Sul senso del male in tempo di coronavirus

Il bellissimo discorso di papa Francesco di venerdì 27 marzo, in una piazza San Pietro scenograficamente deserta, ruota attorno all’invocazione al Signore di non abbandonarci mentre la barca affonda («Maestro non ti imposta nulla se periamo?», Vangelo di Marco, 4, 38). Le due polarità del tema, la barca affonda e l’invocazione a non abbandonarci, sono ciascuna occasione per l’elaborazione di una  serie di metafore: la barca che affonda è un’umanità che con le sue ingiustizie e avidità ha dimenticato i valori essenziali di un umanesimo ispirato al cristianesimo, ma per nulla recluso nei confini di questa religione; il non abbandonarci rivolto all’Altro coincide nel contesto cristiano con l’invito a mettersi alla sequela dei valori testimoniati da quell’esemplare “figlio dell’uomo” che fu Gesù. Figlio del falegname di Nazareth, sottolineerei, prima di essere figlio di Dio secondo l’impegnativa teologia trinitaria di Nicea e Calcedonia. Si noti che il pontefice non insiste su una responsabilità umana nell’attuale tragedia secondo una dottrina per la quale le sciagure naturali sarebbero la punizione divina per l’umana malvagità, o almeno una prova per saggiarne la fede in Dio. Piuttosto, manzonianamente, il male “fisico” è occasione di riflessione sull’umana fragilità e ad tempo occasione di un appello a un “cambio di mente” (che è la metanoia dei Greci, quale senso della “conversione”), il quale punti a perseguire i valori essenziali sul piano etico o, come diremmo oggi per togliere ogni sospetto di moralismo, sul piano della vita relazionale, sociale. In altri termini, le tragedie sono un appello esistenziale che pone l’essere umano a un bivio: la scelta tra il lasciarsi andare alla disperazione e il rilancio convinto, valorizzando energie e potenzialità prima insospettate. Ma a quali condizioni è possibile questo passaggio dalla disperazione all’operosa speranza? Ed esso può giustificarsi anche da un punto di vista laico? Occorrerà passare per una non breve riflessione sull'(eventuale) senso del male.

L’arroganza della teodicea –  Sotto il profilo psicologico ed esistenziale è fuori luogo, a mio parere, voler persistere nelle ricorrenti domande «Perché Dio permette il male?», «Perché la crudele sofferenza dell’innocente?».  Sono domande che a ben vedere hanno interessato e interessano tanto il credente quanto il miscredente: nel credente costituiscono un indubbio motivo di turbamento e di confusione; nel miscredente sono significativo motivo di ateismo o per lo meno di agnosticismo (esemplarmente, dall’Ivan dei Fratelli Karamazov di Dostojevkij, 1880, al dottor Rieux ne La peste di Camus, 1947), non potendosi ammettere che esista un Dio buono e misericordioso se permette le stragi e la sofferenza dell’innocente. In tal modo, a ben vedere, ateo e credente fanno entrambi della teodicea, quella branca della teologia di cui pure diversi filosofi si sono occupati ponendosi la questione del perché il male se esiste Dio. Va notato che filosofi e teologi che speculano in tema di teodicea suppongono l’esistenza di un Dio creatore e reggitore del mondo, che inoltre vuole il bene del mondo e dell’umanità. Pertanto va rilevato che la questione del male posta in siffatti termini è significativa nel contesto delle tre grandi religioni monoteiste, ma non nel contesto delle religioni dell’India e dell’Estremo oriente, e neppure, per altro verso, nel contesto delle versioni gnostiche del cristianesimo, che vedevano un principio del Male coesteso e antagonista al principio del Bene.

    Orbene, quanti si pongono quelle domande cruciali – oggi meno i filosofi e i teologi, è vero, ma senz’altro tanta gente comune più o meno religiosa – a ben vedere  pensano di potersi mettere nella “testa” di Dio, allorché cercano la ragione per cui Dio fa certe cose o quanto meno permette che avvengano. Una prima reazione che a me viene a fronte di questo modo di porre la questione del male è che, se si crede davvero che Dio è Dio – cioè che è altro rispetto ai desideri umani e non invece una proiezione antropomorfica –, allora bisogna dire che egli sa quello che vuole e perché lo vuole, senza che debba renderne conto ad alcuno. (Così forse ragionerebbe un mussulmano nel suo fatalismo, piuttosto che un cattolico, il quale generalmente ha un’immagine più antropomorfica di Dio). Anzi si può a rigore sostenere che il credente, volendosi mettere nella testa di Dio per scovare le ragioni delle sue azioni, invero compie una bestemmia: tacitamente intende dire a Dio quello che avrebbe dovuto o non dovuto logicamente fare. Con buona pace, per altro, di tutte le manifestazioni religiose in cui si chiede a Dio, in cambio delle proprie opere di penitenza, che faccia cessare la sciagura in corso.

