non mi convince.»

«Credete che possa essere coinvolto anche don Cesare?»

«No, quest’uomo è ingenuo e credulone; le sue note non sono entusiasmanti: di debole fede, poco fermo nei suoi convincimenti, superficiale, che cosa si può sperare o temere da lui?»

«Ma allora perché è diventato dei nostri?»

«Credo per pura convenienza, reverendo padre.»

«Questa lettera», riprende l’inquisitore, «nasconde qualcosa, ma cosa? Dobbiamo sapere tutto su questo Pasquale Laurenzano, anche se io mi rammento di lui e della sua partecipazione all’offesa degli stemmi: mi sembrò un ingenuo, se non addirittura uno sciocco. Bisognerà avviare, comunque, immediatamente un’indagine particolareggiata, in modo da sapere se quanto è scritto corrisponde a realtà. Per ora, mi ritiro in cappella, per chiedere lumi allo Spirito Santo.»

I due religiosi escono dalla sala, dividendosi, ognuno per attendere ai propri compiti, così come impone la regola alla vita quotidiana dell’ordine, ma la giornata ha i suoi ritmi quotidiani e le sue regole anche fuori dalle mura del convento di san Marco; nelle strade, scandiscono le ore, non solo i rintocchi delle campane, ma anche la varia umanità che si sussegue nei vari momenti della giornata: alle massaie, alle fantesche, ai facchini e mercanti, si sostituiscono gli uomini che tornano dal lavoro, i contadini che spazzano le strade, raccogliendo i rifiuti per la campagna, e tutti coloro che fanno ritorno alle loro dimore nei paesi circonvicini, dopo aver trascorso la mattinata nella città caotica e piena di pericoli, mentre i bambini continuano a giocare e a far chiasso come sempre; sopraggiunge il tramonto settembrino, con i suoi colori vividi e nello stesso tempo malinconici, e le vie si svuotano, mentre le osterie iniziano a riempirsi di gente.

Pasquale entra al Falcone e già molti avventori sono seduti attorno all’unico, lungo, tavolo, posto al centro della sala: alcuni giocano animatamente a carte, tracannando vino, su una tovaglietta ormai lorda ed unta, uno sonnecchia davanti ad un boccale vuoto, che ha l’aria di non essere stato l’unico bevuto; altri mangiano avidamente alcuni pezzi di arrosto, tagliati dall’oste da un grosso quarto, infilzato in uno spiedo scoppiettante sulla brace del grande camino.

Mastro Giobatta, seduto a capo del tavolo, mastica anche lui un pezzo di quell’arrosto, lordando a più non posso la tovaglina fresca di bucato, con la quale l’ostessa ha voluto onorare l’abituale ospite.

Pasquale si avvicina al mercante, si siede, è imbarazzato, vorrebbe ordinare, ma non ha denaro.

«Ordina, Pasquale, offro io ! Sei mio ospite! Sei proprio imbelinato!»

«Avete ragione, ho proprio la testa altrove, ma sapete com’è, quando i guai sono tanti, non si sa più a cosa pensare.»

«Ascolta; veniamo al dunque, senza perderci in preamboli inutili: sono qui perché ho da sbrigare alcuni affari, uno è quello della seta di cui ti ho parlato stamani; prima però devo acquistare delle sargette, da vendere a Milano, insieme ad altra mercanzia, e da qui tornerò a Genova con le balle di seta. Tu e gli altri uomini dovrete scortarmi per tutto il tragitto: ci stai?»

«Eccome, ci sto, sono dei vostri fin da ora!», risponde Pasquale, rallegrato anche dall’arrosto e dal vino serviti dall’ostessa.

«La paga è buona: do ad ognuno di voi una berlinga al giorno, più vitto ed alloggio, ma tu sei una persona fidata, su te posso contare per ogni evenienza, e se mi servirai bene, ti darò una gratificazione di quattro scudi.»

«Accetto, ma ditemi, mastro Giobatta: quanto durerà il viaggio?»

«Dipende dalle difficoltà che incontreremo; la stagione è ancora buona e faremo una parte del viaggio navigando il fiume; durerà trenta, quaranta giorni, non so dirtelo con precisione; ma perché mi fai questa domanda?»

«È che ho famiglia e siamo senza un soldo per tirare avanti una settimana, figuriamoci un mese o, addirittura, due: come farà durante la mia assenza? Non potete darmi un anticipo? Poca cosa, tanto da far campare i miei per un po’ di tempo.»

Giobatta, che nel frattempo ha addentato un grosso pezzo di formaggio, ha un gesto di stizza, che subito reprime: «Siete proprio poveri in canna, eh figeu; la fortuna non ha più bussato alla tua porta.»

«Non abbiamo niente, solo gli occhi per piangere la nostra miseria.»

Pasquale smette di mangiare.

«Mangia, Pasquale, è tutto pagato. Non ti piace? Vuoi del formaggio? Oste! Un pezzo di formaggio ed altro vino!»

«Non vi incomodate; mi è passata la fame al solo pensiero dei miei che soffrono per causa mia.»

Giobatta smette di masticare, si pulisce le mani sulla tovaglietta, prende quindi una piccola borsa di cuoio, appesa alla cintura e ne cava fuori un mezzo ducatone: «Prendi questo e di’ a tua moglie di farselo bastare. Adesso, però, ascoltami con attenzione: qui, da quando non ci sono più gli Umiliati, non c’è nessuno che produca un tessuto decente, ma non è questo il punto; chi è rimasto non riesce a soddisfare le richieste locali e allora mi è venuta un’idea, apro un fondaco in città, vi ammasso il tessuto di lana fabbricato a Genova e poi lo vendo nel circondario. Dovrò affittare un banco in piazza Maggiore, mi sono informato, si paga un canone di tre lire all’anno, è un buon prezzo e ne vale la pena. Certo, dovrò chiedere l’autorizzazione al paratico dei mercanti di panno, ma non dovrebbero esserci problemi.»

Mastro Giobatta è tutto preso dal suo discorso da non accorgersi dell’espressione stupita di Pasquale: ma lui che c’entra in tutto ciò?

Infervorato, Giobatta continua: «Ho bisogno di un uomo fidato, capace di custodire il fondaco e di seguire gli affari del banco: sai leggere e far di conto?»

«Io», risponde frastornato Pasquale, «ma che c’entro? Sì, so far di conto e so anche leggere un pochino, ma non ho mai fatto il mercante e non saprei neppure da dove cominciare, conosco bene solo il mestiere di soldato.»

«C’è sempre una prima volta, nescio. Vuoi continuare a vivere una vita miserabile, lavorando saltuariamente? Non hai pensato alle tue figlie? Come farai a maritarle? Che dote potrai mai dar loro? Chiedendo aiuto ad un’opera pia? Anche per diventare monache bisogna avere una dote. E tuo figlio? Andrà via di casa per seguire qualche compagnia di lanzichenecchi? Non sei più giovane e non potrai sempre trovare qualche mercante a cui far da scorta.»

Pasquale annuisce e aggiunge: «Ma non ho pratica di mercatura.»

«Insomma, vuoi essere o no il mio fattore?»

«Posso darvi una risposta dopo il viaggio?»

«Adesso.»

«Alla fine.»

«Subito, o non se ne fa niente.»

«All’inizio del viaggio.»

«All’inizio, ma non oltre, se no, non se ne fa niente.»

Giobatta accompagna la risposta con un pugno sul tavolo.

«Avrete la vostra risposta in quell’occasione.»

«Fra tre giorni.»

Il mercante parla, masticando alcuni spicchi di limone. Dopo di che, pulendosi le dita con la tovaglietta ormai lorda, urla all’ oste: «Mastro Giorgio, è pronta la mia camera?»

L’oste si avvicina e con fare rispettoso gli sussurra: «Siete servito, la solita camera, le solite comodità, ma c’è una piccolezza da risolvere.»

«Quale?»

«Stamani, mi avete dato mezzo ducatone di anticipo…»

«Non va bene ? È poco?»

«Assolutamente no, voglio solo avvisarvi che la moneta è calante e quindi, al momento del saldo, dovremo fare un aggiustamento.»

Giobatta diventa rosso, poi livido, infine urla: «Sempre la stessa questione delle monete calanti; possibile che non pensiate ad altro in questa città?»

«Lo sapete anche voi», risponde l’oste, senza scomporsi, «che la moneta calante nuoce al commercio e che noi poveri osti dobbiamo rispettare le gride sulle tariffe delle monete.»

«Lo so benissimo, è il mio mestiere.»

«Volevo solo avvertirvi.»

«Padronissimo.»

«Non offendetevi.»

«Non sono nescio, sono Giobatta Pescetto, mercante in Genova.»

L’oste si allontana.

Pasquale si alza e, approfittando del momento, si congeda dal suo nuovo padrone, non senza aver fissato, prima, il tempo e il luogo dell’appuntamento per il viaggio.

Uscito dalla locanda, diventata un fiume di voci e rumori, tira un profondo respiro, le urla di Giobatta, il fumo i mille odori, le parole, lo hanno stordito, ha bisogno di rinfrescare le idee per prendere una decisione, la giusta decisione. Affretta il passo, anche se vorrebbe fare diversamente, per godersi la serata, mite e profumata, attraversata dalle mille parole delle persone sedute, davanti agli usci, a chiacchierare, ma la rugata di san Pietro è dopo la piazza Maggiore e deve percorrere un bel pezzo di strada e poi ha bisogno di parlare con Maria, chiederle consiglio, spera di non trovarla già a letto, stanca morta com’è per la troppa fatica che fa nell’accudire i bambini, cucinare, cucire, lavare e lavorare presso qualche famiglia agiata, per raggranellare qualche soldo. Fa tutto ciò senza mai lamentarsi, sempre con il sorriso sulle labbra, meriterebbe qualcosa di più dalla vita: maledetti quegli stemmi!

Pasquale è così immerso nei suoi pensieri che non nota la ronda notturna; è una grossa pattuglia, comandata da un ufficiale, riconoscibile dall’ampia fascia azzurra attorno alla vita, affiancato da due uomini muniti, ognuno, di una grossa lucerna, issata in cima ad una lunga pertica, e da un certo numero di picchieri, che lo seguono silenziosamente.

La ronda incrocia Pasquale, l’ufficiale vorrebbe fermarlo, ma lo vede assorto, quasi assente, e desiste, convinto che tutto possa essere tranne che un malfattore.

 

Capitolo VI

Pasquale entra in cucina, la casa è immersa nel sonno, ma Maria veglia, accanto al camino, in attesa del marito, muovendo e rimuovendo la brace, quasi giocasse.

«Mi avete aspettato? Sono contento, perché ho da dirvi una cosa importante e ho bisogno del vostro consiglio.»

«Non avevo sonno e vi ho aspettato; la stagione è ancora bella, ma fra qualche tempo sarà piacevole stare accanto alla brace, facendo arrostire qualche castagna; anzi bisognerà raccogliere della legna, in modo da averne un po’ quando comincerà a far freddo.»

«Già … fra non molto dovremo rimettere i mantelli e tenere le porte chiuse per difenderci dal freddo e dall’umidità. Mio nonno, quando arrivava l’inverno, diceva sempre che era arrivato il tempo dei malu vestuti.»

«Dovete dirmi qualcosa?»

«Sì, Maria: questa sera ho incontrato Giobatta, il mercante genovese, che, oltre a questo lavoro, mi ha offerto un posto di fattore in un fondaco che aprirà qui in città; si tratta di custodire delle merci, di venderle, di fare i conti. Potrebbe essere l’occasione per uscire da questa miseria, e voi potreste finalmente riposarvi un po’; che ne dite?»

«Se conoscete quell’uomo e lo stimate come persona di parola, fate bene ad accettare, potrebbe essere un’opportunità anche per Domenico; diversamente, se avete dei dubbi, non abbiate paura di rifiutare, ce la faremo comunque.»

«Ce la faremo? Ma vulite pazzia! Ci stiamo trascinando come Dio vuole, senza sapere cosa ci riserva il domani, e voi dite che ce la faremo comunque: sono stanco di vedervi patire tutti quanti.»

«Ma se vi succedesse qualcosa, avete pensato a che fine faremmo noi?»

«Ci ho pensato, mala nova, e, a questo punto, non può essere più scuro della mezzanotte.»

«Non vi inquietate, volevo solo dirvi che dobbiamo avere fiducia: ho parlato con don Giovanni, potremmo far entrare Enrichetta, come novizia, dalle orsoline; cagionevole, come è, potrà studiare e vivere all’onore del mondo, vestendo l’abito. Lui ci aiuterà, parlerà con le monache e con l’opera pia, per la dote necessarie. Per Domenico, si è impegnato a seguirlo personalmente per farlo diventare prete, è disposto addirittura a prenderlo con sé per qualche tempo.»

«Ma che dicite, ma state uscendo pazza! Con tutto il rispetto per la chiesa, ma di preti e monache ce ne sono fin troppi: se i miei figli vorranno diventarlo, non mi opporrò, ma non farò nulla per obbligarli; e poi vi ho detto tante volte che quel don Giovanni non mi piace; piuttosto che affidargli Mimì, preferisco puzzare di fame insieme alla mia famiglia.»

«Avete la testa dura come la pietra, a forza di non fidarvi di nessuno, state rovinando la vostra famiglia.»

«Oh, finalmente, ditelo che sono la rovina vostra e dei vostri figli e che sarebbe stato meglio che non fossi mai tornato dalla galera, anzi, che mi avessero catturato i turchi, vostro padre non sarebbe morto di crepacuore, dopo aver perso tutto, e voi avreste avuto un nuovo marito, magari Tunon il sarto, quello che fa andare la moglie ingioiellata come una statua della Madonna.»

«Smettetela di dire sciocchezze!», singhiozza Maria, «Volevo solo dirvi che non ascoltate nessuno, neppure chi vi dà dei buoni consigli.»

«E chi mi dà dei buoni consigli? Forse quel debosciato di don Giovanni? Comunque, ho già preso la mia decisione, per il resto, ne discuteremo al mio ritorno. Ecco, intanto, mezzo ducatone, vi servirà durante la mia assenza, fatelo bastare.»

Pasquale cava la moneta dal taschino del farsetto e la pone sul tavolo.

Maria si avvicina, è titubante, vorrebbe lasciarla lì, ma, alla fine, si decide e la prende, riponendola, poco dopo, in un vaso, posto in una nicchia. Si rivolge quindi al marito: «Cosa porterete con voi? Il viaggio sarà lungo, stiamo andando incontro alla cattiva stagione: troverete nebbia e pioggia.»

«Non so.», risponde infastidito Pasquale, «Lo spadone, la borraccia, non lo so.»

«E poi?», chiede, meravigliata, Maria.

«Non so.», risponde, seccato, il marito.

«Come non sapete. Dovete portare il mantello, vi proteggerà dal freddo, la bisaccia, per il cibo, l’unguento per i calli, l’acciarino, il corno per la polvere e…»

«Ho capito, ho capito, porterò le cose di quand’ero soldato, me le preparerete domani, con comodo. Io, intanto, affilerò la lama dello spadone, sarà un poco arrugginita, dopo tanto tempo.»

«Vi preparerò dei biscotti, li mangerete in viaggio.»

«Non vi incomodate, avete altro da fare, mi arrangerò.»

«No, no, vi piacciono tanto e vi faranno pensare a noi, quando sarete lontano e vi sentirete solo.»

«Non devo andare mica in Fiandra.», risponde Pasquale, abbozzando un sorriso.

«Andiamo a letto, siamo stanchi, abbiamo avuto una giornata pesante, meno male che Richetta non ha più la febbre.»

I due, dopo avere serrato la porta, si incamminano verso la scala, Maria, avanti, con una lucernetta in mano, Pasquale, dietro, salgono i gradini, entrano nella camera da letto, è spoglia, il letto, una cassapanca, un piccolo vano, una nicchia, con un’immagine della Vergine, davanti alla quale brilla un lumicino ad olio.

I due, silenziosamente, per non svegliare i piccoli che dormono nel lettone, si svestono e si coricano.

Pasquale spegne la lucernetta, ma il lumino ad olio rischiara la camera; prima di addormentarsi, ognuno per conto proprio, rivolgono lo sguardo alla Vergine e recitano le loro orazioni, raccomandandole la loro famiglia.

