Ucraina. Lo spettro di Milošević

      – 1. Noi credevamo. Credevamo[1] che il XX secolo fosse finito. Certi intellettuali avevano cominciato a usare il termine novecentesco come sinonimo di vecchio e superato, di arcaico e trapassato. Ecco che invece ci sta precipitando sulla testa un enorme pezzo di Novecento che avevamo voluto non vedere, dimenticare, che ci eravamo illusi non potesse più dare fastidio. Un pezzo di Novecento che purtroppo ci appartiene e che conosciamo fin troppo bene. Con il quale non abbiamo mai seriamente fatto i conti. Il Novecento ci sta rincorrendo e ci sta presentando il suo conto. E che conto.

      L’attacco militare all’Ucraina da parte della Russia ha colto di sorpresa il grande pubblico, ma anche molti politici e addetti ai lavori. Solo l’intelligence americana aveva insistito, nell’incredulità generale, e aveva rivelato alla opinione pubblica quanto si stava preparando. Per quanto la Russia si fosse di fatto impadronita della Crimea fin dal 2014, violando pesantemente il diritto internazionale e guadagnando così una serie di sanzioni, nessuno avrebbe potuto presumere uno sviluppo del genere. Perché si tratta di un esito che danneggia tutti i contendenti e che apparentemente va contro ogni logica. L’attacco all’Ucraina è stata una decisione assai rischiosa e dalle conseguenze imprevedibili, capace perfino di condurre alla comune rovina dei contendenti in lotta. E forse anche alla rovina di tutto il resto.

      È opinione comune che lo scopo della Russia fosse quello di fare un blitz di pochi giorni, di far cadere il governo ucraino e di instaurare al suo posto un governo fantoccio col quale provvedere alla spartizione dei territori contesi. La resistenza[2] degli ucraini, insieme alle reazioni internazionali, ha portato all’attuale situazione di stallo sul campo che con ogni probabilità è destinata a durare a lungo. Si chiede ora a gran voce che i contendenti, l’aggressore in primo luogo e l’aggredito, cessino il fuoco e si siedano al tavolo delle trattative. La cosa per ora sembra alquanto improbabile. Nel linguaggio politologico, in caso di conflitto si è soliti invocare una terza parte che funga da mediatore, per riportare le parti alla ragione. In questo caso, tuttavia, per definizione il terzo non ci può proprio essere. Ci troviamo cioè nel caso, di cui ha parlato Norberto Bobbio, del Terzo assente.[3] Questa situazione è dovuta al fatto che uno dei due contendenti, l’aggressore, siede come membro permanente nel Consiglio di sicurezza dell’ONU e possiede la più grande dotazione di bombe atomiche reperibili sul pianeta.

      – 2. Due righe di teoria. Ho già spiegato, qua e là in altri miei scritti, quale debba essere, secondo il mio punto di vista, la chiave per un’interpretazione generale di quanto è avvenuto e sta avvenendo nel mondo post comunista. Ne riprenderò in maniera ordinata i punti salienti. All’inizio degli anni Novanta, sull’onda della caduta del Muro, si era diffuso un grande ottimismo e la facile illusione che, messa fuori gioco l’opzione comunista, sarebbe avvenuta una generale transizione verso la liberal democrazia (e verso il suo corrispettivo della economia di mercato). La sensazione era quella di una grande svolta, addirittura della fine della storia, come è stato detto,[4] cioè la storia di una contrapposizione politico sociale tra capitalismo e comunismo che era durata un paio di secoli. Solo a fatica tuttavia abbiamo capito che nei paesi ex comunisti la democrazia e il mercato erano difficilmente implementabili. Abbiamo capito che il comunismo reale aveva, per intanto, prodotto un grave deficit proprio nel tipo di cultura civica necessaria al funzionamento della democrazia. È così accaduto che, nel mondo post comunista, si siano ovunque diffusi sistemi formalmente democratici ma sostanzialmente incapaci di funzionare in modo democratico.

      – 3. Cosa caratterizza ovunque i Paesi post-comunisti? Possiamo facilmente costatare come nei Paesi post comunisti si siano ampiamente diffuse, con una rapidità impressionante, e con una grande omogeneità, tre manifestazioni tipiche: 1) Lo sviluppo di nazionalismi spesso a sfondo etnico o anche religioso, magari in conflitto tra loro e con la presenza talvolta di relativi indipendentismi. 2) Lo sviluppo di blocchi imperialistici che vedono un paese egemone e vari paesi satelliti subordinati. 3) Lo sviluppo all’interno di ciascun Paese di varie forme di potere oligarchico.

      Per quanto riguarda i nazionalismi, la cosa si spiega facilmente, poiché il comunismo reale ha di fatto sempre soffocato le nazionalità e ha impedito il normale sviluppo storico degli Stati nazionali. Venuta meno la sovrastruttura comunista, agli individui altro non è rimasto se non la riscoperta delle identità etnico nazionali, con tutto quel che di solito ne consegue. Così le identità sono venute in primo piano anche e soprattutto nella lotta politica, fino a degenerare nella violenza e nella guerra. La nazionalità è stata usata in maniera subdola e spregiudicata dalle oligarchie per i loro scopi.

      La deriva imperialistica è dovuta al fatto che due delle componenti che abbiamo citato, quella dei nazionalismi e quella del potere oligarchico, hanno dato luogo talora alla formazione di blocchi di carattere politico militare,[5] in diretta derivazione dallo sfaldamento degli apparati militari, burocratici e repressivi del comunismo reale. Si sono così creati dei sistemi comprendenti paesi egemoni e paesi satelliti in un rapporto di forte subordinazione. Ciò ha portato alla riproposizione, anche nel cuore dell’Europa, dello stretto binomio tra politica e guerra, un rapporto che si credeva ormai tramontato con la fine della seconda Guerra mondiale o, a maggior ragione, con la fine della Guerra fredda. Un caso tipico di questa situazione si è osservato con chiarezza nell’ambito della dissoluzione della ex-Jugoslavia, tra il 1991 e il 1999. Ciò naturalmente vale anche per la Russia e per la Cina.

      Il deragliamento oligarchico si spiega invece sostanzialmente con l’ascesa e il successivo degrado dell’onnipervasiva burocrazia, sia civile sia militare, tipica del mondo comunista. Era questa la classe sociale autenticamente detentrice del potere nei paesi real-comunisti, una classe sociale inetta, parassitaria e corrotta, abituata a esercitare un potere estrattivo sulle risorse del proprio Paese, a proprio esclusivo beneficio. L’affermazione generalizzata dei poteri oligarchici, in un contesto di debolezza istituzionale statuale, ha finito anche e soprattutto per stabilire strette connessioni tra il mondo della politica e degli affari con la criminalità organizzata. Questo fenomeno ha interessato sia piccoli Stati (ad esempio Montenegro o Albania) ma anche Stati di ragguardevoli dimensioni. È il caso di ricordare che sia nella Russia sia nella stessa Ucraina sono tuttora presenti organizzazioni mafiose assai intrecciate con il mondo della politica e degli affari. Roberto Saviano ha scritto ampiamente e documentatamente intorno a questi fenomeni.

      – 4. È il caso di aggiungere che il carattere di rapida implosione del mondo comunista, realizzatosi nei primi anni Novanta, ha fatto sì che le istituzioni della democrazia formale e le istituzioni del libero mercato siano state paracadutate dall’alto e non abbiano potuto beneficiare di un processo di crescita dal basso. La situazione che è venuta a determinarsi ha costituito piuttosto un ostacolo generalizzato all’avanzamento di processi autentici e efficaci di democratizzazione e di liberalizzazione. In molti di questi Paesi, sotto il formalismo democratico, si nascondono tuttora regimi autoritari, scarsamente distinguibili da vere e proprie dittature. Un esempio tipico è quello della Bielorussia di Lukašėnka.

      Oltre a varie forme di esercizio dell’autoritarismo all’interno, il tipo di politica estera che questi regimi tendono a praticare è quello caratteristico di tutti i nazionalismi autoritari: la demarcazione dei confini, spesso su base etnica, lo spostamento forzato dei popoli, la persecuzione o l’annientamento di intere popolazioni, il mantenimento dell’imperio del paese egemone sui paesi satelliti, l’uso della forza militare nelle sue diverse forme, soprattutto contro i Paesi confinanti, senza escludere le operazioni coperte, il terrorismo e l’omicidio politico.