     Insomma, la domanda «Perché Dio lo permette?», o peggio «Perché Dio lo vuole?», è domanda presuntuosa e insensata. Al più, al netto del carattere presuntuoso, la domanda può esser sensata per chi pensa di non vivere che in un orizzonte di metafisiche verità dogmatiche sulla natura di Dio, le quali precedono ogni realtà mondana, anzi sarebbe solo a partire da esse che andrebbe guardata e misurata la realtà mondana. Ma in tal modo si schiaccia ogni domanda di senso che parta dall’umana, tangibile condizione, a vantaggio di presupposte, metafisiche verità di fede. In termini teologici la fides quae creditur, cioè il deposito di verità che sono da credere, verrebbe a schiacciare la fides qua creditur, cioè l’umano, interrogante percorso esistenziale aperto anche a una opzione religiosa. In effetti, tra le due fides, per il credente stesso dovrebbe esserci un’aperta dialettica, in virtù della quale i dogmi contenuti nella fides quae vengono riletti alla luce del loro senso esistenziale (e, aggiungerei io, alla luce del loro senso psicologico). Lo aveva già suggerito un teologo del calibro di Rudolf Bultmann, influenzato per altro dal filosofo Martin Heidegger. Come dire che un deposito di umanità è pur sempre contenuto in quelle verità di fede (cosa che pure l’ateo Ludwig Feuerbach mostrava nella sua Essenza del cristianesimo, 1841), sì che i dogmi stessi possono essere anche riletti in senso simbolico (Immanuel Kant, La religione nei limiti della semplice ragione, 1793).

Il male odierno e la sua entità  – Ben inteso, affacciandoci ai sommi problemi suscitati dalla presenza del male, sia esso fisico (epidemie, catastrofi naturali), sia esso provocato dall’uomo (guerre, genocidi), la gravità dell’attuale pandemia andrebbe ridimensionata rispetto a un clamore che pare a me eccessivo, nei numeri anzitutto, e poi andrebbe ridimensionata in rapporto al nostro contesto culturale. Anzitutto, al freddo occhio della statistica che pur non toglie il dolore per ogni singola persona deceduta, i prevedibili 40.000-50.000 morti in Italia per Covid-19 nel corso dell’anno sono lo 0,7-0,8 per mille della popolazione italiana, con un incremento minore di un decimo rispetto al numero medio di decessi per anno (attorno ai 650.000 mila): fortunatamente ben poca cosa rispetto alle ondate di peste del Trecento e del Seicento che decimarono ciascuna, si stima, il 30-40% della popolazione. E se le stime per Covid-19 a livello mondiale sono nell’ordine del milione di morti, sono fortunatamente poca cosa rispetto alle decine di milioni di morti tra soldati e civili in ciascuna delle due Guerre mondiali (nella sola battaglia di Verdun del 1916 morirono in pochi mesi oltre 400.000 soldati, tra francesi e tedeschi, più del doppio delle più pessimistiche previsioni iniziali dei morti per Covid-19 negli USA).

    Ma l’attuale pestilenza va anche ridimensionata nella sua valenza sociale e culturale, alla luce anzitutto del suo carattere fortemente eurocentrico: ci colpisce tanto da vicino, perché riguarda direttamente noi, ma finché era solo in Cina e in Estremo oriente… , e così per l’ebola in Africa, per non dire della cronica epidemia di malaria (219 milioni di casi registrati nel solo 2017 dall’OMS, coi conseguenti morti). Ci colpisce perché riguarda maggiormente i Paesi occidentali, quelli  col più alto reddito e dunque col più rovinoso crollo economico. Inoltre, guardando al passato, quando mai l’Europa si preoccupò delle stragi di popolazioni amerindie le quali, prive di anticorpi contro il banale raffreddore portato dai conquistadores, morirono a milioni, cancellando intere etnie. Colpisce poi noi occidentali perché ci si sentiva sicuri: si pensava di poter essere difesi a sufficienza grazie alle luminose conquiste della scienza medica e ai moderni sistemi sanitari. Ci colpisce ancora, perché tolleriamo meno che in passato la morte dell’anziano, di per sé più fragile, e del malato grave come fatti naturali: sempre grazie ai progressi della medicina si portano avanti negli anni persone che, con patologie e pluripatologie croniche o cronicizzate, solo qualche decennio fa non sarebbero sopravvissute più di tanto. Il tutto poi in un quadro culturale di generale, diffusa rimozione della morte.