 

Capitolo VII

Il tempo trascorre, passano settembre, ottobre, arriva novembre e con questo la nebbia, la pioggia e la piena: il Tanaro si gonfia di giorno in giorno, rompendo gli ormeggi dei mulini e sommergendo gli imbarcaderi del porto, ma di Pasquale nessuna notizia, né da Milano, né da Genova.

Maria è preoccupata, anche se cerca di celarlo. Solo Lisa comprende il suo tormento, aiutando la madre, come può, nelle faccende di casa e nella cura dei piccoli. Questi spesso chiedono del padre, di quando tornerà, e lei li rassicura sempre con la stessa risposta: «Prima della nascita di Nostro Signore e ci porterà tante cose buone.»

Maria ascolta Lisa ed ha una stretta al cuore, anche perché i soldi lasciati da Pasquale sono finiti da un pezzo e, intanto, si sono ammalati Domenico, Lucia ed Enrichetta.

Donna Isabella è buona e sfama tutti, ma non si può dipendere all’infinito dalla carità degli altri.

Il tempo trascorre e non si vede nessuno, siamo quasi a san Martino, ma di Pasquale nessuna notizia.

Le ha, invece, l’inquisizione; a San Marco, lo stesso giorno, l’inquisitore, nel suo austero ufficio, discute con il vicario sul da farsi: «I nostri informatori ci hanno fornito dati poco confortanti.», dice padre Eusebio.

«Abbiamo elementi che facciano pensare ad un piano criminale?», sibila l’inquisitore.

«Le spie hanno appurato l’assenza del Laurenzano.»

«È fuggito?»

«No, è partito per Milano, al seguito di tal Giobatta Pescetto, insieme ad altri individui non certo raccomandabili. Del Pescetto sappiamo che commercia con la Francia e ciò potrebbe essere un riscontro a carico del Laurenzano.»

«Ma andiamo padre Eusebio, non basta commerciare con la Francia per essere una spia, o un mestatore, e in città di loschi individui, al servizio di sua maestà cattolicissima, ce ne sono migliaia, e non per questo osiamo sospettarli di tradimento, o altro, anche se spesso rubano e violentano peggio del nemico.»

«Il nostro uomo, a suo tempo, fu coinvolto nell’episodio degli stemmi sporcati di sterco umano; foste proprio voi ad indagare; intrattiene poi rapporti con usurai ebrei.»

«Rammento l’episodio; gli uomini coinvolti furono istigati da qualche potente, che, al momento opportuno, li fece avvelenare, per non essere smascherato, ma da qui a parlare di congiura politica ce ne vuole e credere che l’unico sopravvissuto, per cause fortuite, fra l’altro, voglia tirarne le fila, mi sembra assurdo. Pasquale Laurenzano, se ricordo bene, era un soldataccio, capace appena di leggere, buono a maneggiare la spada, ma niente di più.»

«E la sua dimestichezza con i veleni?»

«Più che veleni erano unguenti contro i calli e le piaghe ai piedi.», sospira l’inquisitore.

«Ricordo, e fu un episodio buffo, che, per dimostrare che non era veleno, ingoiò il callifugo contenuto in un guscio di noce, trovatogli addosso, durante una perquisizione. Gli accusatori, rimasti delusi dal gesto, subito, pensarono bene di attribuirgli dei poteri infernali, ma si dimostrarono poco credibili. Comunque, va bene, indagheremo, battendo ogni strada. Avete convocato il nobile Parma?»

«Sì, eccellenza, attende in anticamera.»

«Bene, fatelo entrare.»

Il nobile, elegante come sempre, entra nello studio, profondendosi in un vistoso inchino.

«Prego, accomodatevi.», lo invita l’inquisitore.

«Allora, don Cesare, avete indagato sulla provenienza della lettera anonima? Ci sono delle novità?»

«No, eccellenza, ho atteso che l’anonimo me ne inviasse un’altra, per avere qualche idea.»

«Avete atteso un’altra lettera?»

«Certo, io…pensavo…»

«Pensavate.», lo interrompe bruscamente l’inquisitore, «Voi non dovete pensare, dovete eseguire, e vostro compito era quello di indagare per conoscere la provenienza del biglietto, mentre avete atteso il panierino, come se l’informatore fosse a vostra disposizione.»

«Il biglietto fu recapitato ad un mio servo da un ignoto fanciullo.»

«Tutto qui? Magari un fanciullo scomparso nel nulla, come nelle fiabe.»

«Proprio così, eccellenza.»

«Don Cesare, non voglio rimproverarvi, ma sappiate che non è questo lo zelo di un nostro famiglio: egli deve essere insinuante come un serpente, astuto come una volpe, rapido come un’aquila.»

«Perdonatemi, eccellenza, ma non sono le mie qualità.»

«Lo vedo. Sono le qualità di chi ha fede e arde dalla voglia di combattere e non solo nell’alcova delle belle dame. A questo punto, non abbiamo più bisogno di voi, potete andare.», conclude, seccato, l’inquisitore.

Il nobile Cesare, umiliato e anche un po’ intimorito, si inchina e lentamente si ritira.

Entrambi i monaci si guardano negli occhi; nessuno dei due prende la parola, aspettando l’iniziativa dell’altro, alla fine è il vicario a rompere il silenzio: «Cosa ne pensate, eccellenza?»

«È un gran guazzabuglio, e sempre più mi convinco che la lettera nasconda dell’altro. Comunque, o tutto è molto complicato, o è così semplice da non sembrare vero.»

«Il rancore potrebbe essere un movente.»

«Chi è scampato alla galera», replica l’inquisitore, «ha solo voglia di dimenticare e scomparire. L’episodio degli stemmi offesi fu tutto tranne che una congiura politica. No, padre Eusebio, c’è dell’altro e noi lo scopriremo: convocheremo il Laurenzano, lo interrogheremo e, se necessario, lo sottoporremo alla tortura, secondo la prassi.»

«Secondo la prassi, perché ammetta e si penta.», replica gelido il vicario.

I due monaci escono dallo studio e lentamente si incamminano verso la cancelleria, per le disposizioni del caso.

La nebbia, nel frattempo, si è diradata, lasciando spazio al sole, che illumina le strade e scalda la gente, nella imminente estate di san Martino.

È mezzogiorno, la Crosa, la via Larga e le vie intorno alla piazza Maggiore brulicano di una umanità che si aggira fra i forni, i banchi dei formaggi, della frutta, dei tessuti e di ogni altra mercanzia; fra tutti, quasi seguendo la corrente, si muove Pasquale, sono passati due mesi, due lunghi mesi, ma ora finalmente è a casa. Quando è sbarcato, aveva fretta, ha salutato i suoi compagni e si è avviato di corsa verso la porta Nuova; in città però ha rallentato il passo, quasi per assaporare il momento dell’incontro con la sua famiglia; chiuso nel suo mantello, con la spada, avvolta nel panno, sulla spalla e la bisaccia a tracolla, si muove come se non avesse mai visto Alessandria, soffermandosi davanti ad ogni bottega e ad ogni banco.

Ecco la via Maestra, la bottega di Isacco, si avvicina, il mercante è intento a contare del danaro davanti ad un cliente, nota l’amico, ma continua a contare, Pasquale capisce che non vuol essere disturbato e tira avanti. Ecco il palazzo del governatore, da qui intravede la chiesa del Carmelo, non può fare a meno di una deviazione per un saluto.

Entra in chiesa, sosta davanti alla tomba di Giuliano Ghilini, recita una preghiera, quindi ritorna sui suoi passi, uscendo in strada e dirigendosi verso la piazza Maggiore, che attraversa all’altezza della cattedrale.

Quando Pasquale entra nel giardino di casa, non trova nessuno e chiama: «Maria! Lisa! Anna! Ci siete? Sono tornato! Dove siete?»

«Siamo qui!», urlano di gioia, uscendo di casa, Lisa, Anna e Gerarda. Pasquale le abbraccia.

«Venite qua, belle di papà, mi siete mancate. Dove sono mamma e gli altri?»

«Mamma è da donna Isabella. Richetta, Mimì e Lucia sono a letto, ammalati.», risponde Lisa.

«Ammalati? Hanno La febbre? Come stanno?»

«Ora non più», risponde Lisa, «ma i primi giorni era talmente alta che deliravano. La mamma ha continuato a passargli fazzoletti umidi sulla fronte, per rinfrescarli, stavano proprio male.”

«È venuto il dottore.», aggiunge Gerarda, «Lo ha mandato donna Isabella.»

Pasquale abbraccia le figlie, vorrebbe correre dagli ammalati, ma queste lo tempestano di domande: «Cosa ci avete portato, babbo?», chiede Anna.

«Ho portato della frutta candita di Cremona.»

«Siete stato a Cremona?»

«A Cremona, Milano, Genova e in altre città, grandi e belle.»

Attirato dal clamore delle bimbe, si affaccia all’uscio del giardino Giacomo il barbiere: «Sa cu ie! Chi ciacola! Pasqualen, come stai? Eravamo in pensiero; dove si stato?»

«Giacomino, ben trovato. Sono tornato. Sono stato a Milano, a Genova, Cremona; abbiamo trasportato seta, sargette, lino ed altre mercanzie: i carri erano pieni di roba. Abbiamo viaggiato sempre con la miccia accesa, per paura dei banditi, anche quando navigavamo il fiume.»

«Li avete visti?»

«I Farabutti ci hanno attaccato sui gioghi di Gavi. Ce la siamo vista brutta. Pensavo di non farcela. Erano il doppio, o il triplo, di noi, ci avevano accerchiato. Riparati dietro i carri, sparavamo con gli schioppi. Mastro Giobatta urlava che avrebbe venduto cara la pelle e la roba, era un leone, con le pistole ne ha affrontati quattro che si erano avvicinati ad un carro: uno lo ha ucciso subito, mentre gli altri lo hanno circondato; siamo riusciti a tirarlo fuori, prendendo a randellate, con il calcio degli schioppi, i tre. Un nostro compagno, intervenuto in difesa di un altro, ferito e disarmato, è stato colpito a tradimento, è morto quasi subito; la carogna che lo ha colpito, però, non ha fatto a tempo a cantare vittoria, perché Menico, il guercio, armato di pistole, ha atterrato prima lui, poi l’altro che stava per sbudellare un nostro compagno ferito. Erano troppi, però; fortunatamente; quando sembrava tutto perduto, uno squadrone di corazze a cavallo è piombato sui Farabutti, facendone scempio e non risparmiando nessuno.»

Mastro Giacomo, sbalordito: «Hai affrontato tutto questo? »

«Non mi credi?»

«Ti credo. Io sarei morto al primo colpo. Non hai avuto paura?»

«Eccome, ho pensato che fosse venuta la mia ora e mai come in quella occasione ho salutato con gioia lo stendardo del nostro re di Spagna. Certo è che la mia vecchia ferita al braccio sinistro mi fa di nuovo male, ma passerà. Non passeranno invece i Farabutti, che infestano i gioghi di Gavi, se il re non si deciderà a spazzarli via, impiccando i superstiti, come monito per gli altri banditi. Io dico che…»

«Siete un testone. Avete voluto fare di testa vostra e per poco ci rimettevate la vita.»

Pasquale si volta e vede Maria, appena tornata a casa; i due si avvicinano e, senza parlare, si abbracciano, incuranti delle figlie e del barbiere, che, quasi per rompere le uova nel paniere, esclama: «Hai salvato la pelle, eh, mastro Pasquale!»

«Il Signore mi ha aiutato. Sono brutti tempi: se non sono banditi, sono soldati sbandati, che rubano e uccidono, senza badare a nulla. Quattro li hanno trovati morti, mezzi mangiati dai cani, e non si è saputo se li ha uccisi una schioppettata o qualche morbo: erano irriconoscibili, si è capito solo dai vestiti che erano napolitani, delle mie parti; hanno fatto proprio una brutta fine.»

«Siete un testone, non accettate mai consigli da chi vi vuol bene, ma noi vi vogliamo bene lo stesso…»

Maria non conclude la frase e scoppia in un singhiozzo, per pudore, entra in casa, portando con sé la bisaccia del marito, seguita dalle bimbe vocianti e curiose di sapere cosa c’è dentro quel grosso fagotto.

Pasquale si attarda con il barbiere: «Entra, Giacomino, vieni a bere un bicchiere; ho portato con me una bottiglia di quel vino che fanno i monaci della Certosa.»

«A Pavia?»

«Sì, certo.»

«Grazie di cuore, Pasquale, ma non oggi, sei appena tornato, è giusto che tu stia con la tua famiglia. Berremo quel bicchiere un’altra volta; piuttosto, hai una barba lunga: ti aspetto in bottega, domani.»

«Domani è domenica, andremo tutti a messa e poi staremo tutti insieme. Verrò più avanti: cerca piuttosto di non tagliarmi la faccia, come l’ultima volta, affila meglio il rasoio. Ora posso pagare e quindi posso lamentarmi.»

«Ma va nanh!», esclama, ridendo, mastro Giacomo, che esce senza chiudere il cancelletto.

Pasquale entra in casa, è nuovamente circondato dalle sue bimbe, alle quali si aggiunge Domenico, che, richiamato dagli schiamazzi, si è alzato ed è sceso in cucina.

«State buoni», dice il padre, «che ho qualcosa per tutti.»

«Cosa? Cosa?», chiedono i figli.

«Ecco qua!», tirando dalla bisaccia della frutta candita, «Ecco qua, prendete, mangiate e state buoni.»

I bimbi prendono la frutta candita e la divorano in un lampo. Maria non sa cosa dire, ma Pasquale la sbalordisce, tirando fuori dal sacco un pettine: «Prendete, Maria, è d’avorio, non è comune osso.»

«Non dovevate spendere tanto per me. Il regalo è che voi siate tornato sano e salvo.»

«Ho delle buone nuove; intanto prendete questa.»

E posa sul tavolo una piccola borsa di cuoio: «È oro, basterà per l’inverno e potremo pagare qualche debito. La cosa più importante è che ho accettato l’impiego di mastro Giobatta. State tranquilla, la nostra quaresima sta per finire, potremo mangiare a sazietà e vestire dignitosamente, i bimbi potranno calzare anche un paio di zoccoli, invece di camminare scalzi.»

A questo punto, Pasquale abbraccia la moglie e la solleva, destando l’ilarità dei bambini.

«Mettetemi giù, scostumato! Non sta bene davanti ai bambini!», protesta, ridendo, Maria.

«Lisa!», ordina il padre, «Ecco una berlinga, vai con Anna, dal fornaio e dal pizzicagnolo, compra pane, formaggio e lardo e con quello che avanza paga ciò che dobbiamo; intanto la mamma ci prepara una buona zuppa. Dopo mangiato, vi parlerò del mio viaggio e di quello che ho visto, delle città, delle chiese e del mare.»

«Come è il mare?», chiede Domenico.

«È grande.»

«Più grande di Alessandria?», chiede il bimbo.

«Senza fine.», risponde il padre, con un sospiro.

«Voglio vederlo.»

«Lo vedrai quando sarai grande.», replica Pasquale, accarezzando la testa bionda del piccolo.

La sera giunge dopo un giornata trascorsa a parlare, a ridere, a fantasticare davanti al camino; con le tenebre si fa strada la stanchezza, quindi tutti vanno a dormire.

 

Capitolo VIII

Qualcuno batte con violenza alla porta.

«Pasquale … bussano. Chi sarà a quest’ora? Non è ancora l’alba.»

«Vado a vedere.», risponde intontito l’uomo.

«Aprite! Aprite!», gridano da fuori.

«Vado a vedere chi è.»

Pasquale scende la scala e intanto indossa alla meglio il farsetto.

«Aprite al bargello!»

«Il bargello? Vengo! Vengo!», risponde preoccupato Pasquale.

Davanti alla porta, però, ha un attimo di incertezza e chiede: «Chi siete?»

«Il bargello! Aprite in nome del re!», rispondono da fuori.

L’uomo toglie la spranga che ferma la porta, la apre e si trova davanti alcune guardie e un uomo avvolto da un ampio mantello scuro, sul quale risaltano una candida gorgiera e un bianco pennacchio sul cappello.

«Siete voi Pasquale Laurenzano?», chiede quello.

«Per servirvi.»

