Nel suo libro di quasi un trentennio fa (purtroppo non adeguatamente considerato), “L’identità civile degli italiani”, Umberto Cerroni sostiene che nel processo di costruzione della nostra identità nazionale fondamentali sono state l’azione politica di Federico II e la sua opera monumentale nel campo della lingua, della letteratura, della filosofia, del diritto e che esse, pertanto, vanno recuperate appieno e considerate le radici più profonde della nazione e della nascita della lingua italiana.
Esiste un rapporto molto stretto tra la politica di Federico e l’origine della nostra lingua. La modernità della sua politica e quella della lingua italiana hanno proceduto contestualmente con una precocità davvero unica. E’ vero che la lingua italiana condivide il suo primato anche con due altre lingue romanze: la lingua d’oc e la lingua d’oil, da cui deriva il francese moderno. Ma mentre l’italiano produce subito capolavori letterari come la “Divina Commedia”, il “Canzoniere”, il “Decamerone”, la “Linguadoca” denota solo un territorio e la lingua d’oil “darà i suoi primi capolavori moderni con Rabelais e Montagne nel XVI” (e poi con Cornaille, Racine e Moliere)(1). La modernità e precocità della nostra lingua è dovuta alla modernità e precocità dell’azione politica di Federico II e quest’ultima, per molti versi, alla prima in quanto processi culturali e linguistici e processi politici non sono mai disgiunti.
Bisogna dire, in verità, che non sempre gli storici e i linguisti hanno tenuto nel debito conto questa necessaria regola di lavoro, per cui a fatica va emergendo il legame fra la straordinaria fioritura linguistica e culturale della corte federiciana e l’azione politica di Federico II. Il tentativo del “puer Apuliae” di unificare l’Italia partendo dal Sud – dunque, non in quanto imperatore, ma come re di Sicilia- è concepito infatti anche grazie al formidabile rinnovamento culturale nella Sicilia del tempo, all’incontro fra diverse culture che si integrano e si arricchiscono reciprocamente, ai numerosi elementi di modernità assimilati dalla cultura araba (averroismo e razionalismo) e alla nuova elaborazione giuridica . Chiedersi, come fa ancora qualcuno, se Federico avesse piena consapevolezza del suo nuovo compito non ha molto senso perché è sempre importante ciò che effettivamente si fa, o si tenta di fare, e non il livello di consapevolezza nel farlo. Certamente era sollecitato dalle novità oggettive e dalla crescita culturale che premeva sulle sue spalle, dalla “ricchezza” prodotta dall’incontro della cultura classica con quella araba, dalla proiezione futuristica delle nuove elaborazioni giuridiche, che fanno di Palermo, della Sicilia e della Puglia il centro di una nuova civiltà. E’ chiaro che l’azione politica di Federico non sarebbe potuta maturare senza questo grande fermento culturale perché sono proprio i processi culturali nuovi a stimolare la prospettiva di uno Stato unitario, ma è vero anche che questa a sua volta accelera il mutamento dei capisaldi culturali e il bisogno di una unificazione linguistica.
La corte di Federico diventa “il più grande centro organizzato della cultura italiana”. Qui matura l’averroismo latino, una concezione post-feudale del diritto, il primo “volgare illustre” -cioè “il primo nucleo letterario della lingua italiana”-, la cosiddetta scuola poetica siciliana (attorno a Jacopo da Lentini), “la separazione fra poesia e musica, cioè il genere stesso della poesia moderna”(2). Dice Dante nel “De vulgari eloquentia” (I,12) : “ Tutto quello che in quel tempo veniva prodotto dagli spiriti migliori tra gli Italiani si manifestava innanzitutto nella reggia di quei sovrani così illustri; e poiché la Sicilia era sede del trono regale, ne conseguì che tutto ciò che i nostri predecessori composero in volgare ha nome di ‘siciliano’ ” .
L’opera di Federico rappresenta oggettivamente il tentativo di una fondazione del linguaggio culturale della nazione e di unificazione politica dell’Italia. Per Foscolo “Federico II aspirava a riunire l’Italia sotto un solo principe, una sola forma di governo e una sola lingua e tramandarla ai suoi successori potentissima fra le monarchie d’Europa”. Fonda nel 1224 a Napoli la prima università “pubblica” proprio per attrarre nel Sud, attorno al primo nucleo di “Stato italiano” costituito dal suo regno di Sicilia, molti giuristi (ne toglie alcuni perfino alla cattolica università di Bologna) che effettivamente daranno al diritto caratteri scientifici nuovi e operativi: “la riscoperta del diritto romano come fonte primaria del nuovo diritto comune laico e la compilazione del primo codice europeo della modernità post-feudale” (3).