     Certo, e voglio ben sottolinearlo per non essere frainteso, è un fatto di civiltà la strenua lotta contro la malattia e la morte a favore  di chiunque, a qualunque età e in qualunque condizione patologica si trovi. Ma va ad un tempo rilevato che altre culture, altre religioni praticano un diverso rapporto con la morte, sentendola maggiormente un fatto naturale: l’essere umano inscritto nel grande ciclo della natura, o più specificamente nel ciclo delle reincarnazioni, come nell’induismo e nel buddismo.

È legittima la domanda sul senso? – Ridimensionata la gravità dell’attuale pandemia, la domanda del perché della sciagura si riaffaccia, tanto più se la sciagura non è provocata deliberatamente dall’uomo come le guerre e le stragi. Di guerre e genocidi sappiamo a chi attribuire la “colpa”: all’insipienza, alla prepotenza e alla crudeltà umane. Nella pandemia invece propriamente manca il colpevole. Il mercato degli animali di Wuhan è stato solo il primo anello della diffusione di un virus che, come tanti altri microorganismi, è il prodotto di una storia evolutiva naturale, che da sempre c’è sulla terra con le sue ferree leggi darwiniane: sopravvivenza e diffusione di chi è più adattato. E il Covid-19 ha mostrato uno straordinario successo adattivo, avendo trovato un habitat favorevole, la popolazione umana particolarmente abbondante e indifesa.

    Tuttavia, anche di fronte a un fatto di per sé indipendente dalla volontà umana, è tendenza della psiche umana cercarne la causa in qualche volontà responsabile; il che accade a seguito di un radicato antropocentrismo, per cui il mondo sarebbe fatto sul modello dell’uomo e per l’uomo. (Sicché la causa, come l’aitia dei Greci, è ad un tempo la colpa, e questa illusoria coincidenza, per altro, è l’altra precondizione della domanda della teodicea, la quale suppone gli eventi naturali stessi esser retti da una Volontà). Lo si è visto in tante catastrofi come i terremoti: non sopportando quanto vi è di incontrollabile o imprevedibile nell’evento, si finiva con l’attribuire agli umani più responsabilità di quelle, già non poche di certo, che essi avevano in termini di mancate prevenzioni, di tempestività degli interventi, ecc. Si può capire questa caccia al colpevole, come effetto di una irrazionale tendenza psicologica: se è difficile accettare la causa naturale come quella determinante, sorge il “bias cognitivo” per cui va cercato comunque colui o coloro su cui scaricare la responsabilità e vendicarsi (con allusione, tra l’altro, all’imputazione ai laboratori di Wuhan di aver creato il virus avanzata dal presidente USA Trump, e con buona pace del Nobel Montagnier, ampiamente screditato dai colleghi biologi).

     Allora, alla luce del carattere di per sé naturale dell’attuale sciagura, la domanda sul senso di questo male è ancora sensata? Ma, preliminarmente, che cosa è da intendersi per “senso”? La ricerca del senso riguarda il significato che un certo evento ha per me, per noi. È così che la domanda del perché vi sia quel male, in quanto venga formulata nei termini di una domanda sul senso, piega la parola “perché” al suo significato finalistico: «Perché per me, per noi, per la nostra vita, quel male è accaduto?». Vi è una notevole differenza rispetto al significato causale della parola “perché”: «Perché, cioè qual è la causa determinante, per cui quel male è successo?». (È differenza talora trascurata nelle teodicee: Dio può aver permesso il male, e dunque in lui andrebbe trovato il senso di quel male, mentre la causa determinante può essere un evento naturale, o la perversa volontà umana).