«Ho l’ordine di scortarvi a San Marco.»

«San Marco? Che ho a che fare con l’inquisizione?»

«Io ho l’ordine, avrete la risposta là.»

«Ma io non ho fatto niente! Ci deve essere un errore!»

«Nessun errore, fate resistenza? Guardie!»

«Pasquale, per amor di Dio, che succede?», chiede angosciata Maria.

«Vi giuro, non lo so! Vogliono arrestarmi!»

«Guardie, eseguite!», ordina l’uomo con la gorgiera candida.

«Papà! Papà!», gridano, piangendo, i bimbi, destati dal tramestio e dalle urla, disperati nel veder portare via il padre.

Maria, alla vista di Pasquale trascinato con la forza, grida, chiede pietà, aiuto, batte i pugni contro lo stipite e cerca di avventarsi sulle guardie, che la respingono in malo modo.

«Mamma, perché portano via papà?», chiedono i piccoli.

«Non lo so, non lo so!», risponde, frastornata, Maria. È però questione di un attimo, sale al piano superiore e ne discende, poco dopo, vestita alla meglio e con lo scialle sulla testa e lungo le spalle.

«Mamma, dove andate?», chiede Lisa.

«Vado a cercare aiuto. Bada tu ai tuoi fratelli; non uscite per nessun motivo, state in casa e aspettatemi. In dispensa c’è un po’ di pane, lo mangerete quando avrete fame; sta’ attenta che i tuoi fratelli non si avvicinino al fuoco.»

«Sì, mamma, ma voi dove andate? Quando tornate?»

«Da chi può aiutarci, Lisa; non so quando tornerò.»

Maria esce come una furia, percorre la rugata in un baleno, attraversa la piazza maggiore, va sempre avanti, via Nova, porta Nova, porta delle Vigna, entra finalmente in Borgoglio e si dirige verso la chiesa di san Pietro, presentandosi davanti alla canonica che è appena terminata la messa; c’è un po’ di movimento e non vuole che la gente la noti, quindi si avvicina all’uscio con circospezione, bussa, apre Rita: «Che volete?», chiede, la perpetua, in malo modo.

«Ho bisogno di don Giovanni.»

«Non c’è. Tornate domani.»

«Ho bisogno di lui ora, è cosa assai grave.»

«Hanno tutti bisogno di don Giovanni per qualche grave motivo; è impegnato, non può ricevervi.»

«È necessari che gli parli.»

«Dicono tutti così!», replica asciutta Rita, «Ve l’ho detto: è impegnato.»

«Mio marito è stato arrestato e i bimbi…»

«E che volete dal parroco? È impegnato! Non avete capito?»

Il tono della discussione attira l’attenzione del prete, che fa capolino alle spalle della perpetua.

«Calmatevi, calmatevi, Rita!», parlando con tono mellifluo, «Don Giovanni c’è sempre per gli amici: entrate, entrate, Maria, volete confessarvi? Andiamo di là.»

Maria, confusa, annuisce, seguendo il prete come un automa, mentre Rita, che conosce il significato di quel “andiamo di là”, rimane sulla porta, con le mani ai fianchi.

Il sacerdote e la donna entrano in chiesa e quindi in una stanzetta accanto al confessionale. Sono soli e nulla li separa, neppure la grata del confessionale.

Maria parla al confessore, gli apre il suo cuore, aspettando una parola di conforto, un consiglio.

Don Giovanni, dopo che la donna ha terminato di parlare, con tono solenne, e dopo un lungo silenzio, inizia: «Vedete da voi che ciò che vi dissi si è avverato.»

«Non capisco.», risponde, stupita, Maria.

«Non capite? Eppure è palese. Siete rimasta chiusa nel vostro egoismo, senza donare a chi desiderava qualcosa da voi. Chi vuole l’attenzione di Dio, deve dare amore, non dimenticatelo.»

«Padre, non capisco. Potete aiutarmi? Potete aiutare mio marito?»

«Voi dovete dare amore. Siete ancora in tempo. Il Signore vi vede e vi aiuta.»

«Cosa devo fare? Ditemi cosa devo fare e lo farò: vi prego, padre, aiutatemi.»

Don Giovanni le prende le mani, gliele stringe: «Non c’è legame fra corpo ed anima; la sozzura del corpo non lede la perfezione dell’anima. Non è peccato baciare; amare. Amate. Amatemi ed io vi aiuterò.»

A questo punto, il prete rompe gli indugi, pone le mani sul seno di Maria e glielo stringe.

La donna è sbalordita, ansima, ma è questione di un attimo, si riprende, allontana le mani dal seno, urla: «Che fate? Siete un porco! Un disonesto! E io che avevo fiducia in voi!»

Esce dalla stanzetta, si allontana di corsa, tornando in strada più scarmigliata di prima. Don Giovanni la segue, senza scomporsi, e, con aria contrita, rivolgendosi ad un fedele che ha assistito all’ultima parte della scena, dice: «È posseduta, non sono riuscito a liberarla.», e si dirige verso la canonica.

Qui gli si para davanti Rita, ancora irritata: «Sarai contento. Ora ti denuncerà all’inquisizione.»

«Sta’ zitta e fila via; ha troppi guai per pensare a me. Domani non ricorderà più nulla. Ora devo andare, ho da confessare donna Monica Gaia, la moglie del mercante di vini; è inferma e devo portarle il conforto della mia parola.»

«E di qualche altra cosa…», replica la vecchia perpetua.

«Ho un dovere da compiere.»

«Sì di soddisfare te stesso.», conclude la donna, esplodendo in una risata sguaiata.

Maria, intanto, cammina per Borgoglio senza una meta, urtando i passanti, che la guardano come se fosse una pazza.

Dopo tanto camminare, finalmente, approda alla casa di donna Isabella. La chiama a squarciagola, la donna si affaccia alla finestra: «Maria, che c’è? Come mai così presto?»

«Sono disperata! Fatemi entrare!»

«Scendo subito!»

L’anziana signora, ancora in abito da notte, scende, apre la porta e Maria entra, come una forsennata, in cucina, sedendosi affranta e singhiozzante.

«Ma che succede? È morto qualcuno?», chiede, angosciata, donna Isabella.

«Peggio.»

«Peggio? Che c’è peggio della morte?»

«Hanno arrestato Pasquale. Stamani è stato portato via dagli uomini del bargello. Ora è a San Marco.»

«A San Marco? Dall’inquisizione? Perché?»

«Non lo so. Subito dopo l’arresto, sono andata da don Giovanni a chiedere aiuto, e questi, dopo i soliti, strani discorsi, mi ha messo le mani addosso, voleva abbracciarmi, farmi fare delle cose brutte.»

«E tu?», chiede, stupita, donna Isabella.

«Sono scappata.»

«Hai fatto bene. È un brutto ceffo. Si dicono troppe cose su di lui perché siano tutte panzane. Dovevi lasciarlo perdere subito.»

«E adesso, come faccio? Chi mi aiuterà?»

«Ti aiuterò io. Tu sei la figlia che non ho mai avuto. Adesso siediti, dobbiamo cercare di avere le idee chiare. Vuoi un po’ di latte caldo?»

«No, non ho voglia di niente.»

«Prendilo, ti farà bene.», e le porge una ciotola di latte scaldato da poco.

Maria lo beve, si rinfranca, è la prima cosa che trangugia da quando si è svegliata. D’un tratto ha un sussulto: «I bambini, poveri angeli, sono soli, nessuno che vi badi. E io che mi ero fidata di quel prete farabutto. Perché il Signore non aiuta chi soffre? Perché si volta dall’altra parte?»

«Adesso non bestemmiare, Maria. Non voglio che parli così di Dio, dobbiamo, invece, pregarlo perché ci illumini sul da farsi. Dobbiamo trovare un avvocato.»

«E chi lo paga? Siamo poveri, se paghiamo l’avvocato, non mangiamo per tutto l’inverno.»

«Non ti preoccupare, al denaro penserò io. Conosco anche un buon avvocato, Lancillotto Gallia, andremo da lui e ci aiuterà. Ora, però, dobbiamo pensare ai tuoi figli, non possono rimanere soli e senza mangiare per tutto il giorno.»

Apre la finestrella della cucina e chiama verso la casa di fronte: «Caterina! Caterina! Vieni, presto, ho bisogno di te!»

«Un momento e sono da voi!», risponde quella.

Passa poco e qualcuno bussa all’uscio della cucina.

«Avanti, è aperto!»

«Sono qui, donna Isabella, di cosa avete bisogno?»

«Ti prego, va’ in contrada San Pietro, dopo la piazza Maggiore, ad accudire i figli di Maria, sono soli, ma prima passa dal lattaio e dal fornaio e compra da mangiare per loro. Un’altra cosa: avvisa tuo marito che oggi avrà due passeggeri sul suo baroccio, dobbiamo andare dal giureconsulto e la strada è lunga, così ne risparmieremo metà. Non preoccuparti, vi ricompenserò per tutto ciò che farete, intanto prendi questo.», e pone in mano della giovane donna una moneta d’argento, tirata fuori dalla tasca della vestaglia.

Caterina esce. Donna Isabella si veste, cercando di mettere in ordine anche la povera Maria, visto che è buona norma presentarsi bene dall’avvocato, per non fare brutta figura.

 

Capitolo IX

È passato Natale, sono trascorsi i mesi successivi, ma Pasquale è ancora a San Marco e l’unica uscita consentitagli è quella del tragitto fra la prigione e l’aula superiore del palazzo di fronte.

Ancora un altro interrogatorio, sempre le stesse domande, le stesse risposte, la stessa incredulità, la stessa tortura.

«Siete pronto cancelliere?», chiede l’arciprete Arnuzzi.

«Sì, monsignore.»

«Procediamo con ordine, leggete il verbale.»

Quello inizia, quasi salmodiando: «Anno Domini Millesimo Quingentesimo Nonagesimo etcetera, etcetera. Interrogatus sul nome. I genitori e la provenienza, l’imputato respondit: Mi chiamo Pasquale Laurenzano, i nostri vecchi hanno nome Domenico e Gerarda, provengo da Perticara, feudo dei nobili De Castella, nel regno di Napoli.Interrogatus sulla sua professione, l’imputato respondit: Fui soldato fino al 1573, da allora campo come posso e faccio vita grama. Interrogatus sul perché non fu più soldato dopo il 1573, l’imputato respondit: Per aver lordato le insegne reali. Interrogatus sul motivo del gesto, l’imputato respondit: Fu colpa del vino. Interrogatus sul motivo del suo arresto, l’imputato respondit: Non lo conosco. Non ho fatto niente: sono innocente. Interrogatus se l’imputato non ha mai avuto libro qual insegni malefici, respondit: Non l’ho mai avuto, so appena leggere e scrivere.Interrogatus se ha alcun secreto per far che uno giocando vinca, respondit: Se avessi il segreto, la mia famiglia sarebbe ricca. Interrogatus se ha alcun secreto per farsi amare dalle donne, respondit: No. Amo solo mia moglie.Interrogatus se ha medicato la signora Margarita Guasco, come se fosse maleficiata, respondit: No, non la conosco. Interrogatus se intendendo che a casa di detta signora andava un frate per liberarla dai malefici e che lui gli fece dire che lasciasse stare quel frate perché quello non era suo mestiere, respondit: No, Dio mio, no.Interrogatus se ha medicato Nicolao Conzano, Caterina Scoglia e la figliola di Stefano Gatto, respondit: Non ho mai guarito nessuno, ho solo venduto un po’ di unguento per i calli a chi me lo chiedeva. Interrogatus se ha mai usato cosa sacra, come ramo d’ulivo o candela benedetta, per fare il suo remedio, respondit: No, mai. Interrogatus se ha mai avuto intelligenza coi francesi e se da questi ha ricevuto denaro per uccidere con malefici, respondit: No, ho sempre combattuto i francesi per il cattolicissimo re. Interrogatus se conosce la fisica praticata dagli ebrei e se intrattiene commercio con essi, respondit: Non so di nessuna fisica degli ebrei, conosco un mercante giudeo, che mi prestò soldi su pegno, come con tanti altri.»

Il notaio termina la lettura del verbale, facendo un inchino.

L’arciprete Arnuzzi, rivolgendosi all’imputato: «Pasquale Laurenzano confermate quanto detto? Avete qualcosa da aggiungere?»

«No.»

L’arciprete, rivolgendosi all’avvocato fiscale, scuote la testa e sbotta:

«Non abbiamo cavato un ragno dal buco; bisogna capire se quest’uomo è un reo, in combutta col demonio, oppure no. È necessario sottoporlo alla fune un’altra volta.»

«No! Alla fune no! Ho il braccio sinistro che mi fa male. Vi prego basta con la tortura!»

Interviene l’avvocato fiscale: «Monsignore, è vero, quest’uomo si è già lamentato del braccio sinistro, offeso in guerra.»

«Vedremo, per ora, procediamo.»

«No! La fune no!», urla Pasquale, mentre due inservienti lo afferrano e lo trascinano verso la macchina; gli legano i polsi; iniziano a tirare; urla: «Muoio! Muoio! Ahh.»

Il dolore è forte, sviene.

«Interrompete!», ordina l’arciprete, «Riportatelo in cella.»

I due inservienti afferrano Pasquale, per mani e piedi, e lo portano via come se fosse un sacco.

«Monsignore.», sussurra il cancelliere.

«Che c’è?», risponde, pensieroso, monsignor Arnuzzi.

«Non dimenticate che avete un appuntamento con l’avvocato Gallia.»

«È vero, lo avevo dimenticato, devo conferire con l’avvocato dell’imputato.»

«Cancelliere, io vado in parlatorio.»

L’arciprete esce dalla sala, ha come un moto di liberazione, gli succede tutte le volte che esce da lì, è come se si liberasse delle sofferenze degli imputati, che in qualche modo ricadono su di lui, sacerdote, come in confessione.

La gente pensa che l’inquisizione sia solo potere e tortura, non capisce che i suoi servitori sono uomini che vestono l’abito, il cui unico scopo è la ricerca della verità, anche a costo di flagellare.

Preso da queste riflessioni, don Cesare Arnuzzi scende le scale, percorre un lungo corridoio, finché giunge al parlatorio.

Qui, in un ambiente spoglio, sotto un grosso crocifisso, appeso alla parete, attende, seduto, l’avvocato, che, alla vista, del religioso, si alza e saluta con molta deferenza.

«Don Leonello, buon giorno, come state?»

«Io bene, e il mio assistito?»

«Purtroppo male, non ha resistito alla corda e abbiamo dovuto sospendere l’interrogatorio.»

«È troppo debilitato.», replica quasi con veemenza l’avvocato, «Bisogna farlo visitare e dargli gli arresti domiciliari per processarlo poi a piede libero.»

«Non correte, avvocato. Ho disposto che venga visitato dal medico del convento, per accertare le condizioni del braccio.»

«Ma in questo modo continuerete a torturarlo in altre parti del corpo.»

«Resisterà. Resistono tutti, eretici, streghe, maghi; sono coriacei, direi demoniaci.»

«Posso vedere il mio assistito?»

«È nel vostro diritto, ma non credo che vi potrà dire molto. Vi accompagno.»

I due escono dal parlatorio, percorrono un corridoio, escono in un cortile, qui si fermano davanti ad una porta; l’arciprete bussa, apre un omone barbuto, vestito di scuro, con alcune chiavi alla cintola, serra la porta alle spalle dei due e, senza parlare, ne apre un’altra, di fronte a loro.

I due percorrono un lungo e tetro corridoio, giungono ad un cancello di ferro, la guardia riconosce l’arciprete, apre, facendoli entrare in un altro corridoio buio.

I tre costeggiano alcuni cubicoli, finché si fermano davanti ad uno di questi; la guardia apre la porticina, i due entrano.

«Posso rimanere solo con lui?», sussurra l’avvocato.

«Certo, ma non potete fermarvi molto.»

«Va bene.»

L’arciprete esce e don Leonello rimane solo, di fronte al detenuto, disteso sul saccone, sotto una ruvida coperta. Da una finestrella penetra una luce fioca, mentre da un buco, situato in un angolo, sale un cattivo odore.

«Pasquale, Pasquale», sussurra l’avvocato, «mi sentite?»

Il prigioniero si lamenta, ma non risponde.