L’ossatura istituzionale di questo Stato da unificare trova la sua fondamentale sistemazione nelle “Costituzioni di Melfi” del 1231, a cui misero mano i grandi giuristi del tempo, come Giacomo Di Capua, Roffredo di Benevento, Pier delle Vigne. Esse sono un grandioso documento di modernizzazione giuridica, di trasformazione di un assetto politico-istituzionale di tipo feudale in uno Stato appunto unitario. Lo storico francese Jacques Le Goff riteneva queste “la più grande opera legislativa emanata da una autorità laica nel medioevo”. Superando la concezione feudale. Federico elimina il potere delle città, dei baroni e del clero e accentra tutte le funzioni giuridiche, amministrative e militari nelle mani del re. Impedisce alle città di costituirsi in comune e di eleggere consoli o podestà; ai baroni toglie praticamente ogni diritto di proprietà e di amministrazione della giustizia; riconduce il clero al giudizio dei tribunali laici e vieta ad esso ogni proprietà e acquisto di terre. Le misure caratterizzanti sono quelle tipiche di uno Stato moderno vero e proprio: la separazione del potere laico da quello religioso, la formazione di un ordine giudiziario e burocratico autonomi, una amministrazione pubblica, una organizzazione finanziaria e fiscale centralizzata, la convivenza pacifica di più razze e religioni. Facendo derivare la sua autorità direttamente da Dio -ed eliminando così ogni altra autorità concorrente- lo “Stupor mundi” procede spedito verso la centralizzazione di un potere assoluto in cui sovrana è la legge del re e alla quale lo stesso re deve attenersi. A questa nuova visione di lì a poco sarà il grande giurista meridionale Marino di Caramanico nel suo “Proemium in Constitutiones Regni Siciliae” (1278) a dare sistemazione teorica compiuta alla sovranità regia e a spiegare la variante italiana della espressione europea “Rex in regno suo est imperator”.
Le Costituzioni di Melfi sono dunque il documento giuridico del primo tentativo al mondo di costruzione di uno Stato nazionale, unendo, appunto, al regno di Sicilia il resto d’Italia. Sostenere che un tentativo simile era già stato fatto proprio dal nonno di Federico significa accomunare due imprese dal carattere del tutto diverso, se non proprio opposto, in quanto il Barbarossa scende dal Nord Europa come imperatore del Sacro Romano Impero per consolidare un impero “universale”, mentre Federico sale dal Sud al Nord d’Italia come Re di Sicilia per dar vita ad una monarchia territoriale assoluta, secondo la formula politico-giuridica: Rex superiorem non recognoscens in regno suo est imperator ( proprio come sara’ concretamente dopo per Francia e Inghilterra). Si tratta di un documento di straordinaria portata e precocità che vede protagonisti il Sud, le terre palermitane e pugliesi e un sovrano,un re “italiano”, anche se impropriamente Federico continua ad essere considerato “di Svevia” e, soprattutto, un imperatore tedesco. Egli, infatti, di ‘teutonico’ ha sempre avuto assai poco se si tiene conto che è nato a Jesi, cresciuto a Foligno, maturato a Palermo, che parlava solo il “volgare” siciliano e che solo strada facendo imparò il latino, il greco, l’arabo e poi anche il tedesco. Si aggiunga che la madre, Costanza d’Altavilla, benchè di origine normanna, era di fatto siciliana. Federico si è sempre sentito siciliano e pugliese. Veniva chiamato “puer Apuliae” e, pare, che abbia detto: “Se il Signore avesse conosciuto questa piana di Puglia -luce dei miei occhi- si sarebbe fermato a vivere qui”. Purtroppo, si parla molto di più delle sue stravaganze e bizzarrie ‘imperiali’, delle molte donne avute, della sua curiosità per la stregoneria e magia che non, appunto, del tentativo storicamente inedito per la sua epoca di costruire un regno unificando la penisola italiana, con una nuova cultura fecondata dal contatto con genti del tutto estranee al mondo germanico e permeata di razionalismo averroista.
