Una storia alessandrina

Pubblichiamo con vero piacere questa “Storia alessandrina” del nostro Egidio Lapenta. Ci troverete una bella storia con intrecci non scontati, uno sfondo familiare che riporta indietro di qualche secolo e, soprattutto, la vita di tutti i giorni di una comunità mista (di cristiani ed ebrei) che ha saputo perfettamente amalgamarsi e che sta alla base delle dinamiche di oggi.  (n.d.r.).

Una storia alessandrina

Capitolo I

Pasquale si sveglia, come sempre, all’alba, fa fresco e attraverso le impannate scorge una leggera nebbia: settembre, nonostante il clima, preannuncia l’umidità dell’Autunno e i rigori dell’inverno; si sciacqua il viso, nel bacile accanto alla finestra, si veste in silenzio, per non svegliare la moglie, esce dalla camera da letto e scende in cucina: ardono ancora i carboni della sera precedente; si siede accanto al camino e riflette sul da farsi, ha bisogno di soldi, ma non sa come fare per procurarseli: Sei figli e una moglie non sono uno scherzo, per giunta, la più piccola è a letto con la febbre, sarebbe necessario il dottore, ma come pagarlo?
Quando si alza ed esce di casa, l’uomo è inseguito da brutti pensieri, cammina a passo svelto, dirigendosi verso il Tanaro, al porto fluviale, forse lì riuscirà a rimediare qualche lavoro e quindi qualche soldo per la famiglia.
Mentre cammina è quasi avvolto dalla nebbiolina, sente un certo fastidio: si è adattato al clima, alla lingua al carattere alessandrini, spesso ironico e dissacrante, ai cibi e alle abitudini, così diversi da quelli della sua terra, ma non riesce a sopportare la nebbia, infida e pesante per uno come lui cresciuto all’aria fina delle montagne della foresta umbra.
Eppure il destino lo ha condotto proprio ad Alessandria: si era arruolato per sfuggire alla miseria del suo paese e della sua famiglia, aveva seguito il comandante Racana nelle Fiandre, in Lorena e in Toscana e in uno dei tanti spostamenti si era trovato ad Alessandria.
Quando la vide, la prima volta, gli apparve una città imponente, poderosa, imprendibile, brulicante di mercanti, soldati, contadini, pescatori e prostitute, ovunque, negli spazi erbosi, sui canali che attraversano la città, nelle vie lunghe e strette.
Era stato alloggiato presso una famiglia che avrebbe dovuto fornirgli letto, vitto e legna da ardere. Avrebbe dovuto fermarsi trenta giorni, vi rimase 11 mesi.
Conobbe Maria, figlia di Domenico Marchelli, falegname, unica di otto, sopravvissuta alle malattie e alle disgrazie, una giovane schiva e, nello stesso tempo, curiosa di conoscere un soldato del cattolicissimo re di Spagna.
«Non ti avvicinare a lui; i soldati sono brutali!», le ripeteva il padre, timoroso per la sua piccola, ma la curiosità era grande: Maria spiava Pasquale quando si lavava, a torso nudo, quando calzava gli stivali, oppure mentre affilava la spada.
Questo soldato, alto, scuro di carnagione, con i capelli lunghi e corvini, lo affascinava, le ricordava paesi lontani e misteriosi.
Pasquale partì, ma tornò dopo tre anni, come presidiario e si presentò di nuovo a casa di Domenico, questa volta come ospite pagante, ma soprattutto desideroso di rivedere Maria.
Un soldato in casa, visto sempre come una iattura, in questo caso fu considerato una benedizione, avrebbe protetto una casa abitata da genitori anziani, avevano ormai superato i cinquanta anni, e da una figlia già in età da marito.