«Mi sentite?», continua l’avvocato.

Pasquale fa un cenno con la testa.

«Coraggio, sto facendo di tutto per farvi processare a piede libero.»

«Avvocato…», sussurra con tono lamentoso Pasquale, «Fate presto… non ce la faccio più, sono un uomo morto.»

«Fatevi forza, sarete visitato da un medico, potrete tornare a casa e…»

«Avvocato, non arrivo vivo alla fine del processo.»

«Avete superato tante brutte situazioni.», lo rincuora l’avvocato, «Ce la farete anche questa volta.»

«Questa volta no, non ce la faccio. Poveri figli miei, povera moglie mia, morirò qui senza vedervi più.»

«Vi manderò del cibo perché vi rimettiate.»

«Povero me, sono morto.»

«Ora devo lasciarvi, ma tornerò presto.»

L’avvocato si allontana, esce dalla cella; fuori lo attende l’arciprete: «Allora, come lo avete trovato?»

«È un uomo finito, se rimane qui, muore e non termineremo neppure il processo.»

«State tranquillo.», con tono sarcastico, «Lo concluderemo, lo concluderemo.»

I due si allontanano, accompagnati dalla guardia che fa loro strada, procedendo a ritroso, in silenzio, per i corridoi bui. Escono nel cortile, superano la porta del convento e, a questo punto, dopo aver tirato un lungo sospiro di sollievo, l’avvocato rompe il silenzio.

«Lo tirerò fuori da qui e verrà processato a piede libero. Costi quel che costi.»

«Buon per voi, per ora, però, rimane con noi e dobbiamo ancora sapere qualcosa.»

«Cosa dovete sapere? Non vi basta sapere che non conosce niente di ciò che chiedete? Non vedete in che stato è? Pensate che se avesse saputo qualcosa non l’avrebbe detto, pur di uscire da questo inferno in cui lo avete gettato?»

«L’inquisitore ha il dovere di insistere finché l’animo dell’imputato emerga nella sua completezza, come la lavandaia fa con le calze, che rivolta più volte per far venir fuori lo sporco.»

«Ma Pasquale Laurenzano non è una calza e anche se lo fosse ha più l’aspetto di una calza lacerata e sfilacciata che quello di una sana.»

«Meglio se la calza è lacera, non verrà più usata.»

«Ma che dite!», replica, indignato, l’avvocato, «Pensate forse che sia meglio che gli imputati muoiano prima dei processi?»

«Sarebbe comodo, perché, oltre a risolvere il caso, fungerebbero da deterrente verso i deboli e gli incerti fra quelli che sono i potenziali eretici, ma questo non è giusto e la gente deve avere la consapevolezza che l’inquisizione non teme la verità e condanna con cognizione di causa e non per arbitrio.»

«Stiamo sconfinando dal seminato, monsignore, perdonate, ma non ho tempo di continuare questa conversazione. Vi saluto.»

«Salute a voi, avvocato.»

I due si allontanano, l’arciprete verso lo scalone, che porta al piano superiore, l’avvocato verso l’uscita.

Quando questi esce respira profondamente, come se volesse liberarsi di qualcosa.

Far uscire Pasquale, più morto che vivo, sta diventando il suo chiodo fisso; deve parlare con la moglie, sapere su quali mezzi, o aiuti, può contare la famiglia e se, comunque, c’è qualcuno che garantisca per loro. Da ciò che ha visto, l’imputato è mal ridotto e se non si farà qualcosa entro breve, potrebbe essere troppo tardi.

Pensieroso, l’avvocato cammina a lunghi passi verso contrada San Pietro.

Nella casa di Pasquale, intanto, da quando lo hanno arrestato, sembra regnare il lutto: non un rumore, Maria piange sommessamente, solo donna Isabella, ormai di famiglia, va avanti e indietro, in silenzio, prepara il pranzo, accudisce i bimbi, bada alla casa e tiene i contatti con l’avvocato.

Il silenzio è rotto dall’arrivo di don Giovanni; Maria è imbarazzata, fredda; lui sembra aver dimenticato l’episodio di alcuni mesi prima e ostenta simpatia.

«Non vi ho più vista, non siete più venuta a confessarvi.»

«Non ho potuto.», replica fredda la donna.

«Non avete tempo per la confessione? Eppure so che siete in difficoltà, vostro marito…»

«Ho già chi mi aiuta, non vi incomodate.»

«Potremmo pregare insieme; Dio premia chi lo prega, chi ama e chi dona.»

«Siete voi che, come prete, dovete donare.», risponde, seccata, donna Isabella, entrata, nel frattempo, in cucina.

«Donna Isabella, voi qui?»

«Certo, io, visto che nessuno si degna di aiutare questi infelici, neppure la Chiesa, con il conforto della parola, ci sono io.»

«Siete parenti?»

«No, fortunatamente, visto che i pochi parenti di Maria, prima, hanno ostacolato il matrimonio e, ora, si guardano bene di sfidare l’inquisizione con la carità. Faccio ciò che farebbe sua madre se fosse ancora viva.»

«Ma ci sono io.», replica il prete, «Posso prendere sotto la mia protezione tutta la famiglia, ho conoscenze, posso fare molto per Maria.»

«Avete già fatto molto… Maria non ha bisogno di altro e poi, per ogni evenienza, ci sono io.»

«Vi illudete, povera anima, potete fare ben poco.»

«Evidentemente, non conoscete la Divina Provvidenza.»

A queste parole, don Giovanni fa una smorfia: «Non insisto. Maria, se avete bisogno, sapete dove sono.»

Raccoglie quindi la sua elegante figura dentro il mantello scuro, si volta ed esce dalla cucina senza proferire saluto.

Maria, fino a quel momento contenuta, scoppia a piangere e abbraccia donna Isabella.

«Sfogati, fai uscire tutta la tua rabbia.»

«E pensare che mi fidavo di lui.», singhiozza Maria.

«Preti così non servono Dio, né la Chiesa, ma solo se stessi. Sta’ tranquilla, c’è una giustizia divina che, prima o poi, chiederà conto a don Giovanni e a tutti coloro che vi stanno facendo soffrire, a cominciare da quel mascalzone che ha denunciato un innocente.»

Già, il mascalzone che ha denunciato un innocente, sta uscendo proprio ora dalla casa di Maria e pensa che, in fondo, questa gente non merita nulla, anzi, merita di stare nel proprio brodo. Il pensiero di scrivere un’altra lettera, che scagioni Pasquale, gli sfiora la mente, magari accusando il mercante di vini, sarebbe un bel colpo: eliminare il marito e papparsi moglie e soldi; ma ormai è fatta, la mercantessa pende dalle sue labbra e poi perché scagionare il marito di Maria? Per la sua coscienza? La coscienza può attendere e i soldi di Monica la sgraveranno, facendogli fare molto bene… una lettera che scagioni quell’uomo, ma che se la sbrighino lui e quelle due megere.

A questo punto, i pensieri di don Giovanni sono rivolti verso una popolana formosa, che, superandolo, con un cesto sul capo, mette in evidenza la sinuosità del suo corpo.

 

Capitolo X

L’avvocato Gallia cammina, avanti e indietro, lungo il corridoio del piano superiore di San Marco, in attesa di essere ricevuto.

Si apre una porta, un domenicano si affaccia e gli fa cenno di entrare. Entra con piglio deciso, ma sa di dover essere cauto, ogni gesto, ogni parola, ogni pensiero possono nuocere al suo assistito. Ha dovuto lottare perché questi fosse sottoposto ad una perizia medica più accurata rispetto alla precedente, fatta dal medico dell’inquisizione, che, al momento di sottoscrivere la sua deposizione, si era dichiarato incapace di firmare ed aveva apposto un segno di croce in calce al documento.

Per il tribunale, perizia e perito erano affidabili; ha dovuto sudare sette camicie per trovare medici disposti a visitare Pasquale e a dichiararlo menomato nell’uso dell’arto sinistro, quindi non sottoponibile a tortura, ma, anzi, soggetto al regime degli arresti domiciliari e a cure che gli consentissero di riprendersi dalla grave debilitazione.

«Accomodatevi, dottor Gallia.», lo invita l’arciprete Arnuzzi, «Con voi siamo al completo e possiamo dar luogo alla lettura della perizia medica che avete richiesto.»

«Grazie, monsignore.»

«Bene, siete pronto cancelliere? Fate entrare i signori medici Camillo Capriata e Mario Galìa.», ordina l’arciprete.

I due entrano, profondendosi in un inchino e ponendosi di fronte ai membri del tribunale.

«Signori.», inizia l’arciprete, «Avete redatto una relazione scritta?»

«Sì.»

«Volete procedere?»

«Certo.»

Il dottor Capriata apre la grossa cartella, che tiene sottobraccio, ne cava alcuni fogli e li consegna al collega, che comincia a leggere: «Nos infranse, artium et medicinae doctores de collegio civitatis Alexandriae fidem facimus et cum iuramento dicimus sicuti de mandato multum reverendi domini vicari episcopalis…»

«Bene.», lo interrompe l’arciprete, «Grazie per la vostra puntualità; consegnate pure il documento al cancelliere, che lo allegherà agli atti, e procedete pure in volgare; non c’è nessuna difficoltà di comprensione da parte del tribunale, ma solo la necessità di arrivare direttamente al punto.»

«A vostro piacere!», replica, asciutto, il dottor Galìa, «Il mio collega, uomo facondo, vi renderà edotti delle nostre conclusioni.»

Il dottor Capriata fa un passo avanti e, dopo essersi schiarito la voce, comincia a parlare: «Abbiamo visitato Pasquale Laurenzano, nelle carceri di San Marco, e lo abbiamo trovato giacente a letto, colpito da una febbre continua, da forti dolori alle braccia e da lussazione del pollice della mano sinistra, tanto che riesce a muovere a stento mani e braccia. La tortura ha causato questa condizione e ha aggravato una menomazione al braccio sinistro preesistente alla detenzione. Abbiamo riscontrato inoltre ustioni ai piedi, dalle piante ai malleoli: il fuoco ha leso la pelle e i muscoli, tanto da offendere il nervo della coscia sinistra, che si è ritirato a tal punto da stendersi a fatica. Anche questo è frutto di tortura, dato che, in seguito alla perizia dell’esimio dottor Piscuarra, che aveva riscontrato la menomazione, nella visita successiva a quella del medico dell’inquisizione, i giudici avevano sostituito la fune con il fuoco. Ora, però, l’uomo è fortemente debilitato, anche per la presenza del morbo gallico, per cui sarebbe necessario il trasferimento in un luogo asciutto e dove fosse più facile curarlo, perché la sua permanenza in carcere potrebbe essergli letale.»

Dopo queste parole, scende un cupo silenzio, rotto però, quasi subito, dalla voce dell’avvocato Gallia: «Chiedo a codesto reverendo tribunale che il mio assistito venga rilasciato mediante fideiussione, perché possa curarsi e faccio pubblica protesta di fronte ad un verdetto negativo, in quanto la gravità della situazione non richiede indugi.»

«Adagio, adagio.», replica l’arciprete, «Verità e giustizia stanno a cuore a noi quanto a voi. Nessuno vuole che Laurenzano marcisca in prigione, tanto meno ingiustamente, e noi conosciamo la legge. Vi preghiamo quindi di uscire perché il tribunale possa deliberare in piena serenità.»

I medici e l’avvocato vengono accompagnati fuori dallo stesso monaco che li ha fatti entrare, quindi la pesante porta si chiude alle loro spalle.

I due medici, dopo averlo salutato, si allontanano, mentre l’avvocato rimane immobile e pensieroso, in mezzo al corridoio, per un lungo lasso di tempo, fino a quando, cioè, viene richiamato dal monaco.

Entrato, don Leonello si pone di fronte al tribunale, mentre l’arciprete Arnuzzi si alza e, tenendo un foglio fra le mani, inizia a leggere con tono solenne: «Il molto magnifico e reverendo signor vicario, esaminati gli atti e stante le attestazioni dei magnifici signori fisici, e ad ogni buon fine ad effetto e affinché in carcere non patisca danno maggiore per le difficoltà di accesso di persone essenziali per il servizio e la cura del detenuto stesso e affinché possa essere curato meglio, d’accordo con il signor avvocato fiscale della curia, ordina che detto Laurenzano debba essere rilasciato da detto carcere, prima però essendo stata versata la necessaria cauzione di 400 scudi e data la garanzia di non allontanarsi dalla propria casa, sita in rugata San Pietro Capitis Vitis.»

Udita la sentenza, l’avvocato, stringendo i pugni, esclama: «È passato più di un anno, ma finalmente la giustizia si è tolta la benda!»

«L’ha tolta.», risponde, freddo, l’Arnuzzi, «Ma avete vinto solo una battaglia, non la guerra, e questa è ancora lunga.»

«Voglio dare subito la notizia alla famiglia e al mio assistito: posso fargli visita subito?»

«Siete autorizzato, ma ricordate che sarà fuori solo dopo aver versato la cauzione. Padre Zaccaria accompagnate l’avvocato nella cella del Laurenzano.»

Il monaco fa un cenno di assenso e si allontana, facendo strada. Scendono lo scalone, percorrono il corridoio del piano terra, attraversano l’ampio cortile, superano la porta del carcere, l’avvocato si trova nuovamente avvolto dall’ oscurità di quei corridoi.

La guardia apre la porticina del cubicolo, l’avvocato entra e si avvicina a Pasquale, immobile sul giaciglio, nella penombra e nel cattivo odore. E’ febbricitante, la sua mano è calda e gonfia.

“Pasquale», gli sussurra l’avvocato, «fatevi coraggio, fra non molto uscirete, su cauzione, ma uscirete.»

L’uomo, privo di forze, cerca di alzare la testa, ma l’avvocato l’obbliga a rimanere disteso: «Non temete, uscirete di qui, vi riprenderete e riusciremo anche a dimostrare la vostra innocenza.»

«Non ce la faccio più, morirò prima di uscire, poveri figli miei. Sarebbe stato meglio se fossi morto in guerra.»

«Uscirete, ce la farete, confidate in Dio.»

«Dio ci ha abbandonati.»

«Uscirete, dovessi pagare io la cauzione.»

A questo punto, l’avvocato si commuove, due lacrime rigano il suo volto, non vuol farsi vedere, stringe la mano di Pasquale ed esce dalla cella.

 

Capitolo XI

400 scudi sono una grossa somma, soprattutto per chi non ce l’ha. Il tribunale ha applicato la legge, senza sconti, facendo sì che la legge fosse uguale per tutti, dura lex, sed lex, ma a volte è veramente atroce.

Alla notizia della scarcerazione su cauzione, Maria ha pianto, ma l’avvocato non ha capito se per gioia o per la disperazione di trovare i 400 scudi.

Il verdetto del tribunale non ha rinfrancato gli amici, o riavvicinato i pochi parenti, a distanza di un mese, donna Isabella e Maria sono riuscite a mettere insieme solo 100 scudi; eccole quindi girovagare sulle rive del Tanaro, fra le imbarcazioni attraccate, alla ricerca di Giobatta Pescetto, che tanto aveva promesso a Pasquale.

«Cerca di avere pazienza, Maria, Bartolomeo, il carrettiere, mi ha detto di averlo visto ieri e di aver saputo che sarebbe ripartito fra qualche giorno.»

«Chissà se sa ciò che è successo a Pasquale? Visto che non lo ha mai cercato, penso che non sappia niente.»

«Troviamolo», replica donna Isabella, «e lo sapremo.»

Le due donne si aggirano fra merci ammassate e soldati, che continuano a sbarcare dalle numerose chiatte: si odono ordini in tedesco, spagnolo e in un italiano dalle varie inflessioni, sono reparti, provenienti da Cremona, che si stanno mettendo in marcia, per raggiungere la cittadella di porta Marengo.

Maria e Isabella sono intimorite, sguardi famelici le seguono, specie la più giovane, sono imbarazzate, cercano di allontanarsi, ma è un continuo trovarli davanti e udire pesanti allusioni e parolacce nelle lingue più strane.

Un carrettiere, che impreca contro il mulo e i soldati, che gli impediscono il passo, si avvicina alle due donne, che, rincuorate, lo fermano:

«Scusate.», chiede donna Isabella, «Conoscete il mercante Giobatta Pescetto?»