Il tentativo federiciano di unificare l’Italia purtroppo fallì, come fallirono tutti gli altri tentativi successivi (Milano, Venezia, Firenze). Da noi infatti l’unificazione della Penisola significava scontrarsi con la Chiesa, vale a dire con la più grande potenza politica e religiosa dell’epoca, insediatasi stabilmente col suo “Stato” nel centro dell’Italia e perennemente a difesa del suo potere temporale. Proprio da quella sconfitta ha così inizio il nostro disastro storico e civile perché restammo senza Stato politico (e senza una lingua nazionale parlata) per secoli, fino al 1861, condannati a fronteggiare sempre da perdenti le grandi formazioni territoriali di Francia, Spagna e Inghilterra capaci, invece, di realizzare il proprio Stato nazionale. Per il leccese Michelangelo Schipa (come dice nel suo “Sicilia e Italia sotto Federico di Svevia, apparso nella “Cambridge medieval history”) “con Federico scese nella tomba la possibilità di unire in un unico Stato l’Italia, eliminato il potere temporale dei papi”. Dopo questo collasso, l’unità di politica e cultura (e lingua nazionale) che si stava costituendo si spaccò: “La politica italiana uscì dal proscenio europeo involgarendosi nelle competizioni particolaristiche e la cultura italiana si salvò solo allontanandosi dalla politica e vivendo comunque in un vuoto politico nazionale”. Così lungo tempo è venuta a mancare l’idea di una Italia politica, sostituita da una idea letteraria della stessa e da una concezione della vita pubblica “sostanzialmente cosmopolitica, cui corrispondeva un comportamento pratico individualistico”(4).
Nonostante tante drammatiche interruzioni, resta il fatto che la nobiltà delle nostre radici deve essere ricercata proprio in quell’epoca talmente lontana da renderne difficile il recupero e il rilancio storico. E’ lì infatti che è depositata buona parte delle risorse per un rafforzamento del nostro spirito comunitario e di Paese unito da un destino sentito da tutti. E’ lì che con incredibile anticipo vengono a delinearsi tutti i nostri connotati di nazione: politici, linguistici, letterari, artistici, giuridici. Purtroppo, ancora ai nostri giorni, il pieno recupero di quell’età non sembra del tutto avvenuto e quella storia non è ancora diventata davvero parte integrante della nostra storia e della nostra cultura. L’abbiamo rimossa anche a causa di una posizione culturale che ha fatto iniziare la storia d’Italia solo a partire dalla sua unificazione politica (1861). Questa concezione nana della storia d’Italia, veicolata da Benedetto Croce, è diventata quasi un pregiudizio, spesso trasmesso alle nuove generazioni anche attraverso i manuali scolastici. Per questo facciamo fatica a cogliere appieno il legame tra la nostra storia preunitaria e quella presente. Per noi meridionali non ha il rilievo dovuto pensare alle nostre ascendenze normanne, sveve, federiciane. I valori storici e artistici preunitari, non riuscendo a legarli con la nostra vita quotidiana, sono da noi considerati solo da un punto di vista puramente estetico proprio perché la nostra tarda unificazione ha disperso il senso storico della nostra cultura. In tutto l’occidente europeo la nostra è la storia unica e dolorosa di una Nazione assai precoce e di uno Stato assai ritardato. Siamo stati i primi quasi in tutto: nella lingua moderna (scuola siciliana), nell’arte (Giotto, Cimabue), nella scultura (i pugliesi Nicola e Giovanni Pisano), nella teoria del diritto e dello Stato (Decreto di Graziano, glossatori) ecc., ma ultimi nella unificazione politica. Da qui la nostra anomalia, tutta compresa, appunto, “nella mancata saldatura fra la straordinaria capacità intellettuale, precoce e anticipatrice, e la secolare impossibilità di costruire un circuito politico unificante che in pari tempo diffondesse quella capacità nello spirito generale della nazione e desse gambe, energia popolare e forza politica alla cultura” (5).
Riprendendo, per concludere, quello che abbiamo detto all’inizio riguardo il rapporto fra politica e lingua (cultura), possiamo senz’altro sostenere che dalla mancata tempestiva unificazione politica e dalla conseguente fragilità della nostra vita comunitaria derivi anche la fragilità della nostra lingua. E che pertanto per tutelare e valorizzare la nostra lingua occorre rafforzare il nostro spirito pubblico, il nostro sentimento della comunità nazionale. Che, insomma, non ci può essere forza popolare, autonomia e tutela della lingua italiana senza sentirci un popolo unito. Che non c’è vero progresso per un Paese che separa la sua politica dalla sua cultura e la sua cultura dal suo destino politico.
Egidio ZACHEO
Note
- U. Cerroni, Precocità e ritardo nell’identità italiana, Roma, Meltemi, 2000 , p. 21.
- U. Cerroni, L’identità civile degli italiani, Lecce, Piero Manni ed., seconda edizione ampliata, 1997, p. 141.
- Ivi, p. 142.
- Ivi, p. 29.
- Ivi, p. 44.
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