      – 5. Stati canaglia. Questo panorama ha decisamente qualcosa a che fare con il concetto dello Stato canaglia (traduzione italiana di rogue state). Si badi bene tuttavia che questa è una categoria nella quale non rientrano soltanto Stati ex comunisti. La nozione dello Stato canaglia è stata sviluppata soprattutto nell’ambiente politologico anglosassone. Serve a designare Stati che possiedono alcuni criteri distintivi, come il fatto di essere dominati da oligarchie di potere spesso in combutta con organizzazioni mafiose, il fatto di avere una forma di governo autoritaria che intraprenda azioni in aperta violazione dei diritti umani, il fatto di sponsorizzare il terrorismo e la tendenza alla proliferazione delle armi di distruzione di massa, la predisposizione alla violazione dei diritti internazionali e all’uso della guerra nella regolazione delle controversie. Gli Stati canaglia, insomma, sono propriamente quelli che minacciano la pace nel mondo. Si tratta senz’altro di una categoria politologica controversa, ma può risultare utile in termini comparativi. Gli Stati Uniti hanno definito e mantengono una loro lista degli Stati canaglia, nei confronti dei quali sono riservate particolari attenzioni nel campo di politica estera.[6] Ebbene, molti Stati post comunisti possono essere considerati come Stati canaglia, o hanno svolto questo ruolo in una parte della loro storia. Purtroppo una certa faciloneria ci ha spesso condotti a trascurare la presenza degli indicatori di Stato canaglia e a trattare con questi Stati come se fossero Stati normali: li abbiamo riforniti di armi (anche atomiche), abbiamo loro distribuito tecnologia avanzata, abbiamo firmato con loro trattati che alla prima occasione sono stati violati, abbiamo fatto di loro i nostri primi fornitori di materie prime o i principali acquirenti dei nostri prodotti. Ci piace proprio scherzare col fuoco.

      – 6. Lo spettro di Milošević. La teoria che abbiamo esposto succintamente a nostro avviso è utile per dar conto, in prospettiva storica e geopolitica, delle origini di questa guerra che oggi così tanto ci sorprende. La prima indicazione che emerge è come l’attuale aggressione della Russia all’Ucraina non costituisca un fatto nuovo e come, anzi, si tratti solo dell’ultimo capitolo di una ormai nota storia. Processi del tutto simili erano già avvenuti su scala ridotta nella ex Jugoslavia, in seguito alla dissoluzione del mondo comunista. L’implosione dello Stato federale multinazionale e multietnico jugoslavo è avvenuta drammaticamente tra il 1991 e il 2001 attraverso le sanguinose guerre jugoslave. Sembra però che ormai tutti abbiamo dimenticato quelle stagioni. Anche in quel caso, l’opinione pubblica non riusciva a darsi ragione dell’apparente follia delle scelte politiche, della ferocia delle azioni militari. Anche il quel frangente, popoli che avevano vissuto gli uni accanto agli altri per decenni sotto la casa comune comunista, si sono massacrati violentemente, senza una logica apparente. Anche in quel caso la logica del tracciamento dei confini divenne maniacale, fino alle pulizie etniche, fino alle vere e proprie forme di genocidio che sono state perpetrate. Abbiamo dimenticato troppo facilmente l’assedio di Sarajevo, dal 1992 al 1996. Oppure il massacro di Srebrenica, nel luglio del 1995, a opera del generale serbo bosniaco Ratko Mladić.

      Anche nelle guerre jugoslave si ebbe un paese egemone che tentò di mantenere in piedi, con la pura forza militare,[7] una realtà politica che aveva perso la propria intrinseca ragion d’essere. Il ruolo del paese egemone in quel frangente fu impersonato dalla Serbia che ha tentato, nei lunghi dieci anni di guerra, di costringere insieme, spesso con la violenza, le varie aree territoriali che tendevano a rendersi autonome. E questo fine fu perseguito oltre ogni apparente ragionevolezza, fino all’autodistruzione dello stesso progetto della Grande Serbia. Oggi assistiamo alla messa in campo del progetto della Grande Russia che stava covando sotto la cenere fin dagli anni Novanta. Per capire quello che ci possiamo aspettare dagli attuali eventi può essere dunque assai utile considerare attentamente il caso della ex Jugoslavia. La sindrome autolesionista di Slobodan Milošević ci può permettere di comprendere esattamente quel che ci possiamo aspettare. Nei prossimi giorni ma anche in un futuro più lontano, poiché non finirà presto.

      – 7. Oligarchie, nazionalismi e testate atomiche. La Russia (più precisamente, la Federazione Russa) è il paese post comunista dotato di maggiore estensione territoriale, collocato tra Europa e Asia, sebbene sia relativamente poco popolato (145 milioni di abitanti in tutto). È anche quello che ha maggiormente conservato certe eredità della vecchia Unione Sovietica. Tra cui una burocrazia asfissiante, un pesante autoritarismo e la violazione sistematica dei diritti umani, un regime di mercato fasullo dove la mancanza di competizione autentica impedisce l’innovazione, gli scarsi risultati nel campo della ricerca scientifica e tecnologica. Tra tutte queste eredità del passato sono comprese le sue testate atomiche, il cui uso effettivo è stato esplicitamente minacciato proprio dal Presidente russo Putin.

      L’Ucraina invece non ha più l’arsenale atomico di epoca sovietica. E su questo punto dobbiamo soffermarci, se vogliamo capire qualcosa della crisi attuale. La denuclearizzazione dell’Ucraina fu codificata nel Memorandum di Budapest del 5 dicembre 1994, con cui Russia, Stati Uniti e Regno Unito (successivamente si aggiunsero anche Cina e Francia) si impegnarono a proteggere la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina in cambio della consegna delle testate.[8] Il Memorandum del 1994, nessuno se lo ricorda, fu violato pesantemente nel 2014, con l’annessione della Crimea, proprio da parte della Russia, cioè da parte di uno degli stessi garanti. Gli altri garanti intervennero in modo piuttosto blando con una serie di incerte sanzioni, senza ottenere tuttavia alcun risultato definitivo. Per risolvere la questione fu firmato un Protocollo di Minsk il 5 settembre 2014. Successivamente si ebbe la firma di un Protocollo di Minsk II l’11 febbraio 2015. La questione tuttavia rimase irrisolta.

      Col senno di poi, il fatto di avere consentito alla Russia il mantenimento delle sue testate atomiche fu un errore clamoroso. Un pazzesco autogoal. A quel tempo gli occidentali, appena usciti dalla Guerra fredda, avevano maturato l’illusione di controllare El’cin. Si dice che nell’entourage di El’cin ci fossero diversi consiglieri della CIA. Così la Russia ha continuato a svolgere, in modo controverso, il ruolo del paese egemone sul piano militare, avendo tuttavia perso qualsiasi ruolo di Paese avanzato dal punto di vista economico. Il motore della sua politica estera, a partire fin dai tempi di El’cin (1991-1999), è sempre stato il nazionalismo oligarchico, declinato in forma imperialistica. Poco importa se con la nostalgia dell’Unione Sovietica o addirittura con una nuova nostalgia dell’epoca zarista. La Russia appare sempre più un residuo del passato, tenuto insieme dal volontarismo della forza. Un Paese corrotto, dalla burocrazia autoritaria e repressiva, inefficiente, dove l’economia segna il passo. Le scadenti prestazioni delle sue forze armate che abbiamo ora sotto gli occhi sono del tutto coerenti con questo quadro.

      Di fronte all’imperialismo Russo – che oggi si rivela pienamente per quello che è – dotato di un arsenale di bombe atomiche e deciso a darsi un assetto territoriale di suo gradimento attraverso la forza militare, l’Occidente si sta amaramente accorgendo come l’unica politica possibile torni ad essere quella già sperimentata con la vecchia Unione Sovietica, e cioè la politica del containment, esattamente come ai tempi della Guerra fredda. Questo significa evitare lo scontro e cercare di contrastare indirettamente le violazioni internazionali che si susseguono. Si ricorderà che ai tempi della Guerra fredda gli interventi militari dell’Unione Sovietica nei confronti dei paesi satelliti furono piuttosto frequenti.[9] Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia ne hanno fatto le spese. L’ultima impresa militare dell’Unione Sovietica in campo internazionale era stata l’aggressione all’Afghanistan (1979-1989), le cui lontane conseguenze giungono ancora fino a noi oggi. La politica del containment è tuttavia assai onerosa e può eventualmente produrre risultati solo nel lungo periodo, compresi anche molti effetti non voluti (il containment della espansione sovietica in Afghanistan ha avuto Bin Laden come sottoprodotto).

      Tutto ciò significa che una nuova Guerra fredda (questa volta in un mondo multilaterale) è già cominciata. Come con la vecchia Guerra fredda, la parabola della Russia (e i suoi satelliti) è già tracciata. Tenuta insieme solo ormai dalla forza bruta all’esterno e dall’autoritarismo all’interno, la Russia è destinata prima o poi a sfasciarsi,[10] più o meno come la Jugoslavia, portando però con sé una quantità imprevedibile di disastri. Nel caso Jugoslavo, almeno ci furono l’ONU e la NATO che intervennero dall’esterno per impedire le degenerazioni più gravi. Nel caso del conflitto Russia-Ucraina non ci sarà alcun Terzo capace di intervenire. Ancor più se il conflitto si estendesse, ad esempio, ai Paesi baltici o alla Georgia. Se saremo davvero fortunati, potremo solo stare a guardare.