Maria aveva 17 anni, carnagione chiara, capelli biondi ed occhi azzurri; incontrò Pasquale al pozzo di casa, stava sollevando il secchio colmo d’acqua, quando lui l’aiutò, portandoglielo poi fino in cucina.
«Siete diventata una donna.»
Maria non rispose, abbassando gli occhi; Pasquale si allontanò, ma i loro incontri al pozzo divennero frequenti:
Avevano un bel dire papà Domenico e mamma Enrica sui soldati e sulla pericolosità delle loro frequentazioni e che quando se ne sarebbe andato nessuno più l’avrebbe sposata, ma l’amore, si sa, non ha limiti e i due si incontrarono sempre più frequentemente, tanto che il giovane decise di dichiararsi ai genitori di lei.
Domenico avrebbe voluto opporsi, ma capì che sarebbe stato peggio, la loro figliola, in un attimo di passione, sarebbe scappata, seguendo Pasquale chi sa dove, diventandone la concubina, o forse qualcosa di peggio: accettò con rassegnazione.
«Pasquale ti do mia figlia, ma oltre al corredo e dieci scudi non posso darti altro.»
«State tranquillo mastro Domenico penserò io a Maria.»
Pasquale ricorda queste parole e ha un’espressione di stizza, vorrebbe imprecare, ma sta attraversando la piazza Maggiore, in prossimità della cattedrale, maestosa nella nebbiolina settembrina, e si fa il segno della croce.
Passa quindi per il corpo di guardia vicino alla chiesa, guarda con malinconia la sentinella un po’ assonnata.
Nel porticato adiacente alcuni mercanti stanno sistemando i banchi per la giornata che inizia.
L’uomo affretta il passo, vuole essere in riva al Tanaro al momento del carico delle merci sulle chiatte, prima però vuole entrare in chiesa, per pregare e riflettere un attimo; lo fa da quando non è più soldato, ma ha sempre rispettato i luoghi sacri, anche quelli dei nemici, tanto da non averne mai saccheggiato alcuno, pur avendone la possibilità, e questo è per lui un titolo d’onore. Si dirige verso il Carmine; entra e va verso la cappella di San Alberto, qui si ferma davanti alla tomba di Giuliano Ghilini. Ama questa chiesa, è un po’ come un angolino della sua terra, frequentata, com’è, da tanti spagnoli, la cui lingua gli ricorda Napoli, città dove aveva vissuto, in cerca di fortuna.
Giuliano Ghilini, grande condottiero, lo riporta ai suoi trascorsi militari: davanti alla tomba pensa ai casi suoi e alle sue disgrazie, torna indietro a quel maledetto 1573, quando ubriaco, insieme ad altri tre soldati sconosciuti, imbrattò le insegne reali poste
sul duomo e su alcuni palazzi patrizi.
Si parlò di congiura, di quei tre si disse che erano manovrati da qualcuno, si cercò di tirarlo in ballo, associandolo a loro, addirittura accusandolo di esserne il capo. Il governatore insisteva nelle accuse, quasi a voler scagionare gli altri: era forse il burattinaio occulto di cui si parlava?
Davanti a lui, Pasquale si era difeso con coraggio: «Culpable.»
«Eccellenza, ero ubriaco ed arrabbiato, non mi rendevo conto di quello che facevo. Quei tre non li conoscevo neppure, vidi che lanciavano sterco contro gli stemmi e feci altrettanto, per vendicarmi dell’ordine di trasferimento per le Fiandre.»
Addirittura aveva tentato una disquisizione filosofica: «Quando una moneta cade nel fango, viene calpestata o qualcuno vi sputa sopra, viene inzaccherata l’effigie del re, ma ciò non rende certo colpevole di lesa maestà chi ha fatto questo.»
Il discorso non faceva una grinza, ma il governatore obiettò che il perdere, o calpestare, una moneta rientrava nella casualità, lo sputarvi apparteneva al diritto popolare, imbrattare di sterco gli stemmi reali, dopo aver ricevuto ordine di trasferimento, era insubordinazione e offesa al re.
Pasquale fece, allora, leva sulla sua disperazione di marito e padre, costretto a lasciare la famiglia, che lo aveva spinto ad ubriacarsi, prima, e a seguire quei dissennati compagni, poi.
Lo salvò l’inquisizione, che accertò la premeditazione dei tre e la casuale partecipazione di Pasquale, e lo salvò anche da morte sicura, allontanandolo dalla cella dove erano ospitati gli altri tre.
Condannati tutti a remare sulle galee, anche se per un numero di anni diverso, andarono incontro ad uno strano destino: la notte successiva alla lettura della sentenza, quei tre sventurati morirono avvelenati, Pasquale si salvò grazie ad un anticipato trasferimento a Genova.
Qui fu imbarcato su una galea spagnola, navigò un anno e mezzo, dopo di che fu raggiunto dal perdono reale per i suoi meriti di guerra e per il denaro profuso da Domenico, per muovere avvocati e causidici nella ricerca di un cavillo che ne permettesse la liberazione.
Quando Pasquale tornò ad Alessandria, smunto e con i capelli rasati, come tutti i galeotti, trovò una famiglia, sì, ad attenderlo, ma povera in canna: Domenico aveva dovuto vendere tutto per raggranellare i quattrini utili per la liberazione del genero, salvando solo la casa.
L’uomo promise che avrebbe riscattato tutti da quella condizione di miseria, ma non combinò un gran che, anzi, aumentarono i figli, rendendo l’abitazione, una cucina, al piano terra, e due stanze, a quello superiore, angusta e chiassosa.
Il problema, però, era un altro e cioè sfamare dieci persone: quando morì Domenico, che aiutava la famiglia con il suo lavoro di falegname, Pasquale fu costretto a tirare avanti con lavori precari, facendo piombare la famiglia nell’indigenza.
Non poteva tornare nella sua terra natale, perché sapeva che lì avrebbe trovato solo miseria: suo padre, barbiere e cavadenti, a Perticara, paese attorniato dalle montagne lucane, per arrotondare, andava a mietere il grano, in estate, e a suonare nelle feste di matrimonio, durante l’anno. Pasquale e altri tre fratelli
erano andati via, lasciando due sorelle da maritare, un fratello malaticcio e Antonio, che aveva seguito le orme del padre.
Aveva chiesto a quest’ultimo, ma la risposta era stata scontata: era lieto del suo matrimonio, anche se con una straniera, addolorato per quanto accadutogli, ma anch’essi avevano avuto delle disgrazie, i genitori erano morti e così pure una sorella, mentre i carlini erano sempre pochi, tanto che i piccininni (i piccoli) erano costretti a lavorare nei boschi con i carbonai.