«Ehh!»

«Conoscete Giobatta Pescetto, il mercante?»

«Giobatta Pescetto… Ah sì, quello delle monete tosate.»

«L’avete visto?»

«Sì, poco fa, stava litigando con il cambiavalute.»

«Dov’ è questo cambiavalute?»

«Più su, verso il torrione Baratta.»

«Grazie, buon uomo.», gli dice donna Isabella, mettendogli una moneta in mano.

Le due donne risalgono la riva, finché non giungono presso una botteguccia il muratura, da dove provengono urla e schiamazzi.

«Ti ho già detto tante volte, figeu, che questo è danaro buono come l’altro!»

«Quelli dell’altra volta erano 100 scudi larghi buoni, questi no, sono calanti!»

«Sempre la stessa storia delle monete calanti!», urla Pescetto.

«La grida parla chiaro!», urla il cambiavalute, che inizia a leggere, «Che niuna persona ardisca a tosare alcuna moneta d’oro e d’argento, e quelli che, sapendo…»

«Conosco anch’io la grida! Non ti fidi di Giobatta Pescetto?»

A queste parole, interviene donna Isabella: «Perdonate, signore.»

«Che volete!», risponde, scorbutico, il mercante.

«Perdonateci ancora, signore.», ribatte, umile, l’anziana donna, «Siete voi il mercante Giobatta Pescetto di Genova?»

«Sicuro.», ancora con tono burbero.

«Scusateci, ma abbiamo bisogno di parlarvi.»

«Con me ? Che volete da me? Non vi conosco! Non voglio avere a che fare con donne.»

«Signore!», risponde irritata, «Ma per chi ci avete preso? Io sono donna Isabella Panza e questa è Maria, moglie di Pasquale Laurenzano.»

«Ah, Pasquale, ho saputo che ha avuto un guaio: Come sta?»

«Dunque, sapete.», sbotta Maria.

«Certo, ma quando c’è di mezzo l’inquisizione, è meglio girare alla larga.»

«Sicuramente.», risponde pacata Isabella, «Ma non avete pensato che una vostra testimonianza, o una parola buona, avrebbe dato sollievo ad un povero disgraziato e alla sua famiglia?»

«Sono troppo occupato per pensare a certe cose. Clienti e fornitori sono sempre pronti ad imbrogliarti, viviamo in un brutto mondo.»

«Gli avevate offerto un lavoro, però.», interviene Maria.

«Non se ne è fatto niente, ho perso ancora delle palanche.»

«Voi avete perso? Abbiamo perso noi ! La sua famiglia non ha più un padre! E voi parlate dei vostri affari!», gli urla Maria.

«Ma insomma, che volete da me? Volete un aiuto? Pronti: non sia mai detto che Giobatta Pescetto neghi l’aiuto a chi lo chiede, e per gli amici anche la vita.»

«Signore.», interviene donna Isabella, sempre con tono pacato, «Vi abbiamo cercato proprio per questo: Pasquale è molto malato e può essere scarcerato solo dietro una cauzione di 400 scudi…»

«Ma per chi mi avete preso!», la interrompe paonazzo Giobatta, «Sono un mercante, mica un bandito, il denaro lo guadagno, non lo rubo! Ma guarda un po’ che gente, sempre pronta a spillarti dei soldi! Mi avete preso per un gonzo! Non mi chiamo Felice!»

A questo punto, Maria scoppia a piangere, ma Isabella esplode: «Adesso ascoltatemi! Siete un bugiardo! Pasquale ha rischiato la vita per voi e lo ringraziate così? Siete indegno di essere chiamato uomo e mercante! Voi non sapete neppure dove sta di casa l’onore!»

«Ma lasciatemi in pace ! Andate via!»

«Ce ne andiamo, ce ne andiamo. Vieni Maria, qui non abbiamo più niente da fare.»

Le due donne si allontanano, mentre Pescetto continua ad urlare, anche se le due non capiscono, a causa della distanza, se contro di loro o il cambiavalute. Risalgono la sponda del fiume, costeggiano un tratto di mura, forse un quarto di miglio, e rientrano in città da porta Nuova. Sfumata la rabbia del primo momento, procedono meste, senza proferire parola, Isabella avanti e Maria dietro, passano in prossimità delle case degli Umiliati, ormai desolate, solo qua e là alcune donne sono intente a qualche lavoro domestico, costeggiano San Andrea, raggiungono via Larga, dove sono investite da un forte sentore di formaggio. Qui, però Isabella piega verso il convento di san Giacomo, per cui Maria chiede: «Ma dove andiamo? Non stiamo tornando a casa.»

«Lo so io dove andiamo, non ti preoccupare, Maria.»

«Lo sapete voi, ma vorrei saperlo anch’io dove stiamo andando.»

«Da uno che può aiutarci, da un anziano cavaliere gerosolimitano, precettore di San Giovanni Piccinini. Lo conosco da molto tempo: è un uomo di gran cuore, non si è mai tirato indietro di fronte ai bisogni degli altri, è proprio un uomo di Dio.»

«Ma dobbiamo arrivare fino a porta Genova.»

«Ti secca? Hai camminato tanto, fai ancora uno sforzo; vuoi aiutare tuo marito?»

«Avete ragione, donna Isabella, ma sono stanca e demoralizzata, cercate di capirmi.»

Le due donne camminano in mezzo a tanta gente, ormai è quasi mezzogiorno, ma sembrano non accorgersi di nessuno.

Finalmente, giungono a san Giovanni, che si presenta loro un po’ malandata, l’intonaco cade a pezzi e alcune finestre hanno i vetri rotti, si avvicinano alla porta della canonica e tirano la corda di un campanello, che rauco, avvisa i residenti.

Sull’uscio, si affaccia un anziano cavaliere.

«Buon giorno, padre, sono Isabella Panza, mi riconoscete?»

«Isabella, sei tu? Quanto tempo è passato. Come stai?»

«Bene e voi?»

«Ringraziando il Signore, non posso lamentarmi, anche se, ormai, la vecchiaia, con i suoi acciacchi, avanza; fortunatamente, stiamo andando verso la bella stagione e questo è buono; ma dimmi, come mai ti sei spinta fin qui?»

La donna racconta brevemente la vicenda di Maria e Pasquale.

Terminata la narrazione, il religioso, dopo un lungo sospiro, risponde: «Cara Isabella, tu sai che ho sempre aiutato il prossimo, seguendo la parola evangelica, ma questa volta non lo potrò fare: guarda il mio abito, è liso e di un colore indefinito; la mia chiesa versa in cattive condizioni e, nonostante l’ordine di restaurarla, ricevuto dal visitatore apostolico, che la trovò indecente, non sono riuscito a fare gran che. Mi mancano i denari. Un tempo le cascine della precettoria rendevano un centinaio di scudi netto, ora sono parzialmente abbandonate e danno appena di che vivere a me e ai massari. Non posso aiutarti. Ciò che mi chiedi è esorbitante.»

«Ma se voi garantiste per noi», insiste donna Isabella, «forse potremmo trovare un prestatore.”

«Nonostante l’abito, oggi, ben pochi sono disposti ad accettare garanzie da un gerosolimitano spiantato.»

«Ma il vostro ordine non fa nulla?»

«L’ordine ha bisogno di danaro per combattere i turchi sul mare e soldi non ne può dare, anzi ne pretende ancora da ogni precettoria. Mi dispiace, ma non posso proprio aiutarti. Posso dare a questa famiglia solo qualche filippo per combattere la fame.»

«Non vi incomodate, padre, a questo penso già io, però una cosa la potete fare e so che la farete: pregate per questi poveri infelici e per me.»

«Lo farò con tutta l’anima e tutte le mie forze, che Dio vi assista in questo momento periglioso.»

Le due donne, rimaste sempre sulla porta, si congedano e riprendono il cammino del ritorno, senza più parlare fino alla contrada di San Pietro.

Quando giungono nel piccolo giardino di casa, sono sfinite, hanno bisogno di un sorso d’acqua e si avvicinano al pozzo, ma Maria non fa a tempo a tirar su il secchio che i bimbi le vengono incontro, vociando, tanto che non capisce ciò che dicono.

Le due donne, quasi spinte, entrano in casa e trovano, seduto, Isacco Sacerdoti, l’ebreo. Maria e Isabella sono sbigottite, non sanno cosa dire, è l’uomo a rompere il ghiaccio; si alza, chiuso nell’ampio e scuro lucco, che lo fa apparire più alto e mette in risalto la candida barba, si avvicina a loro, le saluta: «Buon giorno, Maria, buon giorno, signora, vi chiederete come mai un giudeo sia qui, a casa vostra: è per un debito, un debito di riconoscenza, che questo vecchio ha nei confronti di un uomo tanto testardo, quanto onesto, che non ha avuto paura di mettersi contro tutti, pur di salvare un ebreo accusato ingiustamente. Oggi sono io che devo fare qualcosa per lui. Sarei andato a testimoniare, ma la mia testimonianza lo avrebbe danneggiato, più che aiutato. So che avete bisogno di 400 scudi per la fideiussione, eccoli.»

Tira fuori una grossa borsa e la pone sul tavolo: «Accettateli, vi prego, me li restituirete quando e come potrete. Piuttosto, vi restituisco questa.», e depone sul tavolo una polizza, «Sono i 20 scudi che avevo prestato a vostro marito: il debito è stato ampiamente saldato dalle sue sofferenze.»

Maria, attonita fino a quel momento, scoppia a piangere, i bambini, impauriti, le si stringono attorno, ma donna Isabella interviene con energia: «State buoni, bambini, non è niente, la mamma piange di gioia, è contenta perché presto vostro padre tornerà a casa!»

Poi, rivolgendosi ad Isacco: «Signore, perdonate se parlo io, ma la poverina è sfinita dalla fatica e dalle emozioni, grazie per ciò che state facendo, che Dio ve ne renda merito. Egli è grande e misericordioso. Quando cominciavamo a disperare, ha mandato un angelo.»

«Dio è grande.». ripete Isacco, «Lodiamolo, benediciamolo e preghiamolo in questi momenti duri e oscuri per tutti.»

Maria, ripresasi, si avvicina al vecchio e lo abbraccia, ringraziando: «Che siate benedetto, grazie di cuore, voi avete salvato un uomo morto. Dio vi benedica.»

Isacco, imbarazzato per l’abbraccio, abbozza un sorriso, accarezzando Maria sul capo: «Considerate il mio aiuto come quello di vostro padre, potrei esserlo. Ascoltatemi, se aveste ancora bisogno, non preoccupatevi di chiedere aiuto, ve lo darò con tutto il cuore. Ora devo andare, non vorrei che la gente malignasse per la mia presenza qui. Dite a Pasquale, quando lo vedrete, che gli voglio bene: è un testone, ma gli voglio bene.»

A questo punto, l’uomo si avvia verso l’uscita, accompagnato da tutti, ma prima di superare la porticina del piccolo giardino, si volta, fa un cenno della mano, quindi si allontana lento e un po’ curvo.

 

Capitolo XII

Il giorno della scarcerazione, Maria, donna Isabella e Bartolomeo, il carrettiere, attendono, ormai da due ore, davanti a San Marco, si sono levati molto presto per essere lì per tempo.

«Perché non esce?», sussurra Maria, quasi timorosa di essere udita da quelli di dentro.

«Stai calma, è solo questione di tempo, se l’avvocato ha detto che oggi lo scarcereranno, è così, devi aver fiducia, don Leonello è un uomo di parola.»

«E se avessero cambiato idea? E se qualcuno si fosse opposto? E se non potesse muoversi?»

«Sta’ tranquilla.», quasi le ordina l’anziana signora.

Bartolomeo tira fuori dalla bisaccia un pezzo di pane e lo offre alle due donne: «Volete favorire? Serve per ammazzare il tempo.»

«No, grazie!», risponde Maria, «Ho un tale magone che non riuscirei a buttar giù una goccia d’acqua.»

«Grazie tante.», replica donna Isabella, «Ma mangiare è l’ultima cosa a cui penso.»

«Permettete?», chiede Bartolomeo, portando il pane alla bocca.

«Certo.», rispondono all’unisono le due donne.

La strada comincia ad animarsi, anche se meno rispetto alle vie circostanti, quasi la gente tema quel luogo.

I passanti badano poco a quei tre vicini al portone del convento, abituati come sono a scene di questo genere.

Mentre questi attendono, passa un soldato spagnolo, indossa un corpetto di cuoio ed un elmo metallico, ma non è armato, se non di un pugnale, che porta agganciato alla parte sinistra della cintola, riconosce Maria, le si avvicina e saluta ad alta voce: «Olà, donna Maria, como va?»

«Alvaro!», urla quasi con gioia la donna e rivolgendosi ai suoi accompagnatori, «È Alvaro, un amico di Pasquale; non vi ho più visto, dove siete stato?»

«Nelle Fiandre e sono tornato, con la mia compagnia, da pochi giorni, rimarrò in città per un po’ di tempo, potremo vederci; piuttosto, come sta quel lavativo di Pasquale?», e così dicendo, sghignazza.

«È la dentro.», risponde Maria, indicando San Marco, «Lo stiamo aspettando.»

«Como ? Là dentro?», ribatte, di colpo, attonito, Alvaro.

Maria racconta brevemente la storia al soldato, che non crede alle sue orecchie.

«Pasquale un fattuchiero, ma chi hombre ha pensato ciò?»

«Eppure…», replica, mesta, Maria.

«Parlerò con i miei compagni, con il mio comandante, Pasquale è stato un valoroso, cercherò delle testimonianze, raccoglierò dei soldi, nos otros, soldati spagnoli, non abbandoniamo un valoroso; intanto vi farò compagnia e lo aspetterò con voi.»

Finalmente, quando il sole è già alto e le vie circostanti brulicano di persone, il portone si apre: escono, prima, l’avvocato e, poi, molto lentamente, Pasquale; i due rimangono fermi davanti al portone, che si chiude pesantemente alle loro spalle, quasi a respirare l’aria pulita.

Maria non riconosce il suo Pasquale, il bel giovane bruno che l’aveva conquistata, è un uomo zoppicante, curvo, smunto, dentro un farsetto che gli sta largo, gli corre incontro, piangendo, seguita da donna Isabella e Alvaro.

Marito e moglie si abbracciano, singhiozzano, senza parlare. Alvaro, per rompere la tensione, gli dice, bonariamente: «Pasquale, vecchio mio, volevi farci un brutto scherzo.»

Pasquale lo guarda, lo riconosce, gli sorride, ma non gli risponde, parla, invece l’avvocato: «È debole, e poi i patimenti della tortura lo hanno quasi ammutolito, portatelo subito a casa, deve riposare e mangiare, mi raccomando.»

«Señor.», chiede, turbato, Alvaro, «Si riprenderà?»

«Certo, ma ci vorrà del tempo, questa esperienza lo ha provato; mi raccomando, non fatelo affaticare.»

«Grazie, avvocato!», interviene donna Isabella, «Grazie con tutto il cuore.»

«Ho fatto il mio dovere di avvocato, l’avrei fatto per chiunque.»

«Ma voi l’avete fatto con l’anima e questo vi fa onore.»

«Abbiamo vinto solo una battaglia, ora, speriamo di convincere il tribunale sull’innocenza di Pasquale.»

«Ci sono delle nuove.», replica l’anziana signora, con entusiasmo, «Questo soldato è pronto a testimoniare per Pasquale e a cercare altri testimoni che dimostrino la sua onestà.»

«È già una buona cosa, ma ci vogliono fatti concreti che smontino le prove d’accusa e, per adesso, ne siamo sprovvisti.»

«Ah, se si conoscesse il perché di questa accusa infame.»

«Donna Isabella, praticamente chiedete l’impossibile!», replica, sorridendo, l’avvocato, «In mancanza d’altro, dovremo far sorgere il dubbio nei giudici, questo, forse, non eviterà a Pasquale la pena, ma certamente gliela mitigherà e ciò è sempre meglio che affogare in una galea affondata dai barbareschi. Ora, però, tornate a casa, io vi raggiungerò domani.»

«Grazie ancora, dottore.», dice donna Isabella, mentre si riavvicina agli altri; insieme si dirigono verso il carretto, sul quale, Pasquale viene fatto salire a fatica, lo segue la moglie; donna Isabella si siede a cassetta, accanto a Bartolomeo, mentre Alvaro li segue a piedi.