    Ricordata dunque  la differenza tra causa e senso, possiamo ben cogliere che chi reputa fuori luogo la domanda sul senso, è perché si arresta alle cause determinanti della pandemia, cioè il virus evolutosi secondo leggi naturali (cui va certo aggiunta una certa insipienza umana). In altri termini, chi permane nell’orizzonte delle cause determinanti – che sono poi come già detto cause fisiche, di tipo biologico e biochimico nella fattispecie – non trova alcun senso in questo male, proprio perché non c’è da trovarne alcuno. La domanda sul senso avrebbe un inguaribile sapore antropocentrico, come se il mondo fosse per noi, per l’essere umano. Anzi, nel quadro della storia naturale non è detto che quel che è sentito come male da noi e per noi oggi, sia per forza un male nell’economia dell’evoluzione biologica o a maggior ragione cosmologica, la quale per altro appare sostanzialmente indifferente ai destini di homo sapiens, e tanto meno dà certezze sulla sopravvivenza del genere umano nei millenni a venire.

Il senso al di là del meccanicismo  – Certo, questa visione che chiamerei meccanicistica in senso lato – per la quale il mondo è esaustivamente spiegato dal gioco di leggi di natura casualmente date – richiama a una sostanziale umiltà a fronte delle forze della natura. Essa però non dà ragione del sopravanzare dello psichismo umano, e in certa misura animale, rispetto alle mere forze naturali; non dà ragione di tendenze, come il dolore del lutto, la pietà per chi sta male, la cura del malato, del moribondo pur sapendo che non c’è più speranza. Sono tendenze altruistiche che pur hanno una base nel nostro cervello mammifero (estendono cioè, per via di un tipico processo psicologico, lo schema del “naturale” rapporto madre-bambino). Questa base biologica le rende possibili, ma non necessarie. Anche le tendenze aggressivo-distruttive, per altro, hanno una base biologica, e tutte queste tendenze cosiddette istintive sono da rileggersi, alla luce di studi psicobiologici recenti, come degli schemi comportamentali pronti ad attivarsi, ma non ineluttabili (vedi il volume dello scrivente, Aggressività. I classici nella tradizione della psicologia sperimentale, della psicologia clinica, dell’etologia, 2004).

     Quei comportamenti consoni all’umana psichicità, dunque, hanno poca giustificazione alla luce delle leggi biologiche della sopravvivenza: sono disfunzionali, anzi uno spreco seguendo una logica darwinistico-meccanicista. Così come uno spreco – e non solo economico, con allusione alle trovate, tra gli altri, del premier inglese  Johnson – è il fatto di curare chi ha già patologie letali o è avanti negli anni. Il meccanicista può ancora pensare, pur a fronte delle suddette considerazioni, di poter ridurre il funzionamento della nostra psiche alle mere leggi di funzionamento del cervello (cosa su cui c’è tutt’altro che accordo tra i neuroscienziati). In questo caso caso però è difficile spiegare tra l’altro un altruismo umano che, a ben vedere, va oltre il calcolo della convenienza dell’ “altruismo” qual è stato formulato nella Sociobiologia di Oscar Wilson (1975), secondo cui anche animali più in basso nella scala dell’evoluzione possono istintivamente sacrificarsi per il consimile: lo fanno pur sempre in funzione del vantaggio del parentado più prossimo.

     Del resto, la psichicità umana è qualcosa che emerge rispetto alla mera natura o, se si vuole, la natura stessa, non più intesa in senso meccanicistico, ha già in sé potenzialità “protopsichiche” tali da produrre questa emergenza (come ritiene ogni concezione romantica o anche evoluzionistico-finalistica della natura). La psichicità umana, infatti, ci permette di guardare alla natura e al mondo intero come a una totalità. Anzi lo stesso meccanicista quando afferma, a torto o a ragione, che tutto il mondo non è che l’esito del caso e di leggi naturali, a ben vedere si eleva oltre al suo meccanicismo, se non altro perché l’opzione meccanicista si confronta esplicitamente o implicitamente con altre opzioni, altre visioni, mirando a una totalità che può essere in un modo o anche nel modo opposto. Il pensiero umano, pertanto, affacciandosi su possibilità alternative, tanto più quanto più guarda al mondo come a una totalità, esula da determinismi; ciò vale quanto meno nel contenuto del pensiero, se non nei determinismi inconsci che possono aver influenzato quel pensiero al momento della sua genesi. Il che è evidente nella creazione artistica e in qualche modo pure nella creazione di forme e teorie religiose.