Pasquale aveva cercato di sopravvivere con i lavori più disparati, uomo di fatica al porto fluviale, suonatore di mandola, fabbricante di unguento, ma senza fortuna; si sentiva tradito dalla vita, anche se però aveva ancora la sua famiglia, numerosa, causa di preoccupazioni, ma anche fonte di gioia, quando tornava a casa, stanco, e i suoi figli gli correvano incontro, abbracciandolo e baciandolo, oppure quando guardava i suoi piccoli mentre dormivano il sonno degli innocenti.
Un tramestio lo riporta alla realtà, sta per iniziare la messa dell’aurora, ma non può fermarsi, deve battere sul tempo i concorrenti, si allontana, facendosi il segno della croce e pensando al sepolcro di Giuliano Ghilini: è spoglio, da quando, per ordine del vescovo, sono stati tolti gli stendardi, gli speroni e la spada che l’adornavano; chi sa perché poi; si dice per venire incontro a decisioni prese a Trento, contro gli eretici, ma un uomo deve essere seppellito con le cose più care e non per questo è meno cristiano; e poi, chi prega su una tomba non è distratto dai trofei, se mai questi lo fanno riflettere sulla vita e sulla vanità della gloria terrena. Continua a intrecciare i pensieri nella propria mente, mentre,
camminando, percorre la Strada Larga, giunge in vista del torrione Baratta, supera la Porta Nuova, ancora poco frequentata, con i gabellieri che si stropicciano gli occhi, per la nottata passata nel dormiveglia, e il ponte coperto, finché arriva sulla sponda del Tanaro.