Il carro si avvia, percorrendo le strade affollate.

Quando Pasquale giunge davanti alla sua casa, e scende dal carro, scoppia in lacrime, credeva che non l’avrebbe più rivista.

I figli, da tempo in attesa sulla strada, rimangono ammutoliti alla visione del padre, tocca a donna Isabella rincuorare gli animi: «Bambini, state allegri, Vostro padre è tornato!»

Quelli sono titubanti: «Forza, abbracciatelo, vi vuole bene.»

A questo punto, i bambini si lanciano verso di lui, lo abbracciano, lo baciano e Pasquale non può fare a meno di sorridere.

Il piccolo gruppo entra in casa, rimangono fuori solo Bartolomeo, che, dopo aver salutato, riparte, e Alvaro, fermo davanti all’uscio del giardino.

Maria si affaccia per farlo entrare.

«No, donna Maria, è giusto che siate voi soltanto; Pasquale è mancato da casa per molto tempo, deve stare con la sua famiglia; verrò domani, così parleremo un pochino.»

«Come volete, allora a domani.»

«A domani.», risponde Alvaro, che torna sui suoi passi; cammina di buona lena e, lungo la strada, ha un’idea: può fare qualcosa subito per il suo amico, con il quale ha condiviso tanti momenti della vita militare, non potrà raccogliere delle testimonianze, ma sicuramente potrà raggranellare del denaro, utile per pagare l’avvocato e, perché no, per comprare qualche testimone. Si dirige quindi verso la cittadella di porta Marengo, oggi è giorno di paga e troverà sicuramente ancora molti soldati in attesa di riscuotere la decade e perciò disposti a dare qualcosa per aiutare un loro ex commilitone.

La situazione in cittadella, quando arriva Alvaro, è, a dir poco, caotica: di fronte ad una delle polveriere, vi è un andirivieni di civili e militari, che caricano, sui carri, polvere da sparo, palle di cannone e pezzi di artiglieria; il castellano, in piedi su una tavola sostenuta da due cavalletti, dà ordini a destra e a manca, lanciando urla disumane nei confronti di chi, addentrandosi nei magazzini, tiene la lucerna senza badare troppo a quelli che gli vengono incontro con, in spalla, un barilotto di polvere da sparo.

Alvaro si dirige verso lo spiazzo erboso, dove, di fronte alla chiesa, seduti davanti ad un tavolo improvvisato, un asse su due tamburi, due furieri effettuano il pagamento della decade.

Questi, rispetto ai commilitoni, spesso con abiti lisi e rattoppati, che rumoreggiano, seduti sul prato, sono eleganti, completamente vestiti di rosso, con giubbe dalle ampie maniche, pantaloni a sbuffo e stivali al ginocchio.

I loro gesti sono lenti, quasi calcolati.

Sul tavolo, un po’ alla rinfusa, ci sono gli elenchi dei soldati, un calamaio, uno stiletto, alcuni sacchetti sigillati, scudi e ducatoni.

Alvaro passa vicino alla massa vociante e si dirige verso un capannello che si è creato attorno a quattro soldati che giocano a carte su un tamburo, trasformato, per l’occasione, in tavolo da gioco.

«Olà, hombres, vi state già giocando la decade?»

«Alvaro, che ti venga un cancro! Dove eri finito? Stanno pagando gli stipendi: ti sei presentato dai furieri? C’è un bel gruzzolo per tutti!»

«Già fatto. Sono uscito dal campo per pagare un debito e ho un incontrato un vecchio amigo. Voi invece vi state già giocando la paga: i soldati che giocano perdono tutto, si ritrovano senza denaro, vanno a letto a pancia vuota e vogliono disertare.»

«Tanto», risponde uno dei giocatori, «se non li perdiamo noi, ce li portano via i furieri. È sempre la stessa storia, noi combattiamo, gettiamo il sangue e loro rubacchiano su tutto: sulle paghe, sulle vettovaglie, sugli alloggiamenti, perfino sui testamenti.»

«Todos ladroni, le compagnie dovrebbero farne a meno.», aggiunge un altro, paonazzo, con una carta in mano.

«Senza furieri, dove andreste a dormire?», replica Alvaro, «Chi vi corrisponderebbe il soldo? Date retta a me, che sono più vecchio di voi, smettetela di giocare e risparmiate quei soldi, conservateli per quando non ne potrete guadagnare altri.»

«Ha parlato il filosofo!», sghignazza, fra gli spettatori, un soldato male in arnese.

«Lo sappiamo tutti che tieni gli scudi nella fodera del farsetto.»

«Perché risparmiare?», aggiunge un altro degli astanti, «Oggi ci siamo, domani siamo morti; e poi con un buon saccheggio ci possiamo sistemare per tutta la vita ah, ah.»

«Se porto gli scudi cuciti nel farsetto sono fatti miei.», risponde risentito Alvaro, «Ma non ho mai chiesto soldi a nessuno, anzi, ne ho prestati spesso, senza mai riaverli. Ti ricordi Pedro? E tu, Gomez? E tu, Manuel?»

«Io non ti ho mai chiesto niente.», replica, acido, il soldato male in arnese.

«Non ti ho mai dato niente, perché me li hai sempre chiesti per giocarteli, fannullone!»

«Oh, oh!», urla quello.

I due stanno per venire alle mani, ma sono divisi dai giocatori, che, alzatisi di scatto, bloccano la rissa sul nascere.

«E via.», dice uno di questi, «Che sarà mai, venire subito alle mani per un pugno di parole. Volete lasciarci la pelle proprio ora che ci sono un po’ di doppie, o volete pendere, appesi all’albero, per tutto il giorno? Tornate alle vostre compagnie!»

«Lasciatemi!», urla Alvaro, che si divincola, «Sono venuto qui perché ho da chiedere un aiuto per un nostro commilitone caduto in disgrazia. Qualcuno di voi ricorda Pasquale Laurenzano? Un soldato napolitano.»

Nessuno risponde, nessuno ricorda di averlo conosciuto, qualcuno scuote il capo, ma Alvaro insiste: «Ha bisogno di aiuto. Sono qui per raccogliere un po’ di soldi per aiutarlo.»

«Se è tuo amico, aiutalo tu. Noi non c’entriamo.», risponde il soldato paonazzo.

«Ma è stato uno di noi!»

«È stato, ora non lo è più, peggio per lui. I soldi preferisco spenderli al Mastinone.»

«Tutti al Mastinone!», urla, all’improvviso, uno con un sacchetto di monete in mano.

«Al Mastinone! Da Nina dalle poppe grosse!», urlano gli altri.

Quasi seguendo un silenzioso ordine, il gruppo si dirige, di corsa, verso porta Marengo. Lasciando il tamburo e Alvaro soli in mezzo al prato.

«Andate al Mastinone, da Nina dalle tette grosse e dalla bocca larga, così, quando tornerete, sarete storditi e senza soldi! Siete delle bestie, solo bestie e niente più!»

«A chi urli?»

«Ah, sei tu, Ignazio.»

«Sì; a chi urli? Sembri un forsennato.»

«Certo; ho chiesto aiuto per un nostro vecchio commilitone, perseguitato dall’Inquisizione, e la risposta è stata che tutti sono andati al Mastinone.»

«Che ci vuoi fare, meglio spendere dei soldi per delle tette ansimanti, che per un povero disgraziato, per giunta perseguitato dall’inquisizione.»

«Voglio parlare con il comandante; è un uomo d’onore, mi ascolterà e mi aiuterà.»

«Lascia stare il comandante, è nero: ha perso mille doppie a carte ed ora non ha soldi per l’ingaggio delle nuove reclute, non ha la testa per star dietro a queste cose. Poi, il tuo amico non è più un soldato, non ha quindi alcun privilegio, e l’inquisizione ha diritto alla sua preda in mancanza di qualcuno che la reclami. Sarebbe meglio che il nostro capitano fosse indifferente anche verso un mazzo di carte, ora mi toccherà anticipargli dei soldi, così il mio credito salirà e io non riuscirò mai a liberarmi da questa miserabile vita militare.»

«Ignazio, tu sei il furiere della nostra compagnia e ti lamenti: quando gli altri vegliano, al freddo o in trincea, tu dormi in un letto, quando patiscono la fame, tu mangi e bevi alla mensa del comandante, come puoi, tu, parlare di vita miserabile?»

«Non ne posso più di vedere morti ammazzati e morti di malattia, sono stanco delle imboscate, delle risse e dei pidocchi, non voglio morire come un animale ed essere seppellito in un fosso, senza nome, mentre i miei compagni si avventano, famelici, sulle mie cose. Voglio tornare in Sicilia, vivere gli ultimi anni della mia vita in una casa, servito e riverito e questo lo potrò fare solo se il comandante mi darà ciò che mi spetta.”

«Te lo darà, è un uomo di parola; ma, ti prego, fammi parlare con lui.»

«Come vuoi, ma, ti avverto, non è un bello spettacolo.»

I due si incamminano verso il Mastio, giunti di fronte ad una porta socchiusa, si fermano.

«È qua dentro, entra.»

«Non mi annunci?»

«Non è necessario.», risponde Ignazio, con un sorriso ironico.

Alvaro entra deciso a far valere le proprie ragioni, ma ciò che vede lo demoralizza: il capitano, con il capo appoggiato al tavolo, russa saporitamente, fra bottiglie vuote e carte da gioco sparse qua e là; tutto intorno è disordine, sedie rovesciate, piatti con avanzi di cibo, uno stivale sotto il letto.

Il soldato capisce che non potrà fare niente per Pasquale, esce quindi dalla camera, sconcertato.

«Non lo avevo mai visto così.»

«È sempre più frequente.», risponde Ignazio, «Anche a lui pesa questa vita.»

«Non credo che mi potrà aiutare molto, anche da sobrio.», Aggiunge, sconsolato, Alvaro.

«Lo credo anch’io. Posso fare qualcosa per te?»

«Avrei bisogno di alcuni testimoni e di un po’ di denaro per aiutare il mio amico a dimostrare la sua innocenza.»

«Per i testimoni non so proprio cosa fare.», risponde, ridendo, il furiere, «Ma per i soldi, posso darti questi.», e mette alcune doppie nella mano destra di Alvaro.

«Ti ringrazio, almeno tu hai dimostrato un po’ di umanità, per il resto ci penserò io; scucirò la fodera del mio farsetto e caverò qualche moneta d’oro: è venuto il tempo di usare quel denaro messo da parte.»

 

Capitolo XIII

Quando cala la sera, i soldati reduci dal Mastinone, ubriachi di vino e di sesso, sono così storditi da non accorgersi di camminare nei rigagnoli di immondizia che costeggiano la strada di terra battuta; uno di questi, investito dai liquami di un pitale svuotato dalla finestra, impreca contro l’autore del gesto, che si ritira frettolosamente dentro casa.

Giungono schiamazzi dalle osterie, mentre nelle case cala il silenzio della notte.

In quella di Pasquale e Maria, invece, nessuno vuole andare a dormire, ma le emozioni, la fatica, le chiacchiere e la buona cena, preparata da donna Isabella, hanno il sopravvento, prima sui piccoli, poi sugli adulti.

Questa volta, Pasquale può riposare tranquillo nel suo letto, quanto tempo è passato dall’ultima volta, è come se fosse rinato. Si addormenta lentamente, fra le lenzuola di lino; da lontano, in qualche cantone della città, proviene l’eco di un canto, seguito da un fragoroso schiamazzo: sarà un cavillan, che alcuni soldatacci, burloni, stanno facendo sotto la casa di qualche marito geloso o di un giudice troppo pignolo; o forse no, è un gioco di Acheronte, una serenata ad una vedova appena risposata e che questa notte dovrà vegliare fino a quando i suonatori non avranno deciso di andare a dormire, convinti magari da qualche secchiata d’acqua o da qualche moneta lanciate dalla finestra.

Al mattino, sono tutti in piedi, c’è molto movimento in casa. Donna Isabella, con Lisa, è uscita presto per fare la spesa e per andare a controllare la propria casa, quasi completamente trascurata per tutto questo tempo, i bimbi giocano, mentre Maria è indaffarata a lavare i panni del marito in un grande mastello, in giardino. Ad un tratto, ode alcuni passi alle sue spalle, si volta, è Alvaro, vestito come il giorno prima, ma con un cappello di feltro in testa, senza il corpetto di ferro e con una piccola bisaccia a tracolla.

I due si salutano, quindi Maria lo accompagna in casa, dove Pasquale è seduto, vicino al camino.

«Pasquale, como va?»

«Sta meglio.», risponde Maria, «Ma non ha ancora la forza di parlare.»

Pasquale fa un cenno di assenso con il capo e, con la mano, invita Alvaro a sedersi. Questi si siede e, subito, estrae dalla piccola bisaccia una borsa di cuoio, che pone sul tavolo, con aria soddisfatta.

«Ci sono i dineros che abbiamo raccolto fra nos otros.», dicendo una pietosa bugia.

«Li restituirai quando potrai.»

«I vostri compagni sono stati generosi; ringraziateli per noi. Se volete, potete farvi accompagnare da qualcuno di loro, così potremo ringraziarlo di persona.»

«State tranquilla, dona Maria, non è il caso, nos otros siamo abituati a dare, senza ricevere un grazie, nessuno di loro si aspetta niente. Piuttosto, mi raccomando, in questa borsa ci sono doppie e zecchini, mettetela bene al sicuro. Comunque li spenderete presto, fra avvocato, medici e tutto il resto.»

«Avete ragione.», replica Maria e poi, quasi all’improvviso: «Volete un bicchiere di vino? Dove alloggiate? Sempre presso quella famiglia, la cui figlia…»

«Non me ne parlate. Abbiamo deciso di sposarci da un po’ di tempo, succede sempre qualcosa che ce lo impedisce. I parenti di lei, poi, quasi non rivolgono la parola ai genitori, con la questione che sono straniero e, per giunta, soldato. A volte, vorrei congedarmi, ma non so fare altro lavoro se non quello del soldato.»

A queste parole, Maria, che, nel frattempo, gli ha versato del vino in un bicchiere di coccio, sorride con tono consolatorio: «Fateli parlare, l’importante è che voi e la vostra sposa andiate d’accordo, non preoccupatevi degli altri, se ne faranno una ragione e se no, andrà bene lo stesso. Si sono comportati così anche con me; i parenti di mia madre non mi hanno mai perdonato e lo si è visto in questa occasione, non una visita, non un aiuto; se non fosse stato per gli estranei, saremmo morti di fame e disperazione.»

«Siete buona, dona Maria; ora, comunque, Pasquale è a casa e dimostrerà la sua innocenza.»

«Speriamo; il Signore ci deve aiutare, non può continuare a guardare altrove. Alvaro, scusatemi, potete fare compagnia a Pasquale per un po’? Devo finire di fare il bucato, sono sola e non ho ancora preparato il pranzo, senza donna Isabella mi sento persa.»

«Volentieri, starò un po’ con Pasquale, così gli racconterò dell’ultima mia missione in Fiandra.»

Maria esce dalla cucina, mentre Alvaro, avvicinatosi all’amico, inizia a parlare: «Le Fiandre sono una tierra ricca, molti commerciano e non se ne vergognano. I porti sono pieni di navi, che battono la rotta delle Indie. È gente austera, devota, Lutero ha fatto molti proseliti, ma laboriosa e rispettosa degli altri, i ricchi si comportano bene con il prossimo. Tu dirai che è come qui da noi, però, quando mio padre fu investito e ucciso dalla carrozza di don Alfonso, uno dei nobili più ricchi e temuti di Siviglia, questi tacitò la sua coscienza, lanciando a mia madre, che era insieme a mio padre, una doppia come risarcimento. Non contento, tempo dopo, vedendo mia sorella Morena, ormai donna, la volle e quindi irruppe in casa nostra, con i suoi sgherri, e la violentò davanti a nos otros. Io ero piccolo, allora, ma diventato adulto, avrei potuto solo vendicarmi o accettare il fatto, ho preferito fuggire. I preti parlano di povertà ed umiltà, ma queste non riguardano loro o i ricos. Nelle Fiandre abbiamo combattuto per re Filippo e per la fede, ma, di fronte alle case in fiamme, ai cadaveri, spogliati di tutto, al pianto di donne e bambini, mi sono chiesto spesso se Dio era contento di noi e di come difendevamo la nostra religione e mi sono ricordato dei pianti di mia madre e di nos otros di fronte alla violenza di don Alfonso.»

