Una storia da scrivere

Una bella storia va sempre raccontata, scalda il cuore e rende gli uomini migliori.

Questa che mi accingo a presentare è una bella storia, solo che è tutta da ricostruire dato che la conosco per sommi capi. Troppo piccolo per avere l’attenzione di ascoltare i diretti testimoni, troppo tardi quando raccolsi il racconto di uno dei sopravvissuti, Luigi Mancino, detto Gino, nato a Potenza nel 1920.

La partecipazione di mio zio Gino alla Seconda guerra mondiale è scandita da una serie di foto. Le ultime in divisa sono quelle scattate a Casalnoceto poco prima del tragico 8 settembre 1943.

A guardarle sembrano quelle delle manovre in tempo di pace, in un momento di inattività, insieme all’ufficiale più simpatico o con il cappellano militare, oppure con qualche passante, tanto meglio se una ragazza carina come quella dello scatto.

I volti non sono tirati, anzi sono sorridenti, nulla che faccia pensare alla bruttura della guerra in corso. Complice forse il luogo, Casalnoceto, piccolo centro di campagna come tanti, lontano dal fronte e dai bombardamenti.

Girando le foto si leggono due date e cambia lo scenario: 29 luglio e 1° agosto 1943

I visi sorridenti dei militari e della ragazza esprimono allora qualcosa di più, manifestano una speranza, neanche troppo nascosta, che la guerra possa cessare presto, almeno con un armistizio o qualche forma di “cessate il fuoco”.

Il Fascismo è caduto da pochi giorni (25 luglio) e sembra essersi sciolto come neve al sole. C’è un nuovo governo, un governo militare, apparentemente intenzionato a proseguire la guerra ma in realtà conscio della sconfitta e di quanto il conflitto gravi sulla popolazione.

La gente, dopo venti anni di dittatura, torna a parlare apertamente e fra i discorsi dominano quelli sulla fine della guerra e dei patimenti, del ritorno dei prigionieri e del tutti a casa.

Si parla sull’onda della speranza, dell’illusione, senza alcuna consapevolezza di ciò che possa accadere nell’immediato futuro.

Ma in quel momento quanti pensarono all’inizio della fine di un mondo e alla nascita faticosa, dolorosa di un altro?

Le speranze dei civili contaminano anche i militari. Se nella foto che li ritrae a fianco al cappellano militare (mio zio è alla sua destra) i soldati rispettano ancora una certa forma. Nella seconda (Gino è dietro la ragazza) traspare una gioia sincera: “Forse sta veramente finendo. Forse potremo tornare a pensare al futuro, senza che una bomba, o un proiettile, ponga fine a tutto.”

Quegli uomini sorridono spensierati, ma cosa hanno vissuto prima di quel momento?

Dei giovani immortalati dallo scatto conosco solo la storia di mio zio. Si trovava a Casalnoceto dopo essere passato per le Casermette di Alessandria, dove era arrivato dopo essere sopravvissuto alla ritirata di Russia nel gennaio 1943.

In Russia era giunto dopo un periodo di degenza in un ospedale militare toscano, in seguito ad una ferita ricevuta in Montenegro.

Durante la ritirata fra neve e ghiaccio, sfinito, si era aggrappato al cassone di un automezzo militare e a causa del gelo e del tempo trascorso in quella posizione aveva contratto una deformazione alle falangi delle dita delle mani.

Non conosco le vicende degli altri uomini della foto ma posso immaginarne di analoghe a quella di Gino.

Allora è spiegabile la gioia, comunque un senso di fiducia, che traspare da quei visi. Lo stesso cappellano sembra attendere qualcosa di buono, ma chissà quante storie ha raccolto in confessione, quante paure avrà cercato di fugare e quanti ultimi respiri avrà accompagnato con la preghiera: “Forse è veramente finita.” Tragica illusione. La guerra è ancora lì, anzi dietro l’angolo, pronta a sconvolgete tutto.

Il peggio inizia ora, dopo l’8 settembre.