Capitolo II

Fra la dogana grande e i bastioni, vi sono alcune case, qualche fondaco, una taverna, un banco di cambiavalute, Pasquale percorre le viuzze che conducono agli imbarcaderi, passando per il banco di Giovanni Milanese, detto l’ebreo; è ancora chiuso, ma qualcuno conta del denaro; si volta, quasi per istinto, verso la porta chiusa, ma non nota nulla, se non la grida sui cambi affissa sulla porta e in
parte sgualcita.
Una grossa chiatta è ormeggiata a riva, Pasquale si avvicina, urla: «Avete bisogno d’aiuto?»
«Certo!», gli risponde una voce rauca, «Tre soldi se ci fai scaricare prima delle sette.»
«Affare fatto!»
Pasquale inizia a lavorare di buona lena, senza badare a ciò che accade attorno a lui; quando termina di scaricare, si accorge che molte barche sono ormeggiate agli imbarcaderi e la riva brulica di gente, di carri e di animali: molte merci prendono la strada della dogana grande, altre rimangono sulle chiatte pronte a ripartire verso Pavia, Cremona e, da qui, Venezia.
L’umanità che frequenta il porto è la più disparata, oggi, però, non ci sono arrivi di soldati, se no sarebbe un pullulare di meretrici, mercanti e loschi individui.
Comunque, il movimento è notevole: dai mulini sul fiume vi è un andirivieni di barche, che portano cereali e farina, pronta, quest’ultima, per essere caricata sui carri in attesa lungo la riva.
Di fronte a questo spettacolo, Pasquale rimpiange di non aver imparato un vero mestiere, almeno i suoi figli avrebbero la certezza di poter mangiare, mentre, così, è un continuo mendicare e patire.
Quante volte ha pensato di salire su una barca e di raggiungere Venezia, dove si sarebbe arruolato nelle truppe spedite a Candia o in Negroponte. Non lo ha mai fatto perché non poteva abbandonare la famiglia: l’aveva già tradita una volta, non poteva farlo una seconda; però, quanti bocconi amari ha dovuto inghiottire, quanti sguardi e giudizi maligni ha dovuto sopportare, specie i primi tempi, dopo il suo ritorno dalla galera, quando aveva ancora il capo rasato tipico dei criminali e tutti lo guardavano come un lebbroso. Quante volte avrebbe voluto nascondersi, ma non poteva, aveva un dovere verso la sua famiglia…
ma… questa voce… è… sì… di Giobatta Pescetto, mercante di Genova, come sempre, bisticcia e, come sempre, per lo stesso motivo: le monete calanti.
Giovanni Milanese non vuol ritirare i grossi scudi di Giobatta al valore fissato dalla grida perché sono calanti di peso: «Sono calanti, non ti posso accontentare!»
«La bilancia è truccata, figeu!»
«La bilancia è in ordine, ciapa quai!»
«Ciapa quai a me, sono Giobatta Pescetto, mercante in Genova, mica zucchero caramellato!»
«Mastro Gio…», ma Pasquale non finisce di pronunciare il nome.

