Nel lontano 1987 pubblicai un articolo sulla “Vita casalese” intitolato “Lettere da Casale assediata (1628)”. Si trattava di una pubblicazione edita dall’Istituto italiano di Cultura di Madrid sulla base di materiale scoperto negli archivi reali spagnoli.
Erano 62 lettere di casalesi, allora sudditi dei Gonzaga, indirizzate a Mantova e mai giunte a destinazione, anzi finite a Madrid come preda di guerra.
Il corriere o i corrieri erano stati catturati o addirittura uccisi e ciò che portavano sequestrato.
Le lettere non ebbero risposta. Anzi qualcuno dei destinatari forse non riabbracciò mai il mittente, dato il feroce saccheggio che subì Mantova nel luglio del 1630.
Neppure del corriere, o dei corrieri, sappiamo qualcosa. Era uno di quelli che a cavallo cercavano di superare le linee nemiche o piuttosto un mercante o un carrettiere che, occultati fra le mercanzie, recapitavano biglietti compromettenti?
Bisognava avere del fegato o una fede nella causa per accettare un incarico del genere. I corrieri erano considerati alla stregua delle spie, quindi, quando venivano catturati, erano passati per le armi oppure consegnati alla giustizia, che, prima della condanna a morte, li sottoponeva a tortura per estorcere loro qualche informazione.
Perciò molti di loro, per avere qualche possibilità di salvezza, accettavano solo messaggi orali.
In una delle lettere in questione, quella scritta da G. Castelli al figlio, si fa riferimento chiaramente a corrieri che accettano solo messaggi orali.
C’erano poi corrieri che, ricevuto denaro o altri valori da recapitare, giunti a destinazione affermavano di essere stati derubati di tutto. Se in alcuni casi era la verità, in altri ciò che doveva essere recapitato aveva preso un’altra strada.
Interessante è la testimonianza di Caterina De Magistris, moglie del credenziere del vescovo di Casale a Mantova:
” Torno dire che il corriere dice che sono stati tolti per strada li due crosazzi” I crosazzi erano grosse monete d’argento.
Tutti coloro trovati in possesso di lettere o biglietti, senza una valida giustificazione, rischiavano un’accusa di intelligenza con il nemico. E una lettera trovata addosso ad un frate minore francescano, doppiogiochista, costò la vita ad Alessandro Merlano, monferrino, di San Salvatore, residente ad Alessandria, nei pressi di porta delle Vigne.
Ghilini dedica alla vicenda tre paragrafi dei suoi “Annali” (1643/2 e 1644/3/41).
Nel gennaio 1643 il frate (Ghilini non riporta il nome), nativo di Mirabello, si presentò al marchese di Carazena, comandante delle forze spagnole nel territorio di Alessandria, proponendogli di occupare Casale, sfruttando la complicità di un sergente maggiore e di due soldati borgognoni di guardia ad una delle porte della città.
Carazena raccolse a Valenza 800 fanti, 400 cavalieri e poi scale, funi e altri ordigni utili per scalare le mura di una fortezza.
Il 30 gennaio 1643, alle due di notte, la formazione partì da Valenza alla volta di Casale, che raggiunse a giorno inoltrato. La sera stessa, verso le 23.00, Carazena inviò il suo mastro di campo, Giovanni di Padiglia, e il frate ad ispezionare il tratto di mura prossimo alla porta sorvegliata dai due borgognoni e a prendere contatti con questi ultimi.
L’abboccamento ci fu e di Padiglia informò il generale Carazena perché si muovesse dall’accampamento. Qualcosa però andò storto, Ghilini non è chiaro in merito, perché gli uomini si mossero quando era passata la mezzanotte mentre, nel frattempo, era stato dato il cambio ai due borgognoni con guardie ignare dell’accordo. All’alba quindi l’operazione venne sospesa. Questa però non era passata inosservata, perché un altro presunto complice, il sergente maggiore, messo sull’avviso dal frate, informò il governatore della città che a sua volta prese tutte le contromisure per far cadere gli spagnoli in una trappola. Questi però, quando videro penzolare sulle mura i corpi dei due borgognoni, si ritirarono.
Il doppio gioco del frate costò la vita a due uomini, forse avvicinati con un altro pretesto e fatti passare per ciò che non erano. Ghilini infatti afferma che il frate si avvicinò ai due in momenti diversi e da solo, riferendo al di Padiglia solo a contatti avvenuti.
Che il Carazena avesse maturato qualche sospetto sul doppio gioco del religioso è dimostrato dal fatto che al ritorno, invece di seguire i suoi uomini verso Tortona, si diresse alla volta di Valenza con il mastro di campo, il frate ed una scorta, sicuramente con lo scopo di approfondire la questione. Ma il religioso fece perdere le tracce prima di raggiungere la città, dando così fondamento ai sospetti.
Il 4 luglio dell’anno successivo, una grossa pattuglia di esploratori uscì da Alessandria, spingendosi fino a Felizzano, dove erano presenti formazioni francesi, con l’intento di seguirne le mosse e forse di attaccarle alle spalle. Lungo il percorso intercettò il frate. Qualcuno lo riconobbe oppure uno zoccolante a cavallo destò sospetto.
Vistosi scoperto, o forse preso dalla paura, il religioso si diede alla fuga, ma dopo un lungo inseguimento venne abbattuto da un colpo di archibugio esploso da uno degli esploratori.
Sul cadavere fu trovata una lettera di Alessandro Merlano in cui si faceva riferimento al fossato attorno ad Alessandria, sempre pieno d’acqua, alla presenza di molti soldati e ad altre cose militari su cui però Ghilini non si sofferma.
Non disponiamo del testo, né Ghilini riporta qualche stralcio. Comunque, pochi giorni dopo, il malcapitato Merlano venne convocato dal governatore di Alessandria Sotelli. Interrogato fu immediatamente arrestato e tradotto alle carceri di Pavia, dove, dopo essere stato sottoposto a tortura, venne giudicato colpevole e condannato a morte.
La condanna fu eseguita per impiccagione ad Alessandria il 20 agosto 1644 e seguita dalla macabra pratica di sezionare il corpo e disporne le parti sopra porta delle Vigne e nei pressi della abitazione del reo.
Lo spettacolo fu assicurato. Ma viene da chiedersi se Merlano fu veramente un informatore del frate e non piuttosto un uomo che confidava ad un compaesano, per giunta frate, le pene causate dallo stato di guerra permanente e dai cattivi rapporti fra soldati e civili. Erano comunque informazioni che una spia di professione, per giunta doppiogiochista, poteva usare pro domo sua.
I riferimenti al fossato attorno alla città sempre pieno d’acqua e ai soldati, brulicanti in ogni angolo della città (e questo è Ghilini che lo scrive) erano noti a molti dei monferrini che entravano nello stato di Milano per la mietitura e per altri lavori agricoli stagionali. Insomma il frate, approfittando della sua posizione, avrebbe potuto sapere le stesse cose da fonti diverse.
Durante la guerra dei Trenta anni e in tutti gli altri conflitti dei secoli precedenti o successivi i capi militari e i responsabili dello spionaggio ricavavano informazioni da chiunque: contadini arroccati in difesa della loro terra, mercanti in movimento da un territorio all’altro, profughi che si rifugiavano nelle città fortificate, pattuglie di esploratori o di incursori, uomini di chiesa.
Turenne, grazie alle informazioni dell’abate Gravel, residente a Magonza, che riferivano di una situazione critica nel campo nemico, nel 1644, attaccò e sconfisse il generale Caprara sulla riva sinistra del fiume Neckar prima dell’arrivo dei rinforzi.
Egidio Lapenta
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