Unire l’Europa con la sua cultura

  1. L’idea di una Europa unita è contenuta già nel 1941 nel “Manifesto di Ventotene” di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, ma nella pratica viene avviata dopo il secondo conflitto mondiale. Alcuni Stati europei, consapevoli di non essere più in grado singolarmente di garantire lo sviluppo economico e la difesa nazionale, sotto l’impulso e la tutela degli Stati Uniti, stipulano un patto di cooperazione economica e militare: quella economica con l’“Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica” (OECE), deputata principalmente a coordinare l’attuazione del Piano Marshall; quella militare, con la “North Atlantic Treaty Organization” (NATO) che comporta la sostanziale subordinazione agli Usa.

Tuttavia, per molti anni, questa non è stata l’unica “unione europea” esistente. Fino alla caduta del Muro di Berlino, in base ai trattati, agli accordi politici e agli ordinamenti giuridici, abbiamo avuto almeno tre ‘Europe’. L’altra si riconosceva nel “Council for Mutual Economic Aid” (COMECON), il Consiglio di mutua assistenza economica fra otto paesi dell’Est, nato proprio come risposta all’Occidente del blocco sovietico. La terza è quella dell’”European Free Trade Association” (EFTA), istituita nel 1960 da sette stati che non vollero aderire alla Comunità Economica Europea e tuttora in vita con l’adesione di quattro paesi.

C’è da aggiungere che quella che noi riteniamo la ‘nostra’ Unione Europea, fino al 1992 era costituita a sua volta da tre Comunità europee, con proprie carte fondative autonome e distinte. Il processo di unificazione europea si è sviluppato, infatti,con la nascita, in successione, della Comunità Europea del carbone e dell’acciaio (CECA) del 1951, della “Comunità Europea” (CEE) e della Comunità Europea dell’energia atomica (CEEA o EURATOM) del 1957. Se poi vogliamo essere completi, a tutto questo andrebbero aggiunti altri due ‘pilastri’: quello della politica estera e della sicurezza comune (PESC) e quello della giustizia e degli affari interni (CGAI). Si è trattato, dunque, di una costruzione elefantiaca, barocca -da qualcuno definita un ”labirinto impenetrabile ai non iniziati”- che strada facendo ha indebolito fin quasi a perderlo del tutto il senso della sua ‘missione’. Solo molto più tardi, col Trattato di Maastricht, istitutivo della UE, è stato avviato il processo per la creazione di un’unica Comunità e il tentativo di una maggiore unità e semplificazione ‘burocratica’.

2.- Con la caduta del Muro di Berlino e la scomparsa della minaccia sovietica le cose sono radicalmente cambiate e anche ulteriormente complicate. Con la fine dell’Urss la Comunità europea è stata chiamata a dare una risposta alla crisi dell’Est, a cercare di superare la storica divisione tra le due metà dell’Europa, e a tentare di costruire quella che Michail Gorbaciv definiva la “Casa comune europea”. All’Europa ‘occidentale’ è toccato così farsi carico delle nuove identità emerse all’Est prima soffocata sotto il manto del dominio sovietico. Con l’esplosione di quell’impero esplode infatti anche il problema delle nazioni, esattamente come era all’inizio del Novecento, prima della Rivoluzione d’Ottobre. Si è posta la questione della soggettività di molte nazionalità alle quali era necessario dare una ‘casa’. Così l’Europa di pochi stati è presto diventata l’Europa di ben 27 membri ai quali bisogna aggiungere la richiesta d’ingresso di altri dieci paesi, ancora quasi tutti dell’Est socialista.

Era inevitabile, naturalmente, che questa nuova situazione creasse ulteriori difficoltà nella costruzione di una Europa unita. Ma Dahrendorf non ha del tutto ragione quando imputa ai paesi della Comunità “di non aver voluto riconoscere la necessità impellente di includere le nuove democrazie nate dal fallimento del comunismo nella costruzione europea”. Secondo lui, “gli architetti di Maastricht si sono comportati come se il 1989 non ci fosse mai stato. Hanno ignorato la mano tesa dei paesi dell’Europa centro-orientale, hanno finto di non vedere che al portone del loro castello c’era una folla di postulanti” (“la Repubblica”, 3/9/1992). E’ vero invece non che mancasse l’accordo per l’apertura dell’Unione all’Est, ma che ognuno questa apertura la volesse a modo suo, per interessi particolari e perseguendo in politica estera una propria strategia che quasi sempre collideva con quella degli altri. Così: la Germania filo-croata apre all’Est per ritrovare un ruolo politico più attivo e non essere solo, come è stato detto, “la locomotiva economica dell’Europa restandone soltanto il treno merci”; la Francia filo-serba accetta l’allargamento solo nella prospettiva di un consolidamento dell’asse franco-tedesco alla guida della Comunità; l’Italia anti-Slovenia è a favore dell’allargamento a condizione che ci sia una UE più incisiva nel Mediterraneo ;la Gran Bretagna, che fa asse privilegiato con gli Usa, accetta l’allargamento solo perché pensa e spera che questo creerà ulteriori problemi all’Unione politica e che, perciò, trasformerà la UE in una semplice grande area di circolazione delle merci.