«Cosa vuoi? Non vedi che sto discutendo?»
«Vi ricordate di me? Sono Pasquale Laurenzano.»
«Sangue, se mi ricordo: sei Pasquale, lo sfigato.»
«Proprio io, per servirvi.»
«Cosa vuoi, figeu?»
Pasquale, posando lo sguardo sul mucchietto di grosse monete d’argento poste sul bancone: «Ho sei figli e una moglie e ho bisogno di lavorare.»
«Eri un buon soldato, dovevi continuare a farlo.»
«Ad ognuno il proprio destino, questo era il mio. Mastro Giobatta, vi ho fatto fare buoni affari in passato, dovete aiutarmi.»
«È vero, tu mi hai sempre portato buone palanche. Ascolta… Ho la necessità di portare della seta da Milano a Genova, di questi tempi, uno schioppo fidato in più fa comodo: ci stai?»
«Siete un galantuomo.»
«Allora, stasera, al Falcone, per definire l’accordo e ora vattene che ho da fare.»
Finalmente, un lavoro vero, a Pasquale non sembra vero; si allontana quasi senza salutare, accompagnato dalle urla di Giobatta, che ha ripreso a litigare con il cambiavalute.
Pasquale torna sui suoi passi, vuole essere a casa per l’ora di pranzo, per portare la notizia e per sapere come sta Elisa. Passa per contrada Maestra, si ferma dal prestinaio e ne esce con un pane da due libbre. Vede la bottega di Isacco Sacerdoti, un vecchio ebreo, suo amico, decide di fermarsi.
È una bottega anonima, incassata nell’edificio che si affaccia sulla via, buia, spoglia.
Isacco sta sempre dietro il bancone, immobile con la solita zimarra addosso, un copricapo di foggia orientale, dal quale sbucano, ai lati, due lunghi riccioli.
Chi entra, oltre all’ebreo, non vede altro se non la bilancia, un calamaio, alcune polizze in bianco e, affissa su un muro, una grida sui cambi delle monete nel ducato di Milano.
La gente vocifera di un tesoro, monete, gioielli, oggetti preziosi, seppellito, da qualche parte, nel giardino, o nascosto in casa, ma nessuno ha mai visto niente.
Tutte le sere, il vecchio Sacerdoti chiude il negozio da dentro e sale in casa per la scala interna, dove consuma il suo pasto; dopo, mentre le due figlie rigovernano, legge qualcosa, spesso lettere da Costantinopoli, Roma, Mantova o Lodi, quindi, terminata la lettura, quando i figli sono nelle loro camere, si va a coricare, non senza essersi accertato che porte e finestre siano ben serrate.
Sono sempre gli stessi gesti, che neppure la morte di Ruth, sua moglie, ha cambiato.
«Salve, Isacco!»
«Sei venuto per saldare il tuo debito di venti scudi?»
«Per pagare e morire c’è sempre tempo.»
«Fin quando, caro Pasquale, non verranno i messi del tribunale a sequestrarti tutto.»
«Sta’ tranquillo, ti pagherò ogni cosa, forse ora ne avrò la possibilità!»
«Dici sempre così, ma intanto il tuo debito sale.»

