Da un aneddoto di cronaca alla biografia di un imprenditore di successo e di ‘sinistra’

Debenedetti che dà dell’imbroglione a Berlusconi: è la storia del bue che dà del cornuto all’asino. Le vicende di Berlusconi corruttore di qualunque cosa abbia toccato sono arcinote, quelle dell’imprenditore “puro”, lungimirante e impegnato, Ing. Debenedetti Carlo, lo sono un po’ meno.

Il perché della modesta visibilità mediatica debenedettiana rispetto alla sovraesposizione berlusconiana – meriterebbe qualche approfondimento: già la lettura della sua pagina su Wikipedia (integrata dalla più modesta, ma non meno interessante voce sul fratello Franco a lui sempre simbioticamente collegato) offre non solo seri spunti di meditazione sul personaggio e sul suo “genio” imprenditoriale, ma anche una chiave di lettura decisamente poco convenzionale delle vicende del capitalismo finanziario italiano tra prima e seconda Repubblica. E pone implicitamente il quesito: perché a sinistra si è sempre visto l’ing. Debenedetti come capitalista avanzato, imprenditore illuminato, di sinistra, al punto da far eleggere prima fra i DS e poi nel PD – dal 1994 al 2006 – il fratello maggiore e compagno di avventure finanziario-industriali Franco Debenedetti?

Sarà forse perché dal ’91 Carlo è il padrone de La Repubblica o de L’Espresso?

In realtà pare che l’immagine debenedettiana non sia poi così luminosa. Ad esempio sulla pessima gestione industriale dell’Olivetti da parte dei fratelli Debenedetti si è espresso più che esplicitamente Franco Tatò in un’intervista rilasciata a Stefania Zolotti nel 2017: “Non ho mai trovato da nessun’altra parte un simile livello di cultura e nel dire cultura intendo il sapere in ogni sua espressione, anche tecnologica ovviamente. Lì dentro [in Olivetti] si respirava uno spessore diffuso, persone motivate, rapporti umani che era raro trovare altrove. Ma tutto questo a un certo punto sparisce e il responsabile della fine è solo Carlo De Benedetti che si siede in Olivetti per un colpo fortunato e, vittima di questo complesso, lo sfrutta a suo beneficio personale, non credendoci e non ritenendosi capace di identificarsi col passato di Olivetti. E non capisce che il futuro della Olivetti poteva essere il futuro dell’Italia e che si poteva costruire un futuro solo valorizzando il suo passato”. Non solo, continua Tatò: il padrone dell’Olivetti dal 1978 al 1996 licenziò “per pura gelosia” l’ing. Fubini che, contro le direttive padronali, aveva sviluppato venduto in un anno 750.000 Olivetti M24. Lasciata così libera la strada a Microsoft e buttato alle ortiche tutto il know-how dell’industria di Ivrea, il grande imprenditore e l’illuminato finanziere ne fece “spezzatino” distruggendo l’eredità degli Olivetti, una città-laboratorio e una interpretazione  innovativa (e veramente di sinistra) del rapporto tra capitale e cultura, tra lavoro e ricerca, tra società e impresa, tra urbanistica e felicità.

Tutto ciò  – forse per non minare l’autorevolezza del suo esponente e guru economico senatore Franco Debenedetti – è stato costantemente ignorato dalla sinistra radical-chic che ha viceversa contribuito a perpetuare l’immagine pura dell’ingegnere De Benedetti (che ora, forse per scimmiottare i De Medici,  aveva “rinascimentalizzato” proprio cognome) ad esempio quando nell’’88 aveva dato l’assalto alla Société Générale de Belgique: qualcuno dei suoi giornali aveva evocato per lui l’immagine dei “capitani coraggiosi” pronti a portare in Europa l’intelligenza d’Italia, ma al tempo voci maligne dicevano che l’ingegnere aveva rastrellato azioni facendone lievitare il prezzo al solo scopo di concordare coi belgi terrorizzati un consistente plus-valore per cedere il suo pacchetto azionario (dicesi insider trading). Già prima – e qui parla un’altra “mammola” della finanza nazionale, Tronchetti Provera – De Benedetti aveva cercato di fare il giochetto del “socio ostile” con gli Agnelli: non gli andò male neanche un po’, ma se gli fosse andata benissimo avrebbe sfilato la FIAT dalle mani di Cuccia e dell’Avvocato. Stesso copione con la vicenda del Banco Ambrosiano dove divenne socio di un Calvi ormai prossimo alla fine al quale, con tempismo eccezionale giusto alla vigilia della bancarotta dell’istituto milanese, riuscì a spillare una liquidazione principesca per le sue azioni. Querelato dall’Ingegnere, Tronchetti Provera verrà poi ovviamente assolto.

Un’altra vicenda molto poco chiara di cui De Benedetti è stato protagonista è, nell’’85 col Governo Prodi, il tentativo di acquisizione della SME senza una vera e propria gara e per una cifra piuttosto modesta: l’affare andò a monte sia per l’opposizione dei socialisti, sia perché le offerte frattanto pervenute all’IRI da parte di aziende italiane operanti nel settore della SME, erano arrivate quasi a raddoppiare la cifra proposta da De Benedetti che perse pure la causa poi intentata contro l’IRI.

Per finire vale la pena di ricordare che la Procura di Roma nel 2015 ascoltò Carlo De Benedetti e Matteo Renzi a proposito di una telefonata con cui il primo invitava il suo operatore finanziario a comprare azioni delle banche popolari, rivelando che il premier Renzi lo aveva informato della sicura approvazione di lì a pochi giorni del decreto banche da parte del Governo: un investimento di 5 milioni di euro che avrebbe fruttato in pochi giorni – sempre di insider trading si tratta –una plusvalenza di 600 000 euro.

Per chiudere: se il buon Dio volesse prendersi i capitalisti di sinistra e restituirci i cari vecchi padroni delle ferriere, per noi sarebbe tutto più semplice.

A cominciare dalla lotta di classe.

Ci terremmo volentieri persino Berlusconi, venditore di tappeti si, ma per fortuna non di sinistra.

 

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