In una Europa che da sempre ha avuto il bisogno di essere ripensata e permanentemente in bilico è rimasta perciò sempre valida l’alternativa indicata a suo tempo da Husserl quando afferma che “la crisi dell’esistenza europea ha solo due sbocchi: il tramonto dell’Europa, nell’estraniazione rispetto al senso razionale della propria vita, la caduta nell’ostilità allo spirito e nella barbarie, oppure la rinascita dell’Europa dallo spirito della filosofia attraverso un eroismo della ragione”, avvertendo anche però che “il maggior pericolo dell’Europa è la stanchezza” (“La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale”).

3.- La “stanchezza” di cui oggi l’Europa viene accusata e lo scetticismo e la sfiducia che circolano al suo interno non c’è dubbio che vengano soprattutto dal suo allargamento. La grande questione della emersione di molte nuove identità politiche e della loro autoaffermazione, il problema della nazioni nate dalla fine dell’Urss e della Jugoslavia, l’obbligo di convivere con culture, storie, religioni, psicologie diverse rendono assolutamente evidente l’inadeguatezza delle risorse messe in campo. La miopia che quelle economiche, politiche e militari potessero bastare è stata totale. E in questa inadeguatezza sta trovando alimento la diffusa sfiducia non solo verso il disegno di una Europa unita ma verso l’Europa in quanto tale. Sulla scia di alcuni classici (Spengler, Bendà, Heidegger, Jaspers) sono tornate in auge le vecchie teorie scettiche e nichiliste sulla “finis europae”. La bocciatura della Costituzione europea nel 2005 da parte dell’Olanda e della Francia non ha certo contribuito a debellare il “bacillo” di questa sfiducia chiamato da Iwan Gall “eurococco”.

Certo, non è il caso di farsi annichilire dalla portata dei problemi, anche perché la storia e l’esperienza hanno dimostrato che in più di una congiuntura grave l’Europa ha saputo vincere battaglie che sembravano già perse e smentire ogni previsione sul suo crollo. Possiamo dunque essere d’accordo con Toynbee quando scrive che “sin dall’inizio questa singolare civiltà europea occidentale, sorta dai resti dell’Impero romano e in apparenza così poco promettente, ha ripetutamente smentito ogni ragionevole previsione sul futuro”.

Ma comunque sia occorre reagire al più presto e a non sottostimare la portata di problemi talmente complessi da indurre perfino Andrea Chiti-Bottelli, autorevole federalista della prima ora, a un forte scetticismo nel momento in cui ne elenca alcuni: “consolidare i regimi democratici dell’Est, garantire la sua sicurezza verso un terzo mondo ormai ‘preatomico’, affermare la sua indipendenza verso gli Stati Uniti, accogliere progressivamente nel suo seno i Paesi liberatisi dal socialismo reale, risolvere i conflitti etnici che l’insanguinano e –last but non least- mettere in opera un grande programma pluridecennale di redenzione del Terzo mondo e di lotta all’inquinamento”. Già da questo rapido elenco si comprende come l’Europa, per la sua grande storia, abbia obblighi e doveri che vanno ben al di là dei suoi confini geografici e sia chiamata a svolgere un ruolo globale che però non potrà svolgere contando solo sulle sue limitate risorse economiche , ‘politiche’ e militari.

4.- Nell’Europa di oggi proprio la UE deve saper attingere ad altre risorse, darsi una forte tensione ideale e puntare su valori che scavalchino gli interessi economici e politici immediati degli Stati che la compongono per diventare la comunità non solo di tutti gli Stati europei, ma di tutti gli europei e di tutti quelli che si riconoscono nella sua civiltà . Essa rappresenta una Europa la cui influenza non è limitata certo al suo perimetro fisico e politico. Gorbaciv considerava la Russia, estesa fino a Wladivostok e allo Stretto di Bering, parte integrante dell’Europa. E Curzio Malaparte fa dire ad un suo personaggio: “Ho bisogno dell’Europa per sentirmi americano”. Dunque, non sono né la sua economia né la sua politica la risorsa vera con cui l’Europa potrà svolgere il suo necessario ruolo planetario, ma la sua cultura (la sua civiltà). Nei “Quaderni” Gramsci definisce la cultura europea “la sola storicamente e concretamente universale” e tale non in quanto priva di differenze, ma perché risultato proprio di un miracoloso insieme di differenze storiche. Nessun’altra cultura al mondo è stata capace come quella europea di nutrirsi di molte altre culture senza identificarsi con nessuna di esse. Così precisa Gramsci: “Ammesso anche che altre culture abbiano avuto importanza e significato nel processo di unificazione ‘gerarchica’ della civiltà mondiale (e certamente ciò è da ammettere senz’altro), esse hanno avuto valore universale in quanto sono diventate elementi costitutivi della cultura europea”, “ in quanto cioè hanno contribuito al processo del pensiero europeo e sono state da questo assimilate” (p.1825).

