Molti anni fa, ho visto con piacere e divertimento un documentario sul teatro dei Pupi siciliani.
Si vedevano i cavalieri di Carlo Magno, come Rolando e Oliviero, azzuffarsi contro innumerevoli Mori, che, evidentemente, non erano quelli presenti in Spagna, ma bensì quelli che avevano occupato la Sicilia.
Un teatro semplice, elementare, ma molto istruttivo, che poteva insegnare molte cose ai bambini che lo guardavano con lo stupore negli occhi.
Analogo teatro delle marionette si prefigura nell’Italia di oggi, come se molti secoli non fossero passati.
Il primo attore di questo teatrino si chiama Meloni, di cui abbiamo scoperto il giochetto che la raffigura come un Giano Bifronte: tutta inchini e genuflessioni a Bruxelles e a Washington, tutta trombonate e comizi da suburra in patria, ritenendo di essere protetta da una investitura divina, una sorta di Livia Drusilla.
A parte che il giochetto è stato scoperto dopo pochi mesi, bisogna dire che tutto sommato non induce a credere in una commedia, ma piuttosto in una farsa, che nuoce soltanto a chi sta sotto, ai subordinati.
Nella sinistra dei sogni, la deuteragonista, cioè la Schlein, rappresenta una sorta di Antigone, che vuole rivendicare il corpo di un fratello maggiore sepolto, ma indecorosamente senza eredi.
Tutti gli interventi di questa ragazza presentano delle tracce di un pesce fuor d’acqua, di qualcuno che risponde faticosamente agli avvenimenti senza essere in grado di prefigurarli o anticiparli.
Il tritagonista, avvocato Conte, rappresenta bene la figura di un legale che vuole avere sempre ragione, che si trova perennemente di fronte ad un pretore al quale vuol fare inghiottire qualunque cosa, sia vera che falsa.
Lascio perdere i pesci piccoli, come Calenda o Renzi, che talora si pronunciano in qualche orazione ciceroniana, ma che non incidono per nulla su nulla.
In questo teatrino, si sta scrivendo un ulteriore atto unico, in cui la Meloni denuncia il Prof. Canfora per averla definita “neonazista nell’anima”.
A parte la mia considerazione personale per Canfora, che mi ha accompagnato paternamente nei miei esami universitari, devo considerare equamente i due piatti della bilancia.
Se Canfora ha usato un’espressione un po’ forte, ma indubbiamente giustificata dal passato della Meloni stessa, e forse, oserei dire, inopportuna, bisogna dire, a difesa del canuto professore, che nel momento in cui la frase fu pronunciata la Meloni era la capopopolo di un piccolo partito al 4% dei voti ed inoltre non era ancora Presidente del Consiglio .
Sul secondo piatto della bilancia, bisogna ricordare che Meloni per decenni si è espressa con frasi poco eleganti, senza mai dissociarsi da un lontano passato.
Quello che mi ha colpito in questa diatriba, è il linguaggio usato dai due contendenti e cioè Canfora usa delle espressioni che gli vengono dai suoi cinquantennali studi di filologia, una sorta di fioretto contro uno spadone, che conclude un raffinatissimo pensiero di Eraclito che, evidentemente non tutti potevano capire.
La Meloni usa lo spadone e si affida al codice penale, vuole la condanna del professore e un risarcimento di ventimila euro che probabilmente andrebbero in spese familiari.
I due personaggi parlano lingue diverse, come due parallele potrebbero incontrarsi solo all’infinito; per cui mi auguro che si possa trovare un giudice capace di intendere e contemperare sia le esigenze pratiche, terra terra, della Meloni, che la libertà di pensiero del Prof. Canfora.
C‘è chi vola alto e chi vola basso.
Spero che chi giudica sia in grado di mediare in modo intelligente.
Viator
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