      – 8. Le mani dell’Impero russo sul resto del mondo. La sua posizione di paese egemone e di gigante militare ha fatto sì che la Russia ex-comunista sia stata spesso coinvolta, fin dalla prima metà degli anni Novanta, in numerose questioni di sistemazione dei suoi confini e di influenza e/o ingerenza nei confronti di Paesi terzi. Le zone di maggiore instabilità si sono collocate a ridosso del Caucaso, a ridosso del Mar Nero e a ridosso del Baltico. Si tratta di un confine di enormi dimensioni, lungo il quale è oggi purtroppo in gioco il tracciamento della nuova Cortina di ferro, secondo il disegno di Putin. Dato che abbiamo tutti la memoria corta, compreso anche chi scrive, è forse il caso di ripercorrere, seppure brevemente, le vicende delle principali contese confinarie della Russia, allo scopo di scorgervi qualche filo conduttore. Per brevità non prenderemo qui in esame i confini più lontani e gli interventi della Russia nel resto del mondo, ad esempio come quello in Siria, che comunque rientra perfettamente nella nostra interpretazione.

      – 9. Le problematiche dei confini caucasici hanno visto in scena, in primo luogo, le Guerre cecene. Ancora in epoca El’cin, a partire dal 1994, c’era stata la Prima guerra cecena, terminata nel 1996 con la conquista della Cecenia da parte della Russia ai danni degli indipendentisti. Tra il 1999 e il 2009, ora già in epoca Putin, si ebbe poi ancora il riacutizzarsi dell’indipendentismo ceceno, anche con l’impiego del terrorismo, che diede luogo a un violento intervento russo, la Seconda guerra cecena, che culminò con un massacro spietato. La città di Grozny fu rasa al suolo a cannonate dai Russi. Molti interpreti asseriscono che le due Guerre siano anche e soprattutto state utilizzate dalla nomenclatura di Mosca per assestare il suo potere interno.

      Nell’area caucasica abbiamo avuto, in secondo luogo, una lunga situazione di instabilità nella Georgia, che permane ancora tuttora. Si tratta di un territorio caratterizzato da diverse divisioni etniche e da diversi afflati indipendentisti. Fin dall’indipendenza della Georgia, nel 1991, la Russia appoggiò i nazionalisti separatisti di due regioni georgiane, la Abcasia e la Ossezia del Sud. Fino alla pesante ingerenza militare russa in Ossezia del Sud nel 2008, ai danni della Georgia. Oggi le due regioni georgiane separatiste si sono rese indipendenti e politicamente si collocano nell’orbita russa. Non è un mistero che la Russia aspiri a egemonizzare l’intera Georgia. La Georgia dal canto suo tende a sottrarsi all’influenza russa ed è attualmente candidata per l’adesione alla NATO. A due passi dalla Georgia c’è la Turchia.

      – 10. Nell’area del Mar Nero, fin dalla caduta dell’Unione Sovietica, si è manifestato l’indipendentismo della Crimea nei confronti dell’Ucraina. Il progetto indipendentista è sempre stato fortemente appoggiato se non addirittura originato e pompato dalla stessa Russia, anche a causa della presenza della flotta russa nel porto di Sebastopoli (che precedentemente era in affitto). Le ragioni della separazione affondano nella storia. La Crimea storicamente era territorio tataro, dove i tatari erano in grande maggioranza. I tatari furono però deportati da Stalin nel 1944 e sostituiti con una popolazione russofona. Gli attuali crimeani hanno questa ascendenza. Va anche osservato che, nella storia dell’Unione Sovietica, la Crimea in origine apparteneva effettivamente alla Russia. Il 19 febbraio 1954 venne donata dal leader sovietico Nikita Chruščёv alla Ucraina. In epoca post comunista, il progetto separatista della Crimea fu sempre ovviamente contestato dall’Ucraina, alla quale comunque era stata garantita la integrità territoriale col citato Memorandum di Budapest. La questione della separazione si acutizzò tuttavia nel 2014, quando in Ucraina, con la cacciata di Janukovyč, si configurò la formazione di un governo filo occidentale. In quel frangente la Crimea decise unilateralmente di abbandonare l’Ucraina e, contestualmente, la Russia, violando così il Memorandum di Budapest, decise di prendersi la Crimea tramite un’occupazione militare (febbraio-marzo 2014).

      In concomitanza con la secessione della Crimea, due province interne all’Ucraina, Donetsk e Lugansk, collocate nell’area del Donbass, sono insorte con l’appoggio esterno della Russia, hanno proclamato la loro indipendenza e hanno cercato di allargare ulteriormente il loro territorio. Com’è noto l’Ucraina ha risposto alla secessione con una azione militare interna volta a ricondurre sotto la sua sovranità le province ribelli. Questa lunga guerra interna ha portato praticamente alla distruzione materiale delle due province e a più di una decina di migliaia di morti. La situazione notoriamente era in stallo dal 2014. Va detto che l’area del Donbass è a maggioranza russofona. Tuttavia è chiaro che il movimento indipendentista su base etnica è stato incentivato dall’esterno (il paragone con i fatti relativi alla ex Jugoslavia è palese). In concomitanza con lo scoppio, il 24 febbraio 2022, dell’attuale Guerra russo-ucraina, la Russia ha riconosciuto l’indipendenza delle due province, nella prospettiva di una annessione alla Russia stessa.

      – 11. Altri problemi di instabilità riguardano il confine della Ucraina con la Moldavia (anch’essa paese ex comunista, indipendente dal 1991). Una piccola parte della Moldavia, la Transnistria (territorio a est del fiume Dnestr, poco più di 500 000 abitanti), ha operato una secessione unilaterale dalla stessa Moldavia. Sempre nel 2014 la Transnistria, nonostante essa confini solo con la Moldavia e con l’Ucraina, ha chiesto l’adesione alla Russia, proprio in concomitanza con i fatti di Crimea. La Transnistria, la cui popolazione è composta in uguali proporzioni di russi, moldavi e ucraini, è uno dei paesi più nostalgici della vecchia Unione Sovietica. La Transnistria ovviamente teme e osteggia la politica filo occidentale inauguratasi nel 2014 nella confinante Ucraina.

      – 12. Un altro problema ancora, potenzialmente esplosivo, riguarda il confine della Russia con gli altri Paesi nell’area del Baltico. Sembra questa apparentemente l’area più stabile. La costituzione autonoma delle tre repubbliche baltiche ex comuniste è stata realizzata secondo il principio della auto determinazione con la trattativa. Con la trattativa è stata risolta anche la complessa situazione confinaria di Kaliningrad (ex Königsberg), che è ora una exclave della Russia, collocata tra Polonia e Lituania con sbocco al mare. La situazione baltica tuttavia ha generato in passato tensioni, soprattutto in relazione all’ingresso nella NATO della Polonia e delle tre repubbliche baltiche. È comunque da notare che, lungo la linea del Baltico, la Russia è già da tempo confinante con Paesi aderenti alla NATO. Con la nuova fase, iniziata ora con la guerra tra Russia e Ucraina del 24 febbraio 2022, non è detto che anche l’attuale sistemazione non possa essere rimessa in discussione da Mosca.

      L’unica entità post comunista che non aveva finora generato tensioni confinarie particolari era la Bielorussia, la quale si era resa indipendente nei suoi tradizionali confini, si era denuclearizzata e si era tuttavia collocata stabilmente nell’orbita russa come tipico paese satellite. Nel 1996 è stata fondata l’Unione Russia-Bielorussia, un’entità sovranazionale che connette i due Paesi. Tuttavia recenti dichiarazioni hanno reso noto che la Bielorussia aspirerebbe ad avere un accesso al mar Baltico. La qual cosa, se perseguita effettivamente, magari con l’appoggio russo, porterebbe a uno scontro gravissimo con i Paesi baltici. Con lo scoppio della Guerra del 24 febbraio, la Bielorussia ha fornito il proprio territorio e le proprie attrezzature alla Russia per facilitare l’invasione, diventando complice dell’aggressione e creando una spaccatura con l’Ucraina senz’altro destinata a durare nel tempo.

      – 13. Come si vede da questa rapida rassegna, la politica estera della Russia è stata in continuo subbuglio lungo tutti i suoi confini. In Occidente ci siamo distratti e abbiamo sempre evitato di mettere in fila e di considerare in senso strategico tutta questa frenetica attività. L’analogia con la situazione della ex Jugoslavia è impressionante. Prima se ne è andata la Slovenia. Poi la Croazia, con una lunga guerra civile interna. Poi la lunga guerra interna nella Bosnia Erzegovina. Poi la Serbia che ha cercato di assoggettare violentemente la regione ribelle del Kosovo. Gli ingredienti jugoslavi ci sono tutti. Compresa la folle disponibilità del paese egemone a rischiare una catastrofe pur di portare avanti il proprio intento di ridisegno confinario, considerato come condizione vitale per la propria sopravvivenza.[11] La differenza fondamentale è che, a differenza della Serbia, quello che oggi impersona il ruolo del paese egemone aggressore ha le armi atomiche. Questa volta l’ONU e la NATO invece di scendere sul campo per tacitare i conflitti e i massacri saranno costretti a stare a guardare.