 Il valore pragmatico della domanda sul senso – Proprio questo carattere del pensiero di poter pensare il mondo nella sua totalità, e inoltre di poterlo pensare in modi diversi e opposti, avalla ulteriormente la legittimità della questione del senso. Appurate, infatti, in linea di principio tutte le cause naturali, tutte le leggi naturali, sorge pur sempre la questione perché il mondo con le sue leggi è fatto così e non diversamente da come è. (E coi sommi filosofi:  «Perché l’essere e non il nulla?»). Ecco dunque riaffiorare la domanda sul senso, ora nella formulazione: «Perché per noi le cose stanno così, piuttosto che diversamente da così?».

    Evidentemente il senso non è iscritto nelle cose come tali, siamo noi ad attribuire ad esse un senso (o un non-senso), in una interazione tra l’ordine del mondo e l’ordine delle nostre propensioni etiche, culturali. Le risposte alla domanda sul senso, per il loro intrinseco tasso di creatività e inventività, non hanno dunque il carattere di affermazioni asseverative, “è così e non è diverso da così”, bensì il carattere di affermazioni plausibili: sono un vedere “come se” (il filosofo Kant avrebbe parlato di giudizi riflettenti in opposizione ai giudizi determinanti). Il fatto poi che queste risposte non siano confermabili o confutabili attraverso prove empiriche, è una differenza importante rispetto alle risposte alla domanda sul perché in senso causale. Vale a dire, in quelle risposte l’intuizione creativa si coniuga con l’osservazione dei fatti, ma la eccede. Il senso, o meglio la risposta alla domanda sul senso, nasce da un’intuizione, in cui concorre la ragione e il sentimento. Inoltre esso ha un sapore di per sé finalistico: antropocentrico sì, ma a mo’ di un “come se”, come se  il mondo fosse finalizzato all’uomo, senza la pretesa però di dimostrare che esso sia oggettivamente finalizzato all’uomo.

     Tuttavia, potrebbe obiettare l’amico meccanicista, che validità ha il fatto di basarsi su affermazioni che non hanno certezza conoscitiva? Ebbene, il loro valore sta nella misura in cui esse sono funzionali all’esistenza umana. Ciò che infatti più importa alla fin fine ponendoci alla ricerca del senso, è la valenza pragmatica, operativa che esso comporta. È meno importante sapere se la risposta alla questione del senso è vera o falsa – alla condizione minimale che non sia palesemente falsa – più importante sapere che valore essa ha in relazione al nostro esistere: esistere come singoli, esistere come relazionati con altre esistenze. In effetti, è in funzione del senso rintracciato, intuito, che si tende poi ad agire in certo modo piuttosto che in un altro, proprio perché, come dicevo, la questione del senso ha di per sé a che fare con le finalità, ovvero con le motivazioni del nostro agire. Allora occorre vagliare il senso rintracciato alla luce degli effetti che esso produce in termini di operatività funzionale all’essere umano: va respinta una risposta che induca a comportamenti dannosi per l’esistenza psicologica e sociale, oltre che fisica, dell’essere umano, premiata una risposta che favorisca la vita e la crescita. Certo, a monte vi è il presupposto che la vita, l’esistenza abbiano comunque un valore.

     Di converso, chi vede solo un non senso, un assurdo nell’esistenza, cade nella disperazione, o al più pratica un’operosità eroicamente inutile, come prospetta Camus nel suo Mito di Sisifo (1942): Sisifo assurdamente costretto a spingere in salita la pietra che inesorabilmente ricadrà a valle, così come assurda è l’esistenza. Chi poi ha una visione meccanicista nel senso suddetto, può operare certamente in nome di un volontarismo filantropico, come il dottor Rieux nella menzionata La peste di Camus; ma a ben vedere questa filantropia spinta fino a mettere a repentaglio la propria vita, se da un lato rappresenta il senso dell’operare, dall’altro lato a ben vedere fa violenza a quel tanto di fatalismo insito in una visione meccanicista per cui non siamo che oggetto di leggi di natura. In effetti, il filantropico processo di identificazione col prossimo sofferente, che per altro, ripeto, ha pochi riscontri nel mondo animale, comporta un senso che eccede il mero darwinismo meccanicistico.