Conosco la vicenda per sommi capi, ne parlai con lo zio, da adulto solo una volta, nell’estate del 1983, quando venne da noi, ad Alessandria, per un’ultima breve visita, mancò nei primi mesi del 1984.

Rispose alle mie domande, ma fu abbastanza laconico. Era un po’ la sua indole. La sua riconoscenza però verso le persone che lo avevano aiutato era immensa.

Quando veniva a farci visita ad Alessandria cercava di ritagliarsi sempre una giornata per poter tornare a Casalnoceto e riabbracciare chi lo aveva protetto.

Nel 1964 volle portare la sua famiglia e quella di sua sorella Angela. Quindi ebbi anche io la possibilità di conoscere i suoi benefattori.

Ero un bambino di nove anni, pensavo a giocare, non certo all’8 settembre 1943 e alle sue conseguenze. Ricordo di quel pomeriggio una signora avanti negli anni che, quando vide mio zio, lo abbracciò come un figlio che torna da un lungo viaggio e la frase:” Il letto dove hai dormito tu è ancora lì nella stessa camera.”

E mio zio ci aveva dormito ancora in quel letto dopo la guerra, nel 1962, durante una visita di due giorni.

Non rammento altro di quel caldo pomeriggio del 1964, se non l’ospitalità delle persone e il particolare che gestivano un negozio, forse una drogheria.

La mia ricostruzione dei fatti, ahimè, purtroppo è imprecisa. Dopo l’8 settembre, dei soldati di stanza a Casalnoceto chi poté tentò di tornare a casa o si diede alla macchia. Alcuni del centro-sud Italia, quanti fossero non lo so, non sapevano cosa fare, erano confusi, fu la popolazione a soccorrerli, nascondendoli.

Rimasero nascosti lì forse un anno e mezzo. Comunque un tempo lunghissimo se si pensa che mia nonna, a Potenza, non seppe più nulla del figlio per più di un anno, ritenendolo addirittura morto. Ebbe sue notizie dalla Toscana e a guerra finita.

La gente sapeva ma non parlava e se qualche estraneo faceva domande: “Erano parenti bloccati lì dalla guerra”.

Quando giungevano notizie di un rastrellamento, quei giovani diventavano fantasmi. Le informazioni arrivavano grazie alla “complicità” di un sottufficiale della Wermacht o della Feldgendarmerie (la polizia militare), a causa di una sua relazione con una donna del luogo. Quanto questa relazione fosse sincera non si sa ma fu certamente utile. Soprattutto quando quei giovani uscirono allo scoperto per dare una mano durante il raccolto, a rischio, data la mancanza di braccia.

Chi nascose e tacque lo fece pensando ai propri figli, fratelli o padri in balia dei tedeschi in tutta Europa dopo l’8 settembre. Come avrebbero gioito sapendoli aiutati nella fuga da genti non ostili. Lo stesso pensiero ebbero mia nonna e mia madre mentre consegnavano una camicia, una giacca o un pantalone di Gigino a quei soldati della caserma “Lucania”, a Potenza, che, senza più ordini, si erano dati alla fuga.

La decisione di lasciare Casalnoceto e di andare in Toscana forse fu presa poco dopo la fine del conflitto, d’accordo con Fortunato, un commilitone di Montemarciano, in provincia di Arezzo, che diverrà il grande amico di tutta la vita.

Questo lo convinse a seguirlo, promettendogli ospitalità prima di tentare di percorrere l’ultimo tratto che divideva mio zio dalla sua città, il più lungo.

La “mamma” di Casalnoceto era preoccupata per Gino, tentò di convincerlo a rimanere ancora, almeno finché le acque si fossero calmate, ma fu inutile, tanto grande era il desiderio di tornare.

Gino e Fortunato si mossero con mezzi di fortuna, spesso a piedi, in un’Italia devastata dalla guerra e dall’occupazione militare. Raggiunsero Montemarciano e qui la permanenza non fu breve. Finalmente zio Gino fece ritorno a casa, ma non vi rimase per molto tempo. Tornò in Toscana per rimanerci, qui aveva conosciuto Vera, quella che sarebbe stata la compagna di tutta la vita.

Egidio Lapenta

 

 

 

 

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