«Sei esoso, Isacco, e noioso, sempre pronto a ricordarmi ciò che ti devo, eppure hai ricevuto in pegno il bracciale di Maria, lo avevo tolto dal braccio di un morto, mentre saccheggiavamo una città in Germania.»
Pasquale ha un momento di silenzio, appare una ruga sul suo volto, ma riprende: «Bei tempi, non avevo famiglia, giravo il mondo e avevo sempre la saccoccia piena di monete.»
«Bella per te», lo rimprovera Isacco, «ma dolorosa per chi era costretto a fuggire, abbandonando la propria casa a lupi affamati di ricchezze, pronti ad uccidere amici o nemici. Denari estorti con la violenza, padri costretti ad umiliarsi, pur di salvare i propri figli da torme inferocite di senza Dio.»
«È la guerra.», replica Pasquale, «E i civili non sono da meno, sempre pronti ad entrare nelle case, quando sono andati via i soldati, per portare via ciò che è rimasto; pronti a commerciare con i soldati, per rubargli ciò che hanno. Credimi, non sono migliori dei soldati, che tanto odiano.»
«Hai ragione anche tu.», risponde sconsolato Isacco, «I civili sono sempre pronti a scrivere lettere anonime per accusare di usura un ebreo, dopo che gli hanno chiesto un prestito, o di infanticidio: ti ricordi quando mi accusarono di aver ferito quel bimbo cristiano?»
«Ero qui, che contrattavo la vendita di una collana di Maria, quando entrò quel bimbo ferito: era ammutolito.»
«Medici e frati dissero che fu per lo spavento, ma se non ci fossi stato tu, cristiano, a testimoniare, oggi non sarei qui a parlarne e i miei figli sarebbero allo sbando.»
Isacco emette un lungo sospiro: «Ho tre figli, ma nessuno che mi somigli. Miriam e Deborah pensano solo ai gioielli e a trovare un marito ricco, ma sono senza cervello: quante volte ho detto no a giovani israeliti, di buona famiglia, per timore che l’unione fallisse. Ho due figlie sempre pronte a ridere di tutto e di tutti, come
se la vita fosse un’eterna risata. Non parliamo, poi, di Davide, arrogante, con una lingua tagliente, quanto inutile: tante volte ha umiliato chi veniva a chiedere danaro in prestito, per bisogno, disprezzando ciò che portava in pegno: un uomo bisognoso è disperato, se poi lo si umilia è capace di tutto, anche di una follia,
ma Davide non capisce, per lui sono gli altri che hanno bisogno, non noi; giovane stolto, se continua così, prima o poi, il re ci costringerà a lasciare la città, allora saremo noi alla mercé degli altri. Simone Sacerdoti ha un bel dire che ha un’idea che ci permetterà tutti di rimanere qui, ma io non ci credo: noi ebrei siamo già stati scacciati dalla Spagna e rifiutati da tante città e succederà anche qui.»
A questo punto cala il silenzio, Pasquale, compresa l’angoscia dell’interlocutore, cambia discorso, parlando dell’ultimo gioiello di Maria portatogli in pegno:
«L’anello che ti portai la volta scorsa valeva molto, un orafo di Savona me lo aveva valutato quattro scudi.»
«Storie! Valeva poco e quello che ti diedi era già troppo; se proprio vuoi del denaro dovresti metterti al servizio di qualche nobile», risponde Isacco, ritornato mercante, «in questo modo potresti sfamare la tua famiglia, godendo di qualche
privilegio, senza fare la vita da cani che conducete.»

«Ne ho abbastanza di padroni dispotici e capricciosi, che danno ordini e non sono mai riconoscenti, voglio essere un uomo libero. I nobili, le loro vendette e i loro duelli possono andare all’inferno.»
«All’inferno però ci stai tu, ora, e con te quei poveri figlioli e tua moglie, che non hanno colpe.»
«Non hai diritto di giudicarmi.», replica Pasquale, colpito nell’orgoglio, «Parli di Davide, ma ti comporti come lui.»
«Cerco solo di consigliarti, stolto soldato di ventura.»
«Non chiamarmi soldato di ventura! Ho servito il mio re con onore!»
«Con tanto onore che ti ha mandato a remare sulle sue galere.»
«Isacco, non provocarmi! Potrei denunciarti come usuraio e sacrilego, così non pagherei neppure il mio debito!»
«Non lo farai, non sei un vile.»
«Potrei diventarlo, sai che piacere vedere Isacco Sacerdoti e la sua famiglia scappare da Alessandria, inseguiti dai creditori e da una masnada di farabutti!»
«Meglio morire!», esclama il mercante, chinando il capo.
Pasquale, capendo di aver toccato un tasto dolente, non va oltre, cambiando discorso: «Beh, si è fatto tardi, devo tornare a casa e prima voglio fermarmi nella rugata dei portici per comprare del formaggio, un poco, tanto per dare soddisfazione ai miei figli.»
«Ricordati del debito, sono venti scudi.»
«Li avrai. Quanto prima.»
Pasquale esce dalla bottega, percorre un tratto di via maestra, entra nella contrada dei portici, vede i formaggi esposti sul lato destro, entra in una bottega e ne esce, poco dopo, con un pezzo di cacio, avvolto in foglie di fico; si fa largo a fatica, ormai la gente affolla le vie ed è tutto un via vai di carretti, muli, cavalli ed asini, comunque si sente leggero, con un pane sotto il braccio, un pezzo di cacio e la possibilità di un nuovo lavoro, è speranzoso, quasi baldanzoso per il futuro.

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