     Fatte salve altre pregevoli motivazioni soggettive rintracciabili in colui che spontaneamente si prende cura del malato, va rilevato che chi è mosso da profonde motivazioni religiose e che, di più, veda la vita come un passaggio, è maggiormente disposto ad operare anche a rischio della propria vita. Si possono fare tanti esempi, tra gli altri mi sovviene la vicenda di Agostino Gemelli, fondatore dell’Università cattolica: dapprima ateo e anticlericale, si convertì nel corso del servizio militare prestato in qualità di ufficiale medico, quando fu colpito dall’abnegazione e dalla tenerezza con cui umili fraticelli francescani, incuranti della propria salute, assistevano commilitoni tubercolotici. In ogni caso, quanto più fortemente si è animati da un senso forte dell’esistere, sia esso ispirato religiosamente o laicamente, tanto più si opererà nel mondo per il bene del prossimo e del mondo stesso.

Finalmente, un senso intrinseco al presente male? – Altro in effetti è prendere spunto da una sciagura per (ri)scoprire alcuni valori e impegnarsi a seguito di essi, ed allora si tratterebbe di un senso che sorge in occasione del presentarsi della sciagura (dacché specie a fronte della morte e della rovina si è sollecitati ad interrogarsi sul valore dell’esistere); altro è rintracciare un senso intrinseco a quella sciagura. Limitandomi alla contrapposizione un po’ schematica tra credente e meccanicista, che in genere è miscredente, va da sé che il meccanicista non trovi un senso intrinseco; al più trova un “senso” evoluzionistico, il quale però, nella misura in cui il meccanicista esclude qualunque finalismo inscritto nella natura, non  è propriamente un senso. Anzi, come detto sopra, il senso non sarebbe per lui neppure da cercare.

    Non troppo diversa, a ben vedere, è la situazione del credente che respinga tanto le teodicee quanto dogmi calati dall’alto (e non invece riscoperti e risignificati in un personale percorso esistenziale). In effetti, pur “interrogando” Dio a partire dalla nostra situazione esistenziale, reputo che non ci sia una risposta alla domanda sul senso intrinseco della presente sciagura, bensì essa resta celata nella mente di Dio (per lo meno per chi pensa a un Dio personale). Ed è proprio questa in definitiva la “risposta-non risposta” alla domanda sul senso del male contenuta nel Libro di Giobbe (uno dei libri della Bibbia regolarmente invocato in tema di senso del male). In un dialogo tanto drammatico quanto letterariamente affascinante, Giobbe chiede conto a Jahvé delle sciagure che l’hanno colpito e di cui lui non ha alcuna colpa. L’autore del racconto biblico non sa dare una risposta e, pur in una rinnovata adesione di fede in Jahvé, lascia il senso celato nell’imperscrutabilità della mente divina. E lo fa, curiosamente, proprio attraverso l’esaltazione di quella magnificenza di Dio che si manifesta nel mondo da lui creato. Come dire che, se la potenza divina supera ogni umana immaginazione, allora nel contesto del creato per Jahvé un senso c’è.

     Non resta dunque, esistenzialmente, per il credente cristiano che (ri)partire daccapo, dall’umana, concreta situazione, al più “confortato” da quella speranza di senso. Più che pretendere risposte da Dio nella sciagura che ci affligge, egli non può che trovare un’occasione di rinnovata sequela di Gesù di Nazareth. Il quale tra le altre cose tesse l’elogio del buon Samaritano, che a spese sue si prende cura dello sconosciuto trovato moribondo per strada, pur non avendone alcun obbligo legale. È un senso dell’agire che prende spunto da un male concreto e opera in quella concreta situazione, in coerenza con un senso più generale riguardante il valore dell’essere umano come tuo prossimo, chiunque esso sia. Ed è quanto in fondo indica papa Francesco nel discorso del 27 marzo da cui sono partito. Due livelli di senso dunque: il senso generale attribuito all’essere umano come prossimo (il valore della solidarietà, che il cristiano fonda sulla figura esemplare di Gesù), il senso particolare suscitato a fronte di un concreto male, che coniugato col primo promuove una fruttuosa indicazione operativa.