      – 14. Il progetto russo. A osservare la carta geografica – esercizio sempre utile – emerge con una certa chiarezza la presenza di un costante e complessivo progetto di consolidamento della Russia, ai danni dei Paesi confinanti, destinati a essere inglobati o al ruolo di paesi satelliti. Ed eventualmente anche ai danni della UE, accusata dalla Russia di espansionismo militare tramite la NATO. Poiché l’Ucraina, a partire dal 2014, ha rifiutato il ruolo di paese satellite della Russia, il progetto strategico russo tende oggi a sfasciare territorialmente l’Ucraina stessa. Il tentativo piuttosto evidente, da parte della Russia e dei suoi Paesi satelliti, è quello di demarcare una nuova linea di frontiera con la UE (e con la NATO). Verrebbe così a determinarsi un confine che dovrebbe andare dal mar d’Azov e dalla Crimea, passando attraverso il dimezzamento, o la conquista totale, dell’Ucraina, per proseguire con la Bielorussia (ormai del tutto asservita e dotata magari di sbocco al mare attraverso un qualche colpo di mano), per arrivare fino a Kaliningrad. In questo caso – in prospettiva – anche il destino delle tre repubbliche baltiche (Lettonia, Lituania ed Estonia) potrebbe essere messo in serio pericolo. Sul fronte sud, nel Caucaso, tra il mar Nero e il mar Caspio, questa strategia di ridefinizione confinaria potrebbe essere completata con l’assorbimento totale, o con la riduzione a paese satellite, della Georgia (processo già iniziato con l’Abcasia e l’Ossezia del Sud). A seconda del livello di disfacimento conseguito in Ucraina, lungo le coste del Mar Nero, si potrebbe prospettare anche la aggregazione della Transnistria alla Russia.

      Dopo una guerra come quella che si prospetta oggi in Ucraina, questa nuova linea di frontiera, più che una sistemazione ordinata e consensuale, costituirebbe una nuova frontiera di Guerra fredda. La Russia comunque non ha fatto mistero (attraverso varie dichiarazioni) di aspirare vagamente anche ai territori un tempo collocati al di là della vecchia Cortina di ferro, fino alla Germania orientale (dove Putin ha iniziato la sua luminosa carriera). È il caso di segnalare che nei Balcani ci sono alcune realtà politiche ancora altamente instabili che vedrebbero volentieri qualche tipo di connessione con la Russia. Mi riferisco alla Serbia e, soprattutto, alla Repubblica Srpska che attualmente è federata alla Bosnia-Erzegovina. Di fronte a queste nostalgie ex sovietiche dovrebbe essere abbastanza chiaro come oggi l’unico elemento dissuasore sia costituito proprio dalla NATO.

      – 15. La bufala dell’accerchiamento da parte della NATO. La motivazione addotta dalla Russia per lo scatenamento della guerra del 24 febbraio è un conclamato pericolo, costituito dall’espansione della NATO in Ucraina. Questa tesi è stata prontamente accolta in Europa dalla miriade di antiamericani e filorussi, latenti o manifesti, di cui siamo abbondantemente circondati. In realtà, è il caso anzitutto di notare che la Russia è già confinante da tempo con Paesi NATO (gli Stati baltici – e poi ha la Turchia a due passi). Il problema dunque non è certo la NATO, bensì proprio l’Ucraina. Secondariamente, va ricordato che l’adesione dell’Ucraina alla NATO non era assolutamente all’ordine del giorno, poiché banalmente un Paese che abbia conflitti confinari con altri Paesi non può proprio entrare nella NATO. Quello della possibile adesione della Ucraina alla NATO è soltanto un pretesto da parte della Russia per poter procedere ad ampliare e ridefinire la propria area di influenza. In questa strategia è chiaro invece che il controllo dell’Ucraina rappresenta il tassello fondamentale. È senz’altro vero che l’Ucraina, a partire dalla svolta politica filo occidentale del 2014, aveva ripreso a organizzare il proprio esercito, anche con il supporto di specialisti occidentali,[12] ma questo è accaduto dopo l’aggressione subita in Crimea e dopo lo scoppio della guerra del Donbass, in smaccata violazione del Memorandum di Budapest, di cui Mosca doveva essere uno dei garanti.

      La decisione politica dell’Ucraina di volgersi a occidente, nel 2014, ha fatto precipitare la situazione.[13] Questo perché la Russia considera la Bielorussia e l’Ucraina come territori sottoposti al proprio imperio. Quando i bielorussi decideranno di liberarsi di Lukašėnka (il che potrebbe avvenire abbastanza presto) faranno la stessa fine dell’Ucraina. La Russia, in altri termini, sta portando la guerra nel cuore dell’Europa, nel nome della ricostituzione della tradizione imperiale zarista e/o sovietica, con la conseguenza implicita di ostacolare e ridimensionare il progetto europeo stesso. La Russia odierna ha ben chiaro che il pericolo non è costituito dalla NATO quanto dal modello sociale, culturale e politico europeo che, se si diffondesse a est, la priverebbe, uno dopo l’altro, dei suoi paesi satelliti. E poi questo modello potrebbe penetrare anche nella stessa Russia. Basta osservare con quanta cura la Russia perseguiti i propri oppositori interni. Il Patriarca moscovita si è recentemente pronunciato a favore della guerra contro l’Ucraina, considerata come guerra giusta, contro i costumi immorali occidentali. La diffusione del modello sociale, culturale e politico europeo distruggerebbe proprio il nazionalismo e il potere oligarchico che oggi reggono la Russia. La Russia odierna, per la propria struttura intrinseca non può tollerare lo sviluppo di una società aperta. Ne va della propria sopravvivenza.

      Se l’Europa può sperare di avere ancora un futuro, occorre che questo piano della Grande Russia sia contenuto con decisione. La guerra della Russia all’Ucraina, lungi dall’essere occasionale, rappresenta dunque solo l’inizio dell’assalto della Russia all’Europa. L’inizio della ridiscussione complessiva dei confini del 1991. Una ridiscussione che la Russia considera vitale (gli “spazi vitali” hanno una funesta ascendenza) e che non si sa fin dove potrebbe arrivare. Quelli che, implicitamente o esplicitamente, fanno sapere paternalisticamente agli Ucraini che sarebbe meglio che si arrendessero, per il loro bene, non hanno proprio capito quale sia la posta in gioco.

      Tutto ciò è potuto avvenire, ovviamente, solo ed esclusivamente nell’ambito della mancanza totale di una visione di politica estera europea. Quella stessa mancanza di visione che ci ha consentito di fare della Russia la nostra principale fornitrice energetica. O ha consentito ad alcuni nostri partiti nazionali (FI, M5S, Lega) e ai loro relativi esponenti di esaltare la Russia di Putin. È lecito chiedersi cosa Putin abbia dato loro in cambio. Finora l’espansione a est della UE è avvenuta in maniera del tutto occasionale ed erratica, secondo la logica della libertà di adesione e del possesso dei requisiti. Si tratta di una logica che ormai la Russia è ben decisa a contestare. Mancanza totale di visione da parte nostra, altro che complotto della NATO! Ma di ciò si dirà oltre.

      – 16. Le mani imperiali sull’Ucraina. Passiamo ora a esaminare con qualche dettaglio in più le vicende specifiche relative all’Ucraina – alcune delle quali abbiamo già anticipato. Resasi indipendente nel 1991, l’Ucraina si è data una costituzione solo nel 1996. Tra il 1994 e il 2005 il presidente fu Leonid Danylovyč Kučma, accusato da più parti di autoritarismo e corruzione. Si trattava di un Paese collocato nell’orbita russa, esattamente come la vicina Bielorussia. L’Ucraina ha sviluppato nel 1994, in occasione delle elezioni presidenziali, un primo moto di ribellione contro l’oligarchia locale corrotta e la politica di subordinazione filorussa. Ciò è avvenuto con la cosiddetta Rivoluzione arancione. In occasione delle elezioni presidenziali fu contestata dalla Piazza la vittoria del filorusso Viktor Fedorovyč Janukovyč, accusato comprovatamente di brogli elettorali. In seguito a un moto popolare (tredici giorni di proteste popolari a Kiev e in altre città ucraine) e in seguito a una sentenza della Corte costituzionale, l’elezione fu rifatta e questa volta portò all’elezione regolare del primo presidente filo occidentale, Viktor Juščenko. Juščenko peraltro, proprio nel 2004, subì un avvelenamento in un contesto altamente sospetto. Tanto per capire chi è che fa complotti. Il team progressista tra Juščenko e il suo primo ministro Julija Tymošenko non riuscì tuttavia a consolidarsi e a mantenersi a lungo al potere.