Pasquale segue attentamente le parole di Alvaro, una lacrima gli riga la guancia, in fondo quella storia è anche la sua storia, quella di un giovane, che, per fuggire da miseria ed ingiustizia, ha seguito l’unica strada possibile, quella del soldato, causando altra miseria ed ingiustizia.

Alvaro continua a parlare: «A Bruges, la cattedrale ha un campanile talmente alto da essere visto da molto lontano; in passato, di notte, veniva acceso, sulla cima, un grande braciere, perché i naviganti potessero orientarsi. Ora, però, il mare non c’è più e il grande campanile svetta solitario in mezzo alla pianura brumosa. A Siviglia, invece, le navi risalgono il Guadalquivir e quando la flotta reale torna dalle Indie, due volte l’anno, carica di argento e di spezie, è uno spettacolo: le grosse navi, pavesate, solcano il fiume, maestose, celebrando la potenza del re. A volte, quando mi trovo sulle rive del Tanaro e vedo le imbarcazioni scorrere sul fiume, mi illudo di stare a Siviglia, ma è solo l’illusione di un attimo, il fiume non è il Guadalquivir, le barche sono piccole e il cielo e il clima non sono quelli di Siviglia; tutto mi ricorda che sono in un’altra città, meno luminosa, opaca.»

A queste parole, Pasquale ha un sussulto, scuote la testa, infine soffia, come se volesse tirar fuori qualcosa da dentro il proprio corpo e, finalmente, inizia a parlare: «Anche a me… Alessandria sembra opaca… ma ormai è la mia città, qui c’è la mia famiglia e qui voglio essere seppellito.»

Alvaro, dopo un attimo di smarrimento, urla: «Dona Maria, adelante, Pasquale parla!»

Donna Isabella e Lisa, intanto, stanno uscendo dalla casa della anziana signora.

«Sbrigati Lisa, non stare a guardare la rose.»

«Ma sono belle, profumate, ne voglio staccare una per la mamma.»

«La prossima volta, quando torneremo, non farmi rientrare a casa per prendere le forbici.»

«Ma io la stacco così.»

«Sei matta ? vuoi pungerti? Andiamo, andiamo, che la mamma ci aspetta e sarà in pensiero.»

Le due escono dal giardino, donna Isabella chiude a chiave anche la porta esterna, e si avviano verso la porta delle Vigne. Passano davanti alla chiesa di san Pietro: «Fermiamoci un attimo a pregare», propone donna Isabella, «per ringraziare il Signore; con tutto il trambusto che c’è stato a casa in questi giorni Lo abbiamo proprio dimenticato, mentre Lui non si dimentica mai di nessuno.»

«Volete entrare in questa chiesa?»

«Una chiesa vale l’altra per pregare Dio, l’importante è pregarlo e affidarsi a Lui.»

«La mamma dice che si è dimenticato di noi.»

«Quando tua madre parla così, mi fa arrabbiare; se il Signore vi avesse dimenticato, tuo padre non sarebbe tornato a casa.»

«Però ha sofferto tanto, non è più lui.»

«A volte, Dio ci manda delle prove», Isabella tira un sospiro, «per metterci alla prova, ma tu sei ancora piccola, non puoi capire, quando sari grande, potrai comprendere meglio ciò che dico.»

«Quando sarò grande, voglio sposarmi e avere tanti figli.»

«Shh, adesso taci, dobbiamo entrare in chiesa, comunque, vedrai che il Signore ti esaudirà.»

Entrano, si fermano nei banchi in fondo; non ci sono molti fedeli, sebbene stia per iniziare la messa: alcune donne sono sedute davanti all’altare maggiore e pregano, altre, insieme a qualche anziano, sono sparse qua e là.

Dalla sagrestia proviene un brusio, che aumenta sempre più; donna Isabella, non potendo trattenersi tanto, dopo una breve preghiera, decide di uscire e fa un cenno a Lisa, ma, mentre torna sui suoi passi, non può fare a meno di notare che il brusio aumenta e non può fare a meno di pensare che don Giovanni è poco rispettoso della forma e, anche quando si prepara alla celebrazione della messa, continua a ciarlare ad alta voce in sagrestia, mentre dovrebbe prepararsi, e preparare i fedeli, al rito con il silenzio e la preghiera; ecco perché lei non ama questo sacerdote e non frequenta la sua chiesa, pur essendo parrocchiana, indipendentemente dalle dicerie che riguardano lui e la sua perpetua.

Quando donna Isabella Panza esce, il brusio diventa più forte: «So tutto; mia moglie mi ha detto tutto; siete un prete indegno dell’abito che portate.»

«Ma cosa dite!», risponde don Giovanni, ostentando tranquillità, «Io sono un sacerdote, non mi abbasso a certe cose.»

«Menti, menti come un infedele; sei perfido come un ruffiano; ti comportavi diversamente e dicevi ben altro a mia moglie, quando io non c’ero.»

«Ma voi vaneggiate. Io ho sempre dato un sostegno spirituale a vostra moglie.»

«Proprio un bel sostegno, tanto forte da spingerla a sottrarmi ben cento scudi per i vostri divertimenti. So tutto, non mentite.»

«Se sai tutto», con un sorriso beffardo, «Allora avresti fatto meglio ad esserci, così avresti visto ed udito meglio, becco che non sei altro. Voi mercanti ve li cercate i tradimenti; lasciate sole le vostre donne e noi preti le dobbiamo consolare.»

A questo punto, il mercante Gaia ha gli occhi iniettati di sangue: «Allora è proprio vero; lurido essere, hai tradito la mia fiducia, mi hai rubato la moglie e volevi anche la mia roba; ma io…», e alza un braccio a mezz‘aria.

«Io che?», replica freddo don Giovanni, «Tu non puoi fare nulla, devi stare solo zitto, ti conviene; pensa a quando i tuoi clienti sapranno, compreranno il tuo vino storcendo il naso, ridacchiando e dandosi delle gomitate d’intesa. Li sento già ridere, ridono di te, cornuto e bastonato. Ti conviene tacere. Adesso fila, devo dire messa, non voglio fare tardi.»

Il mercante, per un attimo, è quasi inebetito, obbedisce all’ordine del prete e si allontana come un automa, ma, quando sta per spingere la porta della sagrestia, ha uno scatto: «Devi dire messa!», urla, «Come osi parlare di messa, tu che sei indegno anche solo di stare qua dentro! Tu sei un demonio! Tu devi morire!»

Estrae un coltello da sotto il mantello; la lama luccica per un attimo; il sacerdote cerca scampo, ma inciampa nei paramenti, il mercante gli è addosso, vibra un colpo, poi un altro e un altro ancora; don Giovanni riesce ad alzarsi, barcolla, esce dalla sagrestia ed entra in chiesa, urlando: «Aiuto, mi uccide! Muoio!», e cade davanti all’altare fra le grida dei pochi fedeli.

Attorno a lui è tutto un trambusto; c’è chi cerca di rianimare il ferito, qualcuno cerca di catturare l’assassino, che, roteando il coltello, riesce a guadagnare l’uscita e a fuggire, un anziano cerca di tamponare la ferita al fianco del prete.

Una pia donna corre fuori a cercare padre Roberto, un cappuccino, che si trova nei paraggi, per opere di misericordia, il frate accorre poco dopo e, accertatosi delle gravi condizioni del sacerdote, gli chiede se vuole confessarsi; don Giovanni si sente la vita sfuggirgli, teme il peggio: «Padre confessatemi, ho molto peccato, non voglio morire senza il perdono di Dio.»

Padre Roberto allontana i presenti e, dopo aver recitato la formula di rito, comincia ad ascoltare una confessione lunga, faticosa, ma minuziosa.

Al termine di questa, il volto del cappuccino è pallido e contratto, i suoi occhi luccicano per l’emozione.

«Assolvetemi, padre, vi prego, non voglio morire in peccato mortale.»

«Fratello, non posso, non posso; i tuoi peccati sono tanti e gravi, non puoi che rimetterti alla misericordia di Dio. Egli, misericordioso, deciderà della tua anima; ma tu puoi ancora salvarla. Confessa all’inquisizione ciò che hai fatto a quel povero uomo e alla sua famiglia, chiedigli perdono, ti prego fallo, per la tua anima e per la mia coscienza; non posso portare tutto il fardello dei tuoi peccati, devi alleggerirla.»

«Sì… devo farlo… non posso morire così.», sussurra don Giovanni, «Chiamate qualcuno… che metta per iscritto la mia confessione al giudice. Voglio salvarmi… ho paura, padre, ho paura di morire dannato.»

«Abbi fede, fratello, il Signore è misericordioso e perdona, soprattutto quando vede nel nostro animo il pentimento e il desiderio di perdono.»

«Non mi abbandonate… non lasciatemi solo.»

«Starò accanto a te, non temere, non ti abbandonerò.», e accenna un timido sorriso, accarezzandogli il capo.

Intanto, arriva un barbiere, chiamato da un’altra pia donna, il quale cerca, in qualche modo, di tamponare le ferite.

Davanti alla chiesa, si fermano alcuni curiosi, che, indugiando volentieri al sole primaverile, in attesa di notizie succulente, commentano il fatto: «Don Giovanni se l’è meritato.»

«Troppe dicerie, troppi sussurri, perché non fosse vero.»

«Tanto va la gatta al lardo…»

«Il marito? Si sa chi è?»

«Gaia il vinattiere, quello che ha il magazzino in contrada della Pozzolasca.»

«Ma chi? Quello carico di scudi?»

«Sì, proprio quello.»

«Beh, anche lui sempre pronto a fare soldi, senza mai badare alla moglie; cosa pretendeva?»

La gente accorre; la voce si diffonde da un cantone all’altro; la notizia viene urlata, tutti la odono, tranne donna Isabella e Lisa, prese come sono dalla loro conversazione: «Voglio sposarmi un soldato.»

«Un soldato ? E perché? No, no, faresti una vita grama, sempre dietro di lui, in paesi stranieri, senza una patria, con la costante paura di perderlo.»

«I soldati sono forti e belli, come il mio babbo.»

«Sì, ma spesso trattano male le mogli, le tradiscono. No, no, tu devi sposare un giovane che ti tratti bene, un bravo artigiano, morigerato e timorato di Dio.»

«Mio padre non ha mai maltrattato la mamma e poi, per un marito come dite voi ci vuole la dote e noi siamo poveri.»

«Alla tua dote ci penserò io, se sarà necessario, provvederò a tutto, anche alle salviette e alle cuffie; intanto, ti do la mia parola, fin da ora, che ti farò confezionare un abito rosso a bande scure e tre bei sai, ti darò i miei quattro anelli d’oro e una somma di dieci scudi. Avrai la tua dote e, se dovessi morire, lascerò tutto per iscritto. Piuttosto, ci vorrebbe un marito adatto e, secondo me, il primo figlio di un nipote di Baudolino, buonanima, andrebbe bene.»

«Ma io non lo conosco.»

«Lo conoscerai, non ti preoccupare; è un buon giovane, sai? Parlerò con tuo padre e con il suo e poi vedremo. Magari, prima di parlare con loro, potrei farvi incontrare: mio nipote ha bisogno di un garzone di bottega, Domenico potrebbe essere un buon apprendista e credo che il tuo babbo non dirà di no a questa occasione; il lavoro di orafo è dignitoso e redditizio.»

«Ma ci vorrà una cauzione. Il nostro vicino, perché il figlio fosse preso dal falegname, ad imparare il mestiere, ha dovuto dargli sei brente di vino. Noi siamo poveri, non abbiamo niente da dare.»

«Sta’ tranquilla, parlerò con mio nipote, vedrai che prenderà Domenico senza pretendere nulla. Girolamo è un bravo uomo e apprezza i giovani onesti e laboriosi, e tuo fratello mi sembra di buona stoffa.»

«Certo che l’orafo è riverito da tutti.»

«Anche la moglie dell’orafo è rispettata da tutti!», aggiunge, con studiata malizia, donna Isabella, «Guarda, guarda quel gregge vicino a Santa Maria, avviciniamoci, vediamo se hanno del formaggio fresco.»

Le due si dirigono verso un grande prato, da cui emergono alcuni pozzi, lo spiazzo dei pastori, dove moltissime pecore stanno brucando l’erba sorvegliate da alcuni cani.

Lisa è colpita da un giovane pastore, che sta orinando sulla mano ferita di uno più vecchio.

«Ma cosa stanno facendo?», chiede, incuriosita e, nello stesso tempo, imbarazzata, la giovane.

«Non lo vedi ? Il giovane sta medicando la ferita alla mano del suo compagno. Sembra che l’urina abbia delle proprietà cicatrizzanti.»

«Svelta, avviciniamoci al capo dei pastori.»

I cani abbaiano, ma donna Isabella non è per nulla intimorita e si avvicina ad un uomo vestito di pelli di pecora, con in testa un copricapo conico e dall’aspetto ferino.

«Buon giorno. Avete del formaggio fresco?»

«Muh, muh.», mugugna l’uomo, facendo un cenno di assenso.

«Cosa avete?»

«Seirasse.», risponde il pastore, senza sprecare tante parole.

«Seirasse?»

«Muh, muh.»

«Me lo fate vedere?»

Il pastore si allontana, tornando, poco dopo, con un cestello di rametti colmo di candido formaggio, simile a ricotta.

La donna immerge il dito nel cestello, portandolo successivamente alla bocca: «Buono, è freschissimo, a quanto lo vendete?»

Il pastore chiude la mano destra, lasciando fuori solo l’indice.

«Un soldo al cestello?»

«Muh, muh.»

«Va bene, ne compro due. Svelta, Lisa, dammi il paniere, così li metto dentro tutti e due.»

Isabella e Lisa, dopo aver pagato, si allontanano dal gregge e prendono la strada di casa, l’anziana donna è soddisfatta: «Mangeremo questo formaggio stasera; vedrai che bontà ed è ancora più buono con il pane croccante. Cerchiamo di fare in fretta, magari riusciamo a trovare ancora del pane fresco nel forno della contrada Maestra, là il pane non manca mai, è il forno dei signori.»

 

Capitolo XIV

L’avvocato Gallia esce dalla propria abitazione quasi in ritardo, ha fretta di raggiungere il tribunale per una causa, la strada però, in piazza Maggiore, è praticamente bloccata; centinaia di persone fanno ala ai reparti militari che, dalla cittadella di porta Marengo, attraversano la città per raggiungere porta delle Vigne e, di qui, dirigersi verso la Savoia.

L’avvocato maledice, fra sé, di essere uscito di casa tardi, d’altronde, con il servo stordito che si ritrova, deve sempre ripetere gli ordini perché li ricordi: gli aveva detto di svegliarlo presto, perché aveva un’udienza, ha capito che non aveva impegni e poteva svegliarlo tardi.

Quante volte è capitato che i suoi clienti siano tornati indietro perché il suo servo aveva riferito loro che il padrone non c’era e che non sarebbe tornato allo studio, mentre lui aveva parlato solo di un’assenza momentanea; con quello che ci vuole per avere un cliente, farli tornare a casa significa perderli. Bisognerebbe fare come l’avvocato Trotti: quando c’è bisogno di lui è in tribunale, ma in aula non c’è e spesso mentre i suoi clienti lo cercano perché sbrogli le matasse giudiziarie, lui è fra le braccia di una dama, non di rado moglie di un suo patrocinato, ospite dell’inquisizione.

Eppure la gente se lo contende a peso d’oro e lui può fare il bello e il cattivo tempo, proferire giudizi fuori luogo, offendere, senza che nessuno se ne lamenti.

I giudici poi sono così tolleranti nei suoi confronti, per cui non si capisce se lo temono o se gli serve, c’è chi lo accusa, sottovoce, di essere una spia dell’inquisizione.

Preso da questi ed altri pensieri, l’avvocato non si accorge di essersi avvicinato a monsignor Arnuzzi; solo quando si trova a stretto contatto di gomito, lo nota e lo saluta: «Buon giorno, certo che questa parata non ci voleva proprio, dobbiamo stare qui che passino tutti? Dove vanno?»

