The turning point

Precisiamolo subito, Vladimir Putin vorrebbe essere, ma non è, Stalin.

Stalin era un misto di autoritarismo zarista e di semplicistico marxismo, ereditato dal suo maestro Lenin: per certi versi, era un Ivan il Terribile, per altri, una sorta di Caterina la Grande.

Il cantore dell’universo panrusso, che voleva raccogliere tutti i popoli slavi in una sorta di confederatio maxima contro l’Occidente capitalista.

Per trenta anni, dalla grave malattia di Lenin sino alla morte, ha esercitato un potere assoluto, all’interno dell’Unione Sovietica e sul movimento comunista internazionale, colpendo tutti gli oppositori con una violenza ragionata, ponendoli sempre dalla parte del torto, poiché inspiegabilmente non stavano dalla sua.

Decine, centinaia, migliaia di ex colleghi ed amici che fecero tutti una fine miserevole, Trotzky per primo.

Un despota, un tiranno, un mostro, ma un personaggio formidabile che rincorre nella storia russa e che seppe comunque dimostrare il suo valore nella Grande Guerra Patriottica, dopo i disastrosi rovesci iniziali.

Vladimir Putin, nato più o meno negli anni in cui Stalin morì, vuole essere un suo allievo, è intelligente, cinico, metodico, pronto a colpire come un cobra, ma manca di quella dimensione umana/disumana che Stalin utilizzava per coinvolgere coloro di cui in realtà aveva bisogno, ma che doveva controllare.

Di questa capacità di Stalin ricordiamo il mirabile discorso che pronunciò ad inizio luglio 1941, quando doveva raccogliere le forze del suo popolo per contrastare la vittoria nazista che sembrava imminente e sicura.

Vladimir Putin non ha questa capacità, egli annuncia al popolo russo ciò che ha deciso e fatto senza coinvolgere il popolo, lo informa e basta, sostenendo che ciò per cui agisce è fatto per l’esclusivo interesse del popolo stesso.

Putin si considera come una pedina della Storia, quasi inevitabile, e quindi i suoi avversari vanno eliminati uno ad uno, con tutti i mezzi, senza che egli cerchi giustificazione per le sue male azioni, anche se tutti sanno, nel mondo, chi è il mandante.

In nome di un nazionalismo sfrenato, che ricorda certi momenti salienti della storia russa, Putin si sente chiamato dal suo Dio Ortodosso a svolgere un’azione che solo lui e i suoi seguaci possono comprendere appieno. Sicuramente non gli occidentali.

Ma, con la morte/omicidio di Navalny, forse Putin si è spinto troppo oltre, cerca di far sparire un uomo ed un corpo come se non fosse mai esistito, come se idee e memorie fossero solo opinioni.

Non è così, caro Vladimir, ed una mente astuta come quella di Stalin ti potrebbe insegnare qualcosa: nei momenti difficili, in quelli terribili, il dittatore estraeva dal suo cappello il perché del suo ruolo, l’essere l’erede di Lenin, del marxismo, del rappresentare non qualcosa di proprio ma bensì di duraturo e di intellettualmente valido.

L’impressione è che, pur essendo feroci entrambi, Stalin si presentava come un ideologo costretto a compiere azioni delittuose per un bene superiore, mentre Putin agisce sovente come un sicario.

Siamo nell’anno 2024: non dimentichiamo mai che cento anni fa, nel 1924, veniva ucciso il deputato socialista Giacomo Matteotti, colpevole di aver lanciato una serie di accuse ben motivate al presidente del Consiglio di allora, Benito Mussolini, accusandolo di brogli elettorali e ricordiamo che ci sono due versioni sull’omicidio, o che il mandante sia stato lo stesso Mussolini o che alcuni dei suoi uomini, per ingraziarselo, abbiano deciso di spazzar via un fastidioso ostacolo.

Ancora oggi si parla di Matteotti come di una eroica figura che sapeva a cosa andava incontro, ma non è arretrato; speriamo che Navalny, vittima e non ancora eroe, possa influire sulla futura storia russa come un esempio luminoso di quella Russia che tutti noi, innamorati di Dostoevskij e Tolstoj in letteratura e di Ejzenstein e Tarkovskij nel cinema, ammiriamo ed amiamo.

Giorgio Penzo

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