      – 17. Si ebbe così, in breve tempo, una crisi che consentì il ritorno alla presidenza del filorusso Janukovyč, tra il 2010 e il 2014. Gli eventi della presidenza di Janukovyč sono assai controversi e porteranno a una serie di intensi moti di piazza a Kiev e in molte città dell’Ucraina, durati dal novembre 2013 al febbraio 2014. Trascrivo per brevità la descrizione sintetica che ne fa Wikipedia: «A novembre 2013 si verificano una serie di proteste popolari contro il Presidente Janukovyč sfociate nella occupazione di Piazza Indipendenza a Kiev […] da parte di giovani pro-Europa dopo che il Presidente, data la critica situazione delle finanze pubbliche, aveva rifiutato di firmare un accordo di associazione dell’Ucraina all’Unione europea, in favore di un prestito russo (acquisto di titoli di stato per circa 15 miliardi di dollari) concesso dal Presidente Putin, che legava ancora di più il Paese alla Russia. Ulteriore motivo di protesta per la popolazione è stato il rapido accrescimento di ricchezze che ha visto i figli e i parenti prossimi di Janukovyč diventare miliardari, mentre l’economia del Paese si indeboliva. Inoltre, alcuni comparti industriali ucraini sono stati delocalizzati in Russia e vasti territori agricoli venduti alla Cina, Paese che invia in Ucraina la propria manodopera, a discapito di quella locale, creando ampie sacche di disoccupazione e malcontento in aree rurali dell’Ucraina».[14]

      Il complesso dei fatti accaduti in quel frangente sono noti come la rivoluzione di Euromaidan. Una serie di moti di piazza di intensità crescente sfociarono nell’assalto, da parte della folla, ai palazzi governativi e con scontri violenti tra la piazza e le forze dell’ordine che alimentarono così la tipica spirale tra rivolta e repressione. Forze dell’ordine e cecchini appostati spararono sulla folla dei manifestanti, producendo una strage. Il 22 febbraio si ebbe l’epilogo della protesta: i manifestanti chiesero le dimissioni di Janukovyč che, ormai circondato e in pericolo, fu costretto a fuggire dalla capitale Kiev, insieme agli altri stretti collaboratori. Il parlamento chiese a questo punto l’impeachement del Presidente. Il 24 febbraio, il Ministro dell’interno annunciò che Janukovyč era ricercato, assieme ad altre persone ritenute responsabili della strage, e che era stato emesso un mandato di arresto nei suoi confronti con l’accusa di uccisione di massa. Il 24 gennaio 2019 Janukovyč è stato condannato dal Tribunale di Kiev a 13 anni di carcere per alto tradimento.

      Dalla parte filorussa, la rivolta di Euromaidan e l’estromissione di Janukovyč è stata considerata come un vero e proprio colpo di stato, un complotto che si ritiene sia stato organizzato dalle potenze straniere (USA e NATO) e dalla destra filonazista ucraina. Qui ha radice la narrazione, da parte della Russia, secondo cui gli ucraini sarebbero tutti nazisti. Mentre al centro del Paese si stava consumando la rivoluzione di Maidan filo occidentale, lo abbiamo già in parte anticipato, le regioni a più marcata densità russa deliberarono – con la spinta e l’appoggio nascosto di Mosca – la secessione dall’Ucraina. Si ebbe così l’occupazione russa della Crimea ed ebbe inizio la guerra separatista delle due province del Donbass. Nel mentre, non a caso, la Transnistria, in perfetto stile ex jugoslavo, ne approfittò per chiedere l’adesione alla Russia. Come si vede si tratta di un calco, su scala enormemente più grande e pericolosa, di quanto avvenuto in Cecenia, nella Ossezia del Sud e nella Abcasia. Il paese egemone interviene entro i confini di un altro Paese sovrano per appoggiare e proteggere quelle che sono ritenute minoranze perseguitate, fino a determinare un intervento militare e una conseguente secessione. Chissà dove eravamo con la testa, quando compravamo il gas da questa bella gente.

      – 18. Al posto di Janukovyč, costretto alla fuga, fu eletto il progressista Porošenko (presidente dal 2014 al 2019), che sviluppò un orientamento politico filo occidentale, fortemente osteggiato dalla Russia. Per questo si trovò subito a dover gestire la secessione contestata della Crimea e la lunga guerra separatista del Donbass. Va detto che, nonostante le sue posizioni progressiste e filo occidentali, anche Porošenko fu accusato di corruzione e la sua popolarità diminuì progressivamente. L’elezione nel 2019 alla presidenza dell’Ucraina di Volodymyr Zelens’kyj, dichiaratamente europeista, di origine ebraica (lo segnalo perché è invece considerato dai Russi alla stregua di un nazista), ha indubbiamente contribuito a far precipitare le cose, almeno dal punto di vista russo. Zelens’kyj rappresenta il caso singolare di un attore televisivo popolare che ha fondato un partito politico che si chiama Servitore del Popolo e che ha vinto le elezioni sull’onda di un programma anti corruzione. Per certi aspetti, con i nostri standard, potremmo definire come populista l’orientamento di questo partito. Zelens’kyj ha ereditato dal suo predecessore un’annessione (non riconosciuta da alcuno) della Crimea alla Russia e una guerra interna da parte dei separatisti (fomentata dalla Russia). In più ha ereditato le questioni scottanti dello sviluppo dei rapporti con la UE e la NATO. Più una serie di complesse questioni legate alla fornitura del gas dalla Russia e all’utilizzo dei gasdotti transitanti sull’Ucraina.

      – 19. L’Ucraina dunque non poteva proprio entrare nella UE e nella NATO. Sono dunque chiari i motivi per cui Zelens’kyj avrebbe voluto entrare rapidamente nella UE e nella NATO e magari anche perché stava giustamente cercando di mettere in piedi un esercito ucraino con l’aiuto di esperti consiglieri internazionali. Si trattava tuttavia, nel breve o medio periodo, di richieste irricevibili. La situazione dell’Ucraina è del tutto analoga alla situazione di alcuni Paesi balcanici ex comunisti che sono tuttora in attesa di maturare i requisiti per l’ingresso nella UE e nella NATO. L’adesione alla UE di un Paese che ha un conflitto secessionista interno (magari indotto dall’esterno) è davvero poco sensato. Prima si risolve il conflitto, poi si discute l’adesione. Lo stesso vale per la questione della secessione della Crimea. Poiché la Crimea fa, sul piano del diritto internazionale, ancora parte dell’Ucraina, non si capisce neanche quale sarebbe il territorio da annettere alla UE. Quelli della Crimea voterebbero o no per il Parlamento europeo? E quelli del Donbass? Prima di entrare si devono risolvere le questioni in sospeso. A maggior ragione, vale lo stesso discorso per l’ingresso dell’Ucraina nella NATO. Fare entrare nella NATO chi ha già un conflitto in corso, sia interno sia internazionale, è come fare alla NATO una richiesta di intervento militare in un conflitto da parte di un Paese esterno.

      Purtroppo Zelens’kyj, dato il suo programma e l’orientamento dei suoi elettori, non poteva fare altro che premere per mettersi sotto l’ombrello di UE e NATO. A quanto pare la NATO e la UE non hanno chiarito abbastanza che l’Ucraina dovesse risolvere i suoi problemi prima di entrare. È possibile che abbiano giocato sull’ambiguità. Anche le dichiarazioni che si sentono spesso oggi (tipicamente da parte di von der Leyen), di offerta di ingresso nella UE, suonano come affermazioni puramente retoriche e comunque irresponsabili. Nonostante tutta la solidarietà che possiamo avere con la Ucraina aggredita, l’Europa deve guardarsi bene dal fare entrare l’Ucraina prima che questa abbia risolto tutti i suoi problemi interni e internazionali. Sarebbe una mina vagante.

      – 20. L’Europa e la guerra. Credo sia il caso a questo punto di entrare un poco più nel merito della questione della NATO, visto che questo argomento continua a turbare molte anime belle. I Paesi dell’Europa politica sono ormai paesi prosperi e si sa che i paesi prosperi non amano fare la guerra. Questo lo abbiamo ampiamente imparato. Questo è il motivo fondamentale per cui i Paesi della UE hanno progressivamente diminuito il loro apparato militare e si sono posti sempre più sotto l’ombrello difensivo della NATO. Questi due fattori combinati, la delega della difesa europea alla NATO unita alla mancanza di una politica estera, costituiscono oggi un enorme pericolo per l’Europa, un cocktail davvero esplosivo. Questi sono i limiti davvero pesanti della UE e in questo stanno le nostre vere responsabilità. La NATO oggi supplisce semplicemente ai nostri limiti, altrimenti Putin si sarebbe già preso un bel pezzo di Europa, dalla Polonia ai Balcani.