«Sono diretti nelle Fiandre.», risponde con sussiego il religioso, «Non trovate strano che questa gente, così pronta a maledire i soldati, a fare a botte con loro nelle taverne e in strada, ora li applauda?»

«No, non è strano, salutano con gioia un cattivo ospite che parte, con la speranza di non vederlo mai più; ma non è così, ne verranno altri e poi altri ancora e questa città brulicherà sempre di soldati, nelle vie, nelle bettole, nelle case della gente, ovunque.»

«Avete ragione.», risponde, con un sospiro, monsignor Arnuzzi, «I soldati sono una iattura, come la peste: insidiano le donne, causano risse, portano malattie e idee strane, che poi si diffondono fra il popolo credulone, peggio delle pestilenze. L’inquisizione fa uno strenuo lavoro per stroncare le eresie, le false credenze e le pratiche magiche.»

«Senza badare ai mezzi.», replica, ironico, l’avvocato.

«Non siate sarcastico; vedete anche voi che di fronte a questa marea», e indica i soldati e la gente, «non si può essere teneri, bisogna mostrare il pugno di ferro, diversamente, sarebbe la fine del nostro mondo e della nostra fede.»

«Non lo nego, ma se con Pasquale Laurenzano foste stati più accorti, gli avreste risparmiato inutili sofferenze.»

«Abbiamo seguito la procedure, se mai è stato lui a non dimostrare la sua innocenza.»

«Che doveva fare, quando le prove a suo carico erano schiaccianti?»

«Doveva affidarsi ai giudici.»

«Incolpandosi e addossandosi accuse ingiuste?»

«Dicendo la verità.»

«Ma la verità era quella.»

«Doveva dimostrarla.»

«Vedete che torniamo al punto di partenza?»

«Abbiamo due modi diversi di vedere la realtà, caro avvocato, ma ditemi, piuttosto che ne è stato del Laurenzano e della sua famiglia?»

«Si è ripreso, ma ci sono voluti tempo e danaro: Donna Isabella non ha lesinato nulla purché Pasquale si riprendesse e la sua famiglia dimenticasse la brutta storia. Per farlo guarire lo ha mandato, con i suoi, in un podere di sua proprietà nei pressi di San Salvatore. Ora vive là, visto che il massaro ha trovato una sistemazione migliore; mentre Lisa, la figlia maggiore, tiene compagnia all’anziana signora.»

«Allora, Pasquale non vive più in città, è diventato suddito gonzaghesco.»

«In un certo senso.», risponde l’avvocato, «Ha ancora la casa della moglie e vi risiede quando scende in Alessandria per pagare l’affitto del podere o per il mercato. Diciamo che, con la disgrazia, il poveretto ha trovato una sistemazione. E il vostro colpevole, che fine ha fatto?»

«Tutto sommato, gli è andata male; le ferite erano superficiali ed è sopravvissuto; la condanna a morte è stata commutata nella galera a vita; remerà sulle navi del re per tutto il tempo che gli rimarrà, non avrà sconti, ha tradito la Chiesa, venendo meno al suo ufficio, ed è giusto che paghi. Se non remerà sulle navi cristiane, lo farà su quelle barbaresche, sempre in pericolo, fra battaglie, naufragi e catture.»

«E se rinnegasse la nostra fede e diventasse un pirata? Non sarebbe la prima volta.»

«Se lo facesse, una volta catturato, perirebbe fra atroci tormenti, come conviene ad un pirata e rinnegato, e comunque sarebbe dannato ancor prima che lo cogliesse la morte.»

«E la sua governante? Le figlie e il trovatello?»

«La minore e il ragazzo sono stati affidati a famiglie timorate di Dio, che li faranno diventare buoni cristiani e devoti servitori. La donna e la figlia maggiore dovranno trascorrere il resto dei propri anni nel convento delle Clarisse di Savona; là, lontane dal mondo, mediteranno sulle loro nefandezze.»

«Certo che don Giovanni è stato abile nell’architettare tutto.»

«Ma il Signore lo ha smascherato.»

«Arriva! Arriva!»

L’urlo della folla interrompe il dialogo: «Arriva la compagnia di De La Pena! Ecco lo stendardo rosso con il leone e le quattro croci!»

La gente urla di gioia, mentre passano i soldati, che indossano abiti variopinti, ma con nastri, fiocchi, fasce, piume e pennacchi rossi, qualcuno lancia dei fiori.

«Buenas dias, cabelleros!», urla De la Pena, «Gracias de todo!»

«Arriba! Arriba De La Pena!», urla, festante, la folla.

I soldati rispondono al saluto. De La Pena, in testa, a cavallo, dentro una corazza splendente e con l’elmo ornato di piume rosse, avanza, circondato dai suoi ufficiali montati, salutando con la mano. Lo segue lo stendardo, preceduto da due tamburi e un piffero, che cadenzano il passo della truppa e mettono i brividi fra la folla.

Avanzano i picchieri, con le lunghe alabarde, sono così serrati nei ranghi da sembrare un grosso istrice; li seguono gli archibugieri, dagli abiti sgargianti e con i cappelli di feltro, che portano sulla spalla il pesante archibugio e la lunga forcina. L’ultima fila si ferma, sistema l’arma sulla forcina ed esplode alcune salve, spaventando ed eccitando gli spettatori. Seguono quindi alcuni valletti, che lanciano monete alla gente, che fa a gara per raccoglierle.

«Ecco il nostro re, brava gente!», urla De La Pena, alludendo all’ effigie sulle monete, «Viva re Filippo, cristianissimo re!»

«Viva re Filippo!», gli fa eco la folla.

Intanto si allontanano anche De La Pena e i suoi, seguiti da una folla colorita ed eterogenea di mercanti, prostitute, amanti, bambini, carri, carrette, asini e muli.

«Ecco che arriva lo sconcio.», sospira monsignor Arnuzzi, «Dopo lo splendore, ecco la schiuma degli accampamenti: promiscuità, frode, turpitudine avanzano dietro i soldati che infettano, così, tutto ciò che toccano.»

«Purtroppo è così e non possiamo farci niente.», risponde, sconsolato, l’avvocato.

«Purtroppo, e la gente continua ad applaudire e ad acclamare coloro che non portano con sé altro che disperazione e morte.»

«Saluta l’ospite quando arriva», replica Gallia, «perché spera che porti delle belle novità, e lo applaude quando parte, dopo averlo conosciuto, perché spera di non vederlo più.»

«Avete ragione, ma ne verranno altri e sempre peggiori. Ora scusatemi, ma devo recarmi in cattedrale per i riti propiziatori della pioggia.»

«Quest’anno, il Signore è stato severo, ci ha mandato prima forti piogge, ad Aprile e Maggio, poi questa siccità, e sembra che non sia ancora finita.»

«Non è finita. Prima è morto papa Sisto, ora ci ha lasciato papa Urbano: la nave della Chiesa sembra non avere un timoniere; dove andrà? Che Iddio illumini i cardinali.»

«I prezzi degli ortaggi e della frutta sono saliti enormemente.», aggiunge, forse un po’ fuori luogo, l’avvocato: «Una melarancia costa fino a dieci soldi; inaudito, non era mai accaduto.»

«Certo che, fra piogge e siccità, non c’era da aspettarsi niente di buono. A proposito, avete partecipato alla adorazione della spina della corona di Nostro Signore e al legno della croce? Non vi ho visto in duomo in quel periodo.»

«C’ero, monsignore, c’ero, ero in prima fila, voi eravate troppo preso dai riti e non mi avete notato, ma io vi ho visto, eccome: ricordate il giorno in cui inciampaste nei paramenti?»

«Lo ricordo, avvocato; che vergogna; un ecclesiastico inciampare così, come un novizio.»

«Non vergognatevi, monsignore, è stato un incidente, può accadere, gli uomini poi non sono perfetti e possono sbagliare.»

«E infatti, l’inquisizione combatte proprio contro le imperfezioni dell’umanità.»

«Dovete scusarmi», interrompendo il discorso, quasi infastidito, «ma una causa importante mi attende in tribunale; continueremo la nostra conversazione in un altro momento.»

«Ne sono certo; non vi trattengo e vi auguro una buona giornata.»

Il monsignore si dirige quindi verso la cattedrale, mentre l’avvocato riprende la propria strada verso il tribunale.

La giornata di fine settembre è calda, molto calda, troppo per la stagione; la gente si aggira fra i banchi, mentre i bimbi urlano festanti dietro al picchetto, che effettua il cambio della guardia fuori dal loggiato annesso al duomo, dove mercanti e cambiavalute si affannano a convincere sulla bontà dei loro prezzi. Una voce fra tutte si distingue per la sua inflessione ligure: «Sempre la stessa storia delle monete calanti! Ma è possibile che ovunque vada, in questa città, mi si dica che porto monete tosate?»

«Comandante Pescetto», risponde il cambiatore, «se portaste con voi monete buone, nessuno ve le rifiuterebbe.»

«Ma sono buone! Parola di Giobatta Pescetto, mercante in Genova!»

«Forse, sono buone a Genova, ma non credo; conosco i cambiatori liguri, sono rigorosi e non accettano moneta calante, né la rifilano ai clienti. Dovreste riflettere di più sulle regole imposte dalla serenissima repubblica.»

«Ma per chi mi avete preso! Io sono un mercante stimato! Ho degli amici qui! Ecco! Ecco ! Ce n’è uno che può garantire per me! Pasquale! Pasquale!»

Pasquale, in compagnia di un uomo dall’inconfondibile abito del pescatore, con un cesto in una mano e un bastone nell’altra, si volta, udendo il proprio nome.

«Pasquale! Figeu! Non mi riconosci? Sono Giobatta Pescetto!»

«Vi riconosco, mastro Giobatta, vi riconosco.»

«Come stai? Ti vedo bene, sei ingrassato. Non ti ho più visto. Non abbiamo più potuto combinare l’affare.»

«Mastro Giobatta sapete bene cosa mi è successo e se non abbiamo combinato non è stato certo per colpa mia.»

«Acqua passata, acqua passata; vieni, che beviamo un bicchiere, magari combiniamo un affare; ho giusto bisogno di una buona scorta per un viaggio fino a Milano.»

«Grazie», risponde, asciutto, l’uomo, «ma non ho sete e quei lavori non li faccio più, sono troppo vecchio, fra altro ho fretta, devo tornare presto a casa perché devo ripartire subito per San Salvatore.»

«E che sarà mai, un bicchiere di vino, per ricordare una amicizia.»

«Ho fretta, vi ho detto; vi ringrazio, ma non ho proprio tempo, devo ripartire per San Salvatore e da lì devo poi andare a Crea: donna Isabella vuol contribuire alla realizzazione della cappella dell’Assunzione, portando cibo agli operai.»

«Belle palanche sprecate, i soldi spesi per la Chiesa non fanno nessun frutto, figeu.»

«È la sua volontà. Sono denari suoi e può farne ciò che vuole; non sarò certo io a dirle cosa deve o non deve fare; donna Isabella è saggia e sa cosa è giusto e cosa no. E con questo vi saluto.»

«Beh, dicevo per dire; allora, figeu, ti saluto.»

Pasquale, insieme al pescatore, prende per rugata San Pietro e intanto riprende la conversazione interrotta poco prima: «Devi aver pazienza, Guido; i giovani sono fatti così.»

«Ma io l’ho detto a mio figlio, quando ero malato, che i pesci non vengono nei cesti da soli e che bisogna andarli a pescare anche lontano, quando non si trovano nei posti abituali. Quando ero giovane mi spingevo, con mio padre, fino al Bormida o al Po, pur di portare del pesce a casa, e avevo sempre le reti e la barca in ordine. Mio figlio, invece, durante la mia malattia non si avventurava oltre gli Orti e aveva barca e reti in uno stato veramente pietoso, che quando le ho viste non sapevo se arrabbiarmi con lui, prendendolo a bastonate, o se stare male dalla rabbia.»

«Quanto tempo sei stato ammalato?»

«Tanto, troppo, e se ne sono andati anche parecchi scudi, fra medicine, dottori e speziali, e ora devo tornare sulla barca a pescare, ma mio figlio non mi aiuta, si è messo in testa che vuole fare l’ortolano, addirittura il giardiniere; dice che sono lavori più sicuri del pescatore, che si rompe la schiena su remi e reti a volte per niente. È un illuso, perché agli Orti siamo tutti ortolani e pescatori, e senza il nostro pesce, in città, si digiunerebbe davvero il venerdì e durante la quaresima; ma fallo capire a quel testone di mio figlio.»

«Forse non è la sua strada.», replica Pasquale, «Forse dovresti lasciarlo libero di fare.»

«Parli bene tu, che sei stato sempre soldato, ma io sono nato pescatore e ho bisogno del suo aiuto e con quel fazzoletto di terra che abbiamo, al massimo possiamo campare noi, altro che commercio. Tempo fa, mio figlio mi disse che aveva intenzione di andare a servizio dei marchesi Codega, a Cassine, e si presentò, solo che il Marchese Cesare voleva un guardiapesca al suo servizio e lui rifiutò; tornò a casa scornato e per una settimana non fece altro che parlare dei vantaggi della vita del fornaio.»

«Sai che il marchese Cesare è morto?»

«Lo so.», risponde con una punta d’orgoglio il pescatore, «E non potevo certo mancare al suo funerale. È stato alla fine del mese scorso, nella chiesa di san Marco; una gran cerimonia con il fior fiore della città: il feretro era accompagnato dal capitolo del duomo e da tutto il clero; venivano poi i gentiluomini, il podestà e il castellano di Cassine, con le torce accese e le armi del comune; dietro di loro c’erano cento poveri, con le torce e vestiti con le armi del morto e del comune, il senatore Guasco, il vicario del vescovo e il Governatore della città. Il figlio ha fatto le cose in grande e, alla fine della cerimonia, ha offerto cibo e denaro ai poveri per commemorare il defunto.»

«Certo che con quello che è stato speso si sarebbero potute sfamare tante famiglie.», commenta Pasquale.

«Cosa vuoi farci.», risponde il pescatore, «I ricchi sono i ricchi e possono fare ciò che vogliono.»

I due, intanto, si avvicinano alla casa di Pasquale; fuori attendono, su una carretta, Maria e i figli.

«Pasquale, ti stavamo aspettando.»

«Sono qui, ho solo tardato un po’.»

 

Egidio Franco Lapenta è nato ad Alessandria, il 22 novembre 1955, conseguita la maturità scientifica, si è iscritto alla facoltà di Lettere dell’Università di Genova, laureandosi con una tesi su Alessandria nei primi anni del ‘900 (“Socialisti e democratici in Alessandria fra il 1899 e il 1904”- relatrice professoressa Bianca Montale).

Ha iniziato ad insegnare nel 1983, passando al ruolo nella scuola superiore nel 1985.
Da sempre appassionato di numismatica, dal 1986 al 1991, ha pubblicato articoli presso la rivista “Panorama numismatico”, ha dato alle stampe “Momenti e problemi di numismatica romana” e si è impegnato nella realizzazione di schede sulla monetazione del passato per conto della SEI.

Fra il 1992 e 1996, ha collaborato alla pagina culturale della “Voce alessandrina” e da questa esperienza sono nati “La peste in Alessandria nel 1630” e “Alessandria città militare nel XVII secolo”, scritti a quattro mani con l’amico Carlo Pesce (1996 – 1998).

Nel 1998 – 1999 è stato uno dei promotori dell’attività di recupero (mai avviata…) della torre medievale di Casalbagliano.

Dal 2000 al 2003 ha catalogato, su incarico del Comune di Alessandria, le monete del museo cittadino.

Dopo di ciò ha cominciato a ridurre il proprio impegno in campo culturale, dedicandosi solo agli onerosi ruoli di genitore e docente.

 

La presente opera è stata realizzata, esclusivamente in formato elettronico e per volontà certificabile dell’Autore, da Masca Servizi Editoriali.

 

I diritti d’Autore rimangono allo stesso. Masca Servizi Editoriali non si assume alcun tipo di responsabilità in merito ai contenuti presenti in quest’opera.

 

ISBN: 978-88-32121-06-3

 

Prima edizione: febbraio 2019

 

In copertina: dipinto di Giovanni Patrone.

 

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