Nessun primato appartiene all’Europa -né quello del ‘sangue’ vantato dal nazismo e dal fascismo; né quello politico vantato dai francesi ; né quello economico; né quello del peso demografico- se non quello culturale: di una cultura sintesi mirabile dell’apporto di molte culture e perciò impossibile da ridurre ad un’unica ascendenza. A partire da quasi quindici secoli prima di Cristo essa è stata “uno spazio multiculturale e multilingue”(P. Rubbia). Anche il grande storico Jacques Le Goff sostiene che l’Europa nasce “dalle migrazioni e dalle ibridazioni che ne sono derivate”. Essa ha prodotto “la civiltà classica, il Cristianesimo, il nesso Chiesa Impero, le grandi letterature nazionali, la grande filosofia e la grande arte, la scienza e la musica”. Se è vero che l’idea di Europa si precisa soprattutto nel Medioevo cristiano e cattolico, è anche vero però che lo stesso Medioevo è difficile ridurlo ad un’unica cultura. Esso è piuttosto una lunga stagione permeata da “una ibridazione multipla: fra cristianità e classicità, fra romanità e germanesimo, fra ‘barbari’ e civilizzati, fra paganesimo, cristianità (cattolica e protestante), ebraismo, islam, fra mondo latino e mondi non latini (anglo-scandinavo, austro-germanico, slavo)” (U. Cerroni). La pagana civiltà di Roma del resto segna profondamente lo stesso cristianesimo: la Chiesa utilizza ampiamente la tradizione giuridica romana tanto nella messa a punto del diritto canonico quanto nell’organizzazione della sua struttura gerarchica, adotta come lingua il latino, mutua la stessa terminologia della civiltà classica. Appare chiaro allora che nessuna cultura particolare può avere la pretesa di apporre un timbro distintivo sulla civiltà europea, neanche quella cristiana, pena una alterazione della sua natura più profonda.

5.- Non si può certo dire, però, che la cultura sia stata tenuta nel debito conto né dai ‘padri fondatori’, né dai successivi, né dagli attuali, dell’Europa unita. Nel Trattato di Roma essa è completamente assente. Successivamente però Jean Monnet biasima la grave omissione e giunge a dire: “Se dovessi ricominciare, ricomincerei dalla cultura” E’ stato solo col Trattato di Maastricht che si è giunti a dichiarare l’importanza della cultura nella costruzione dell’ unità europea. Esso infatti nell’articolo 128 recita: “La Comunità contribuisce al pieno sviluppo della cultura degli Stati membri nel rispetto delle loro diversità nazionali e regionali, evidenziando nel contempo il retaggio culturale comune”.

Stando così le cose, sarebbe davvero una rinuncia imperdonabile quella di continuare a non mettere al centro del confronto pubblico per costruire la nuova Europa il valore della nostra cultura come elemento fondante della nostra identità, capace, per il suo valore generale, di parlare al mondo intero e di proporre soluzioni valide alle sue inquietudini più profonde. L’Europa vera è quella della cultura perché la cultura ha già fatto l’unità europea. Come ha detto qualcuno, Dante, Michelangelo, Leonardo, Cervantes, Shakespeare, Copernico, Newton, Moliere, Beethoven, Kant, Mozart, Proust, Tolstoj, Kafka, Joyce, Picasso, Einstein (e tanti altri) “sono capitoli di uno stesso libro sul quale da tempo si formano le generazioni europee”.

Nell’era della globalizzazione, in un mondo diventato davvero ‘rotondo’, dove sempre più centro e periferia è difficile distinguerli, non ci sono problemi degli altri che non siano anche nostri e tali da coinvolgere sempre più la nostra individuale esistenza quotidiana. Per questo -e riprendo le parole di un mio intervento di non pochi anni addietro- a fronte della integrazione materiale del mondo occorre anche una sua unificazione spirituale che solo una grande cultura è in grado di operare. In un mondo in cui l’alternativa alla sua crescita culturale è rappresentata dal rischio di una regressione senza fine favorita paradossalmente dalle straordinarie potenzialità dei mezzi tecnici materiali a disposizione, il rilancio e la valorizzazione della cultura europea appaiono perciò -come è stato fatto rilevare acutamente- “una operazione di grande realismo politico: la più concreta scelta politica da fare” (U. Cerroni).

Egidio ZACHEO

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