      La NATO, fondata nel 1949, è un tipico prodotto della Guerra fredda. Dopo la fine della Guerra fredda è stata riciclata, non senza grandi ambiguità. La sua espansione è stata dovuta al servizio fornito di cui sopra, più che a una volontà di aggressione contro la Russia. Senza voler entrare nei dettagli di un compiuto giudizio storico, possiamo dire che la NATO, nonostante molti limiti, ha svolto una funzione di contrasto al mondo comunista, fino alla caduta del Muro di Berlino. Il progressivo disarmo atomico e la dissoluzione del Patto di Varsavia hanno ricondotto la NATO alla sua natura di servizio tipicamente difensivo nei confronti dei diversi Paesi aderenti. L’adesione è su base volontaria e richiede una procedura complessa. Secondo autorevoli commentatori conoscitori della materia, negli ultimi tempi la NATO era piuttosto in crisi. L’aggressione della Russia all’Ucraina paradossalmente sta ridando senso alla esistenza stessa della NATO. Se non ci fosse bisognerebbe inventarla.

      – 21. Poiché nel nostro Paese – e soprattutto nella sinistra pacifista – si sta manifestando una forte tendenza all’equidistanza nei confronti della NATO e della Russia (come nel noto slogan «Né con Putin, né con la NATO»), è il caso di considerare e analizzare alcuni dati di fatto. Allo scopo di chiarire quale sia stato il ruolo della NATO dopo la fine della Guerra fredda, può essere utile esaminare quali sono stati i suoi principali interventi militari effettivi. Le missioni più impegnative che hanno visto partecipe la NATO sono state in tutto cinque. Si possono ripartire in due principali blocchi d’intervento, quello nei Balcani e quello in Afghanistan. E qui, per intanto, si trova subito una bella sorpresa. Questi due blocchi d’intervento sono tra loro legati da un filo indissolubile, che è sempre quello dell’implosione del mondo comunista. Questo è ovvio per i Balcani, ma vale anche per l’Afghanistan. L’instabilità dell’Afghanistan ha avuto la sua lontana origine dall’invasione russa (ultima impresa aggressiva dell’Unione Sovietica[15]) e dalla successiva mobilitazione dei mujaheddin contro i sovietici da parte degli americani.[16] Dall’appoggio occidentale ai mujaheddin si è sviluppato il terrorismo di Bin Laden. Come è noto, è questa la fonte che ha portato all’11 Settembre e ai successivi interventi afghani.

      – 22. Vediamo allora questi interventi con qualche dettaglio in più. Abbiamo anzitutto[17] l’intervento Implementation Force (IFOR) in Bosnia ed Erzegovina dal 20 dicembre 1995 al 20 dicembre 1996. Si trattava di una forza multinazionale con compiti di peacekeeping, al fine di garantire il rispetto degli accordi di Dayton, appena siglati, che stabilizzavano la regione. L’intervento è avvenuto in seguito alla risoluzione 1031 del Consiglio di Sicurezza. La NATO qui è subentrata alla missione ONU detta UNPROFOR,[18] presente nei Balcani fin dal 1992. Come proseguimento di questo primo intervento, abbiamo avuto poi Stabilisation Force (SFOR) in Bosnia ed Erzegovina dal 21 dicembre 1996 al 1 dicembre 2004 (Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1088). Si trattava di una missione di Peace-enforcement, sempre in relazione agli accordi di Dayton.

      In terzo luogo abbiamo avuto poi la Kosovo Force (KFOR) in Kosovo, che era una provincia secessionista della Serbia, a partire dal 12 giugno 1999. L’intervento è avvenuto in seguito alla risoluzione dell’ONU (Risoluzione 1044 del Consiglio di Sicurezza) per porre fine al sanguinoso conflitto tra la Serbia e la guerriglia albanese dell’UCK che stava degenerando in pulizia etnica. In questo quadro avvenne il bombardamento di infrastrutture a Belgrado nel 1999, per costringere la Serbia a desistere dal suo intervento in Kosovo. L’area del Kosovo è ancora assai instabile e la missione è tuttora attiva.

      Abbiamo poi i due interventi in Afghanistan, in seguito all’aggressione terroristica dell’11 Settembre agli USA. Il primo è stato denominato International Security Assistance Force (ISAF) in Afghanistan dal 20 dicembre 2001 al 28 dicembre 2014 (Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1386). Il secondo successivo intervento è stato Sostegno Risoluto (RS) in Afghanistan dal 1 gennaio 2015 al 12 luglio 2021 (Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 2189).

      Oltre ai sopra citati cinque, che sono gli interventi più rilevanti, è forse il caso di segnalare anche l’intervento in Libia. Nel corso delle primavere arabe (tra il 2010 e 2011), si ebbe l’intervento nella Prima guerra civile libica. In seguito alla Risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza, lo scopo era di realizzare un blocco navale e una no-fly zone. L’intervento avvenne dal 19 marzo al 31 ottobre 2011. L’intervento di no-fly zone si trasformò de facto in un sostegno per i ribelli e culminò nella deposizione di Gheddafi. Il Paese tuttavia non fu affatto stabilizzato a causa delle profonde spaccature tra gli insorti e a causa poi di vari successivi interventi da parte di forze esterne.

      Come si vede, la dinamica è sempre la stessa. Si determina una situazione di grave emergenza che non trova né intermediari né soluzioni e che porta a drammatiche situazioni umanitarie. Il Consiglio di Sicurezza, spesso con grave ritardo, decide di intervenire con una Risoluzione e a questo punto la NATO esegue l’intervento militare secondo regole di ingaggio previste ad hoc. La forza militare dispiegata di solito ha un successo momentaneo e l’emergenza è risolta. Quello che di solito difetta è l’intervento dopo l’emergenza, quello che dovrebbe essere solitamente un intervento di carattere più politico. Qui di solito i fili si ingarbugliano, per cui le diverse situazioni di crisi possono nuovamente degenerare o protrarsi all’infinito. Tuttavia si può anche sostenere che non sia certo compito della NATO trovare soluzioni politiche di ampio respiro alle crisi, che siano capaci di essere solide e durature. È chiaro che al di là della Risoluzione ONU e dell’intervento militare della NATO quel che di solito viene a mancare è proprio la dimensione della politica. Viene a mancare la ricostituzione del tessuto economico, sociale e politico delle aree interessate. Come esempio, si possono citare i due interventi in Afghanistan. La vicenda afghana rappresenta, in effetti, il fallimento più vistoso della NATO ed è davvero significativo che la Russia abbia deciso di prendere l’iniziativa della guerra in Ucraina pochi mesi dopo la evacuazione di Kabul determinata dalla decisione unilaterale degli USA, praticamente imposta agli alleati obbedienti.[19]

      – 23. I limiti della NATO. Nel panorama dell’attuale dibattito politico, semplicemente la questione della NATO non compare quasi mai. Eppure la NATO, nell’attuale situazione internazionale, mostra una serie di limiti piuttosto clamorosi che evidentemente nessuno vuol vedere. Secondo noi, detto in breve, questi sono i limiti principali cui occorrerebbe porre rimedio urgentemente. Li elenchiamo brevemente. 1) Limiti organizzativi sul campo derivanti dal rassemblement occasionale di Paesi grandi e piccoli, di truppe composite e di comandi a rotazione che ne minano pesantemente l’unità operativa. Questo si è visto con chiarezza nel caso dell’Afghanistan. Abbiamo già sottolineato poi il difetto di regia politica che di solito hanno avuto gli interventi militari. Questo è un problema non solo della NATO ma anche e soprattutto dell’ONU, nel cui quadro spesso si svolgono gli interventi. 2) Sebbene sia difficile ammetterlo, il carattere solo difensivo costituisce oggi un grave limite. Il carattere difensivo poteva avere senso nell’ambito della Guerra fredda, dove l’offesa poteva venire solo da una parte. Ora, nel nuovo panorama internazionale, con la diffusione degli Stati canaglia, con la diffusione di potenze regionali imprevedibili e talvolta minacciose, con la complicazione dei conflitti e delle alleanze, è abbastanza chiaro che la funzione della sola difesa non basta più. Del resto la NATO è quasi sempre intervenuta, sotto l’egida dell’ONU, con missioni di peace-enforcement e di peacekeeping. Ora che assistiamo al fallimento totale dell’ONU (vedi oltre) bisognerà che questi compiti di “polizia internazionale” siano assolti da qualcuno. 3) Negli ultimi decenni si è avuta poi la rottura dell’unità politica dei paesi atlantici. È chiaro che con una Europa priva di una sua politica estera, con la Brexit e l’autonomizzazione della Gran Bretagna dall’Europa, con l’imprevedibilità della politica estera americana (si veda Trump) e con l’isolazionismo americano sempre più marcato, l’unità politica dei paesi atlantici è sempre più destinata a venir meno. Si pensi all’ambiguo ruolo nella NATO giocato da un paese come la Turchia. Tutto ciò non potrà che inficiare sempre più le garanzie che la NATO potrà offrire ai suoi membri. 4) In ultimo, il problema ben noto costituito dalla prevalenza, in ambito NATO, degli USA che tendono spesso e volentieri a usare l’alleanza militare atlantica per i loro scopi, o a piegarla alla loro visione del mondo. Anche la Turchia non è da meno. Per tutti questi motivi la NATO appare sempre più inadeguata. In questo attuale frangente sta svolgendo un ruolo indispensabile di difesa dei confini europei e di dissuasione nei confronti della Russia. E comunque gli attuali eventi dovranno inevitabilmente condurre al più presto a una riforma complessiva della NATO.

