Vergogna e caduta del fascismo

1.- Dopo la pubblicazione del suo ben documentato volume Totalitarismo 100. Ritorno alla storia (Salerno Editrice) sull’ascesa e l’organizzazione del fascismo, Emilio Gentile ci consegna anche la ristampa del suo lavoro del 2018 sulla caduta del regime, “25 luglio 1943”, nell’edizione speciale del “Corriere della Sera”. I due libri naturalmente per così dire ‘si tengono’: l’uno è l’arricchimento dell’altro. Ma mentre nel primo il rigore dello storico è la cifra caratterizzante esclusiva, nel secondo, oltre all’indiscutibile rigore, fa capolino anche il ‘narratore’. E’ questa una qualità inconsueta fra i nostri storici di professione, fra quelli cioè che non appartengono all’esercito sempre più numeroso dei giornalisti che all’improvviso scoprono di avere la vocazione dello storico. Il libro infatti si legge quasi come un giallo. L’attenzione del lettore è catturata dai continui colpi di scena di protagonisti fascisti devoti a Mussolini dalla prima ora che però nell’ora conclusiva non esitano a cambiare posizione con comportamenti ed argomenti imprevedibili. E’ chiaro che all’occhio attento dello studioso tutto questo non costituisce una divagazione letteraria, ma serve per capire e per meglio spiegare quanto fragile, improvvisato, superficiale, elementare, opportunistico fossero il retroterra ideologico-culturale e i convincimenti politici della quasi totalità della classe dirigente fascista.

La caduta del fascismo ha ragioni profonde, strutturali, interne al regime. Vengono in mente, a tale proposito, le parole di Gramsci allorchè nei Quaderni, chiedendosi appunto se il fascismo avesse un qualche legame organico non solo con quella piu’ recente ma con l’intera storia d’Italia, risponde che lo sbocco fascista-nazionalistico è senz’altro “anacronistico e antistorico (cioè artificioso e di non lungo respiro); esso è realmente contro tutte le tradizioni italiane, romane prima, cattoliche poi. Le tradizioni sono cosmopolitiche” (pp.1197-1198).

All’esito della riunione del Gran Consiglio del 25 luglio 1943 hanno certamente concorso anche numerose cause ravvicinate e immediate (l’andamento fallimentare della guerra già dopo il primo disastro militare in Grecia; l’instabilità politica conseguente alle leggi razziali; la conflittualità sociale con gli scioperi del marzo-aprile del ’43; lo sbarco degli alleati in Sicilia; il bombardamento di Roma del 19 luglio; il fallimento dei colloqui a Feltre fra Mussolini e Hitler), ma si può ritenere che tutti gli anni trenta costituiscano una lunga ‘preparazione’ verso la fine del regime. Un poco alla volta ma in modo sempre più evidente emerge la sua inconsistenza politica e culturale alla quale banalmente pensa di poter dare un qualche rimedio accentuando la sua crudeltà e vanagloria.

2-. Il regime raggiunge il culmine del consenso con gli “Accordi Lateranensi” dell’11 febbraio 1929 con i quali avviene la conciliazione fra Stato e Chiesa (con i due punti essenziali del riconoscimento dello Stato italiano della sovranità temporale del papa sui territori della Citta’ del Vaticano e della religione cattolica quale religione di Stato). Si tratta di una legittimazione importante a tal punto da spingere Pio XI a definire Mussolini “uomo della Provvidenza” e a far dire a Churchill che se fosse stato italiano sarebbe stato senz’altro fascista. Mussolini indice nel marzo del ’29 nuove elezioni con un legge elettorale truffaldina che gli consente di vincere con 8.506.576 voti favorevoli e 136.198 contrari. Attorno alla figura del duce si condensa un vasto, anche se epidermico, consenso che in quel momento fa sembrare anomala ogni dichiarazione di antifascismo. Nelle università solo 12 professori su 1225 si rifiutano di prestare giuramento di fedeltà al Duce, secondo l’obbligo previsto dal regio decreto 1227 del1931. Si tratta di una vergogna storica della nostra cultura accademica che bisognerebbe rammentare permanentemente alle nuove generazioni mettendo in ogni ateneo una targa con i nomi di quei dodici docenti (qualche scettico ritiene che ancora oggi, nella medesima situazione di allora, non sarebbero percentualmente molti di più). Noi sentiamo il bisogno di ricordarli anche qui. Sono: Francesco Ruffini (piemontese, giurista); Mario Carrara (emiliano, medico); Lionello Venturi (emiliano, storico dell’arte); Gaetano De Sanctis (romano, storico dell’antichità); Piero Martinetti (piemontese, filosofo); Bartolo Nigrisoli (emiliano, medico); Ernesto Buonaiuti (romano, storico del Cristianesimo); Giorgio Errera (triestino, chimico); Vito Volterra (marchigiano, matematico); Giorgio Levi della Vida (veneziano, orientalista); Edoardo Ruffini Avondo (piemontese, giurista); Fabio Luzzatto (friulano, giurista). Altri quattro lasciarono l’insegnamento per il loro credo antifascista: Giuseppe Antonio Borgese (siciliano, scrittore); Francesco Saverio Nitti (lucano, economista); Vittorio Emanuele Orlando (siciliano, giurista); Gaetano Salvemini (pugliese, storico).