APPENDICE. Il senso dal punto di vista religioso – A ben vedere, nel nostro contesto culturale l’adesione personale, e non per mera abitudine di famiglia, a qualche religione risponde sempre a una ricerca di senso sull’esistenza: perché siamo al mondo, perché moriamo, se c’è qualcosa dopo la morte, se c’è un finalismo nel mondo o se il mondo è solo frutto del caso nel contesto dell’evoluzione cosmologica, ecc.  Anzi le religioni (penso  precipuamente alle grandi religioni monoteiste) nascono anche per rispondere a queste intriganti domande sul senso della vita, della morte e del mondo in generale, come mostra la ricorrente tematica soteriologica, relativa cioè alla salvezza e al dopo morte. Per molti aspetti esse offrono teorie mitologiche, in cui la spiegazione causale su origine e fine del mondo si fonde e confonde con la ricerca di senso propriamente detto. Ma in ogni caso, poiché il senso additato pur attraverso i miti è destinato a produrre prassi e non una mera contemplazione speculativa, quel senso è reale più che mai: reale in quanto è effettuale, cioè in quanto produce effetti tangibili.

     Non è dunque nelle religioni che vanno cercate spiegazioni comprovate sul mondo e sull’uomo. Piuttosto, poiché in esse o per lo meno nella maggior parte di esse centrale è la questione  del vivere e del morire, le risposte che esse danno al problema del senso dovrebbero essere vagliate, in generale, in termini pragmatici. Cioè valgono per quel che aiutano l’uomo a vivere in questo mondo con gli altri uomini. Mi piace ricordare al proposito il filosofo pragmatista, nonché psicologo William James: nel suo lavoro The Will to Believe (La volontà di credere, 1897) difende la plausibilità di una credenza anche in mancanza di prove della sua verità: è nel contesto dell’operare fiducioso che si appura la validità di una credenza, come succede anche nella quotidiana vita pratica. Come dire, per lo meno in ambito etico, che la fede in qualcosa può contribuire a creare quella cosa. Pertanto le religioni hanno valore, e in certo senso sono “vere”, per l’importanza psicologica e sociale che esse rivestono, per l’ausilio al vivere e alla convivenza che esse consentono. Del resto questo stretto legame con la prassi si trova nella migliore tradizione cristiana, per cui la fede è inestricabilmente connessa, entro un circolo virtuoso, con l’operosa carità e la fiduciosa speranza.

      Le religioni dunque sono suscitatrici di prassi ispirate a un senso. Ma proprio qui lo psicoanalista potrebbe obiettare che, distinguendo il senso dalla verità del contenuto, la religione a maggior ragione non sarebbe che una (pia) illusione. Qui “illusione”, come scrive Freud giusto ne L’avvenire di un’illusione (1927), significa qualcosa di creduto vero solo perché risponde a qualche nostro desiderio.  In tal modo, a ben vedere, Freud non falsifica nel merito le credenze religione (ha in mente ebraismo e cristianesimo), bensì dice che non abbiamo prove della loro verità. Tuttavia, poiché queste credenze sono abbracciate solo in forza di desideri infantili, la nozione di illusione viene ad assumere in lui un significato eticamente negativo: vivere secondo illusioni non è degno di un uomo che affronti coraggiosamente i mali del vivere.

     Ma proprio partendo da considerazioni strettamente psicologiche, gli risponde indirettamente un altro grande psicoanalista quale Donald Winnicott (Gioco e realtà, 1971), il quale dà alla nozione di illusione una valenza positiva, creativa, prendendo spunto dall’etimo stesso (da ludus, gioco). Illusione sono tutti quegli “oggetti” che mediano tra i desideri soggettivi e la (dura) realtà oggettiva, a partire dai cosiddetti oggetti transizionali del bambino (ad esempio il bambolotto, che media tra il desiderio di avere la madre e l’oggettiva assenza della stessa). Vi è un forte tasso di immaginazione e creatività in questi tipi di oggetti che stanno a cavallo tra l’ordine della realtà e l’ordine dei desideri, dei sentimenti. Ebbene, essi sono suscettibili di produrre importanti, positivi effetti nella stessa vita adulta: sono oggetti che hanno il valore di simboli, poiché la cosa concreta viene ad assumere un significato che la trascende. Così, creativo gioco di illusioni sono tipicamente le produzioni artistiche, su cui pure riflette Winnicott; ma per certi versi lo sono anche le produzioni religiose, cui ancora egli accenna. Inoltre queste ultime, aggiungerei io, più che non le produzioni artistiche aiutano a vivere e altresì ad agire in una realtà anche ostile.  (Del resto già Hegel aveva intuito, seppur partendo da presupposti diversi, la contiguità di arte e religione, anche se la fede religiosa è discutibile sia riducibile alle produzioni religiose. Ma questo è un altro discorso).

Mauro Fornaro

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*