      – 24. L’assenza di una difesa europea. La UE in prospettiva sta diventando uno dei tanti poli del mondo multipolare. In questo senso è ovvio che la UE dovrebbe sciogliere o per lo meno allentare la propria dipendenza dagli USA e guadagnare al più presto una sua autonomia nel campo della politica estera e nel campo della difesa. In particolare, per quel che riguarda la UE, è sempre più necessaria e urgente la costituzione di una forza armata europea che sia in grado eventualmente di assolvere anche a compiti offensivi e che soprattutto sia in grado di essere un valido strumento di politica estera. È chiaro che per mettere una forza armata al servizio di una politica estera, una politica estera bisognerebbe avercela. Questo perché le situazioni di instabilità sono destinate ad aumentare. Basta uno sguardo al Sud del Mediterraneo, e quel che accade ora ai confini a Est dell’Europa. Il multipolarismo purtroppo ha aumentato i rischi e non li ha affatto diminuiti. Attualmente non riusciamo neanche a farci dare dall’Egitto gli indirizzi degli imputati per l’assassinio di Regeni.

      Al progetto ormai improcrastinabile di una forza armata europea si oppongono oggi: 1) una serie di interessi gretti e meschini dei singoli Stati della UE stessa, nessuno dei quali è disposto a cedere poteri per una politica militare comune. 2) Gli interessi geopolitici degli USA che, attraverso la NATO, tendono a esercitare la loro egemonia nel campo atlantico. 3)La miope ideologia pacifista che non vuole né la NATO né una forza armata europea, avendo così l’esito inevitabile di disarmare l’Europa e di consegnarla nelle mani del primo prepotente che passa. 4) L’assenza già citata di una politica estera europea.

      I molti limiti della NATO suggeriscono dunque l’esigenza di una sua riforma. La NATO avrà molti limiti, ma chi non vuole stare dentro la NATO dovrebbe per intanto dire con chiarezza come si dovrebbe provvedere alla difesa europea. Visto che ormai è divenuta una questione ineludibile. Costruire un esercito europeo non è fatto che si possa improvvisare, per cui occorrerà pensare a una lunga fase di compresenza tra la NATO e il costruendo esercito europeo (ammesso che si voglia costruirlo). Coloro che gridano nei loro slogan «Né con la NATO, né con Putin» sono oggettivamente i migliori alleati dell’evidentissimo progetto neo imperiale della Russia. Per intanto, dopo il 24 febbraio hanno cominciato a suonare i campanelli di allarme. La Germania ha annunciato l’aumento delle spese militari. Lo stesso faranno altri Paesi. Si spera che tutto ciò conduca a una sempre maggior integrazione delle forze armate europee.

      – 25. L’ONU, cioè il Terzo assente. Nell’attuale conflitto tra Russia e Ucraina, tranne la risoluzione di condanna dell’Assemblea generale che non può avere alcun effetto pratico, l’ONU è assolutamente impossibilitato a intervenire. La Russia in quanto erede della Unione Sovietica è infatti membro permanente nel Consiglio di sicurezza e dispone dunque del diritto di veto. Si ha dunque il caso singolare per cui un Paese aggressore, cioè un Paese che di fatto si è comportato come uno Stato canaglia, avendo il diritto di veto nel Consiglio di sicurezza, può vietare tutte le risoluzioni che lo riguardino. Forse non ci si rende ben conto di quel che significhi. Siamo di fronte al fallimento dell’ONU, alla sua bancarotta definitiva. Si tratta di una situazione decisamente paradossale, di cui però pare nessuno si stia scandalizzando. È chiaro che tra le istituzioni internazionali che dovrebbero essere profondamente riformate c’è anzitutto l’ONU. I limiti dell’ONU sono noti da decenni ma la questione non sembra appassionare il mondo della politica (sia la nostra politica interna, sia la politica internazionale). Non sembra entusiasmare neanche i pacifisti, nonostante il kantiano progetto di una pace perpetua. Nei momenti di scoppio delle crisi internazionali, i prezzi da pagare poi sono enormi. Tamponate le crisi, però si ritorna da capo, nel disinteresse generale.

      Per intanto, venuto meno l’ONU, tutti sembrano a caccia di un mediatore. La Russia, dalla sua inattaccabile posizione, sta intanto cercando di ottenere la resa militare dell’Ucraina e la caduta di Zelens’kyj e non ha alcuna intenzione di trattare alcunché. Voci insistenti asseriscono che siano in circolazione mercenari con il compito di assassinare proprio Zelens’kyj. Da più parti – finora a quanto pare inutilmente – si sta cercando di individuare un mediatore. Siamo esattamente nella situazione del Terzo assente di cui ha parlato Bobbio. Così scriveva Bobbio nel 1983: «Esiste allo stato attuale delle parti in campo dei rapporti internazionali un Terzo? No, non esiste. Per questo, illuderci su una pace possibile, è stolto.; illudere, è una consapevole menzogna. Questo Terzo avrebbe dovuto essere, in quanto terzo al di sopra delle parti, le Nazioni Unite, nate con lo scopo principale di dirimere i conflitti internazionali prima che degenerino in guerra. […] Ma le Nazioni Unite sono impotenti […]».[20]

      C’è un fatto poi che lascia davvero di stucco. Nella pubblica opinione quando si pensa al mediatore, il Terzo tra Russia e Ucraina, si pensa di solito alla Cina. Ma la Cina sta facendo – o si appresta a fare a Taiwan (e forse in altre sue regioni interne) più o meno quello che la Russia sta facendo alla Ucraina. La Cina è anch’essa un paese ex – comunista e ha esattamente tutte quelle caratteristiche tipiche dei Paesi ex-comunisti di cui abbiamo ampiamente discusso nella prima parte. I tifosi della Cina di Xi vadano pure a rileggere. Due Paesi ex comunisti con diritto di veto nel Consiglio di sicurezza dell’ONU sono oggettivamente una minaccia per il Mondo. Abbiamo ormai capito tutti che dipendere dalla Russia per le forniture del gas è stata una solenne stupidaggine. E dipendere dalla Cina per tutto il resto? I più speranzosi dicono che la Cina “Non avrebbe convenienza, …”. Anche la Russia, in teoria, il 24 febbraio scorsi non avrebbe avuto alcuna convenienza.

      – 26. Per chiudere con un’amara riflessione, visto che una soluzione proprio non c’è, val la pena di riandare ad alcuni aspetti di quel che accadde a Srebrenica tra il 6 e il 25 luglio 1995. Siamo in Bosnia-Erzegovina, pochi mesi prima della firma dell’accordo di Dayton sulla spartizione interna del Paese tra la Repubblica serba (Republika Srpska) e quella croato bosniaca. Srebrenica era una delle tre enclave bosniache in territorio serbo (Srebrenica, Žepa e Goražde). Di qui la forte pressione dell’esercito serbo nei confronti delle poche enclave rimaste. L’intento era quello di effettuare una pulizia etnica dell’enclave che sarebbe in prospettiva divenuta territorio serbo. Srebrenica era presidiata da un contingente di alcune centinaia di caschi blu olandesi dell’UNPROFOR, cioè dell’ONU. Avrebbero dovuto difendere gli abitanti locali da eventuali aggressioni dei serbi. Tra il 6 e il 25 luglio le forze soverchianti dei serbi, comandati dal generale Mladich, circondarono l’enclave, la conquistarono senza difficoltà e, sotto la minaccia delle armi, ridussero all’impotenza il contingente dei caschi blu olandesi. Nei giorni successivi perpetrarono sistematicamente il massacro di più di 8000 civili bosniaci. La Corte internazionale di giustizia ha successivamente definito il massacro come genocidio.

      Nonostante vari processi e inchieste, la posizione del battaglione olandese dell’UNPROFOR non è stata ancora del tutto chiarita. Gli olandesi avevano solo armi leggere ed erano sicuramente inferiori di forze rispetto ai serbi. Per cui non furono in grado di intervenire e di assolvere al loro compito di proteggere la popolazione.[21] In un quadro di disorganizzazione della catena di comando, non ci fu alcun significativo aiuto o intervento aereo dall’esterno in difesa dall’enclave, nonostante fosse stato più volte richiesto dal comandante del contingente, questo perché a quanto si disse non sarebbe stato conforme alle regole di ingaggio della missione. Ai caschi blu non restò che riparare nella loro base e cercare di intavolare qualche timida trattativa con Mladich. Una moltitudine di bosniaci sfollati si radunò nei pressi della base ma gli olandesi non furono in grado né di ospitarli né di difenderli. Gli uomini di Mladich li prelevarono con il pretesto della identificazione, separarono gli uomini, li caricarono su mezzi e li portarono via e procedettero al massacro che infuriò nei giorni successivi.

      Quando si resero conto di quel che stava accadendo, gli olandesi non furono comunque in grado di intervenire. Le inchieste e i processi che ci furono, a vari livelli, non hanno portato a nulla di definitivo. Circolano diverse versioni interpretative, da chi dice che, praticamente abbandonati dal Comando centrale della missione, i caschi blu non abbiano potuto fare altro che stare a guardare. Qualcuno li accusa addirittura di avere anche, per certi aspetti, collaborato con i serbi, avendo consentito il prelevamento di coloro che si erano rifugiati nei pressi o addirittura dentro alla base. È stato accertato che, in alcuni specifici casi, i caschi blu non abbiano dato rifugio ad alcuni bosniaci che lo richiedevano espressamente e che poi sono stati massacrati. Per alcune specifiche omissioni processualmente accertate alcuni ufficiali sono stati condannati. Comunque, nonostante la situazione imbarazzante della loro posizione, forse per una sorta di riparazione, i soldati del contingente hanno anche ricevuto un’onorificenza dal governo olandese.

      Il caso dei caschi blu olandesi nella sua complessità resta insoluto. A parte la responsabilità penale, gli olandesi del contingente UNPROFOR restano a tutt’oggi nel limbo indistinto di una non accertata responsabilità morale. In una posizione che può essere definita come «al di là del bene e del male». In quello stesso limbo oggi, nei confronti di quel che avviene in Ucraina, ci troviamo tutti noi, ma proprio tutti. Facciamo quel che possiamo, accogliamo i profughi, mandiamo aiuti umanitari, andiamo in piazza con le bandiere, sopportiamo il rialzo dei prezzi ma abbiamo le mani legate. I nostri attuali Comandi centrali sono come sempre disorganizzati e le forze del nemico sono soverchianti. Stiamo assistendo a un massacro generalizzato ma siamo costretti a stare a guardare. Abbiamo le mani legate perché, come s’è visto abbondantemente, ce le siamo legate da noi stessi, ormai da lunghi anni, con la nostra disattenzione, con la nostra dabbenaggine, con i nostri comodi, con il nostro buonismo e con la nostra stupidità.

Giuseppe Rinaldi (21/03/2022)

Sito: https://finestrerotte.blogspot.it/

 

OPERE CITATE

1989 Bobbio, Norberto, Il terzo assente. Saggi e discorsi sulla pace e sulla guerra, Edizioni Sonda, Torino.

2001 Pirjevec, Jože, Le guerre jugoslave 1991-1999, Einaudi, Torino.

 

NOTE

[1] Questo saggio riprende alcune mie teorie sull’evoluzione dei Paesi post comunisti, applicate alla nuova situazione dell’aggressione della Russia all’Ucraina. Per il resto non presenta dati nuovi o analisi che non siano già comparse altrove su fonti specializzate. Se ha qualche pregio, questo è il fatto di proporre una visione d’insieme della questione, allo scopo intanto di comprendere la situazione attuale, come ci siamo arrivati e cosa ci possiamo aspettare. Ho fatto il massimo sforzo per controllare le fonti dei dati citati. Le mie osservazioni critiche e le mie valutazioni personali, ove compaiano, dovrebbero risultare sempre chiaramente distinguibili dai dati citati.

[2] Secondo il mio modesto parere, quella che gli ucraini stanno combattendo è una vera e propria resistenza, del tutto assimilabile alla Resistenza al nazifascismo. Ciò nonostante il discutibile parere contrario di taluni politici e intellettuali. Carlo Smuraglia, Presidente emerito dell’ANPI, ha dichiarato con chiarezza che quella degli ucraini è una resistenza e che va aiutata anche con le armi. Questo in aperto contrasto con la linea dell’attuale presidente dell’ANPI Gianfranco Pagliarulo. Se l’ANPI non è più in grado di identificare con chiarezza cosa è resistenza da cosa non lo è, allora l’ANPI dovrebbe proprio fare una seria riflessione.

[3] Cfr. Bobbio 1989.

[4] Mi riferisco alle tesi del politologo e filosofo Francis Fukuyama.

[5] Si ricordi che nei Paesi del comunismo reale la componente militare non era semplicemente al servizio del potere politico, ma era essa stessa una componente politica.

[6] Ciò non toglie, ovviamente, che gli stati Uniti talvolta abbiano esibito essi stessi taluni comportamenti tipici degli Stati canaglia.

[7] Si ebbe in quel contesto la degenerazione della Armata Popolare Jugoslava (JNA), che aveva avuto una storia gloriosa di resistenza al nazismo, in una serie di piccoli eserciti etnicamente caratterizzati e scagliati gli uni contro gli altri.

[8] Cfr. Limes 2/2022: 17. Nel 1991 l’Ucraina si ritrovò a controllare circa 5.000 testate nucleari tra armi strategiche e tattiche, il terzo arsenale nucleare mondiale dopo Russia e Stati Uniti […]. Il Paese scelse la denuclearizzazione ed entro il giugno del 1996 tutte le armi nucleari (e i loro vettori) furono smantellate o trasferite in Russia. In cambio l’Ucraina avrebbe aderito al trattato di non proliferazione delle armi nucleari (TNP). Durante la crisi di Crimea del 2014, l’Ucraina ha fatto riferimento al Memorandum per ricordare alla Russia che si era impegnata a rispettare e a garantire i confini ucraini. Lo stesso vale per gli altri firmatari che ne dovevano essere i garanti. [Fonte: Wikipedia].

[9] Capita piuttosto spesso, nel dibattito recente sulla guerra russo-ucraina, che solerti politologi da salotto asseriscano che sia del tutto normale che una grande potenza pretenda di avere attorno a sé uno sciame di paesi satelliti, a garanzia della propria sicurezza. Di solito si porta l’esempio dei missili di Cuba. Questa “normalità” è appunto la normalità della Guerra fredda.

[10] Questa previsione non è del tutto arbitraria. Qualora questa situazione interna della Russia vada avanti ancora a lungo (Putin si è dichiarato rieleggibile fino al 2036) potrebbe facilmente manifestarsi nella società russa una spaccatura come quella di Piazza Maidan nella Ucraina del 2014. Una simile instabilità potrebbe presto verificarsi in Bielorussia nel caso di proteste popolari nei confronti di Lukašėnka.

[11] I soliti politologi da salotto argomentano spesso che bisogna mettersi nella mentalità dei Russi, mettersi nella testa di Putin, comprendere il loro punto di vista e andar loro incontro. In che sarebbe equivalso a mettersi dal punto di vista di Milošević nella sistemazione della ex-Jugoslavia.

[12] La presenza di qualche centinaio di istruttori militari occidentali sul suolo ucraino non poteva certo costituire una seria minaccia per la Russia. Comunque non una minaccia che non si potesse risolvere con una trattativa. Tu prendi alla Ucraina la Crimea, in barba al diritto e ai trattati e poi non vuoi che l’Ucraina metta in piedi un suo esercito? Questa è davvero la storia del Lupo e dell’Agnello.

[13] La propaganda filorussa ritiene che gli eventi del 2014 a Kiev rappresentino un colpo di stato ordito dagli USA, dalla NATO e dalla destra filonazista ucraina contro il legittimo presidente eletto, che era filorusso.

[14] Cfr. Wikipedia in italiano.

[15] Sarebbe il caso di ricordare i carristi della nostra sinistra estrema i quali plaudivano alla esportazione del comunismo in Afghanistan con l’ausilio dei carri armati. Sottolineo questo fatto perché anche oggi nel nostro Paese abbiamo molti ammiratori di Putin, oppure suoi alleati oggettivi, un po’ da tutte le parti.

[16] Chissà perché si ricorda sempre l’esecrabile e discutibile appoggio fornito dalla CIA ai combattenti islamici contro i Sovietici e non si ricorda mai l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Unione Sovietica. Come dire che una volta preso l’Afghanistan, questo doveva tranquillamente essere lasciato ai Sovietici. Come dire che, una volta presa la Crimea, questa deve essere lasciata a Putin, e così via. Cosa fatta, capo ha.

[17] Fonte Wikipedia.

[18] Nell’ambito della UNPROFOR, in riferimento alla risoluzione 836 del Consiglio di Sicurezza, si ebbe l’operazione Deliberate Force, dal 30 agosto  al 20 settembre 1995, che provvide, attraverso bombardamenti aerei, a rompere l’assedio di Sarajevo condotto dai Serbi.

[19] Su questo punto il mio saggio Il ritorno dei Talebani. Finestre rotte: Il ritorno dei Talebani

[20] Cfr. Bobbio 1989: 217. L’articolo è del 1983.

[21] Cfr. Pirjevec 2001: 469 e segg..

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