Convinto di possedere una propria solida, autonoma, capacità ideologica, il regime legge il momento come assai favorevole per puntare ad esercitare, oltre a quella politica, anche una egemonia culturale. Il riferimento al pensiero di Giovanni Gentile diventa il cardine di questa operazione. Si tratta però del pensiero elaborato da Gentile in tempi passati, relativo alla sua riflessione sulla vera natura dello Stato liberale. Così l’‘illusione’ del fascismo di costituire anche una novità teorica si rivela solo appunto un’illusione, essendo per così dire solo una ‘derivazione’ ed un ‘arricchimento’ della vocazione autoritaria insita nello stesso liberalismo. Lo Stato etico fascista, che assorbe il cittadino e lo annulla, è “l’istanza dello Stato come sfera sostanzialmente presupposta al popolo” (U. Cerroni) presente, infatti, anche nel liberalismo. Il Gentile de la ”Teoria generale dello spirito come atto puro” (1916) e de “I fondamenti della filosofia del diritto” (1916) che ragiona sul liberalismo basta e avanza per un fascismo culturalmente sterile e documenta esaustivamente la stretta connessione esistente fra il regime in atto e quello che lo ha preceduto. Lo stesso fiore all’occhiello del regime della riforma scolastica, basata su una pedagogia idealistica e una concezione classista della scuola, appartiene al pensiero di Gentile degli anni dieci. In letteratura si prende a modello il decadentismo e vitalismo di D’Annunzio senza che questi abbia però scritto nulla per il nuovo regime, nemmeno un rigo e, dunque , con una produzione relativa solo ad un contesto ‘liberale’.

3.- Sul piano culturale, dunque, nonostante improbabili ambizioni egemoniche, il fascismo non produce pressoché nulla e per dare prova della sua “esistenza in vita” sul piano ideale riveste i cardini tradizionali del liberalismo (proprietà privata, Stato nazionale, governo di elité, ecc.) di “una concezione ‘comunitaria’ che è esclusivamente politica e che si traduce nel primato della dedizione, della fedeltà, della gerarchia politica” (Cerroni). Si tratta di miti -di una mitologia- che diventano le uniche ragioni di sopravvivenza ideale del regime e che il regime cerca di affermarli con la forza. La forza diventa il suo pensiero. La più diffusa frase del duce riportata su molte nuove opere pubbliche era: “Meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora”. All’assenza di pensiero si supplisce con molte simili insensatezze e frivolezze e gonfiando il petto. “ Il volto ufficiale dell’Italia fascista era dunque marziale o, come si diceva, ‘littorio’; i suoi eroi erano i trasvolatori dell’Atlantico e gli assi dell’aviazione, i Balbo, i De Pinedo”. (G. Procacci) La vera produzione culturale del tempo gira al largo dalle pretese del regime. A mo’ di esempio, nella sua Storia degli italiani, Procacci segnala come Pirandello, che pure aveva firmato il gentiliano manifesto degli intellettuali fascisti, “aveva popolato i suoi lavori teatrali di un’umanità di borghesi disillusi e allucinati”. Come un giovane Moravia nel suo Gli indifferenti “dette della borghesia del tempo fascista, del suo cinismo e della sua povertà intellettuale, una pittura diretta, senza possibilità di equivoci”. Come Montale cantò il male di vivere e ad esso oppose il “prodigio della divina indifferenza”. E, per finire, come Morandi, con le sue nature morte e le sue bottiglie, “offriva una lezione di rigore e di castigatezza che suonava implicitamente come una protesta contro la retorica e il frastuono dell’ufficialità”. E intanto Petrolini portava sulle scene “la macchietta di Gastone, il figlio di papà inetto e viziato” e fioccavano numerose le barzellette sul regime. Il giudizio riassuntivo che dà del fascismo Procacci è impietoso. Così scrive: vi era “più volgarità, più corruzione, una corruzione che aumentava sino a divenire quasi un’istituzione. Gli ‘ homines novi’ -i cosiddetti gerarchi- erano per lo più dei ‘parvenus’, dai gusti grossolani e dalla cultura approssimativa. Tali erano Farinacci, uomo facinoroso e volgare e Achille Starace, degno oggetto delle più salaci e indovinate storielle contro il regime”.

4.- Per il regime totalitario la situazione comincia a peggiorare già nel ’30, con la grande crisi economica che colpisce gli Stati Uniti e l’intero Occidente. Anche il nostro Paese, inevitabilmente, subisce conseguenze pesanti: dal calo drastico della produzione alla disoccupazione massiccia, alla fame perfino. Alcuni dati: l’indice del reddito nazionale pro capite scende dalle 3.079 lire del ’29 alle 2.868 del ’33; la disoccupazione dalle 300.000 unità del ’29 sale a 1.019.000 unità nel ’33; tra il ’29 e il ’32 l’industria automobilistica dimezza la produzione e quella dell’acciaio scende da 2.122.194 a 1.396.180 tonnellate.

Il tentativo messo in atto dal regime di rimediare intensificando ulteriormente la politica dei lavori pubblici (sventramento del centro di Roma; prosciugamento delle paludi Pontine) non poteva bastare (e difatti non bastò) perché si trattava di misura funzionale ad una situazione che per essere risanata richiedeva invece una politica economica opposta a quella, sempre perseguita, della tutela ad oltranza delle grandi nucleazioni economiche. Lo Stato viene ancora una volta piegato agli interessi degli industriali e interviene sistematicamente per salvare le industrie private. Il protezionismo ‘autarchico’ con conseguente dilatazione della spesa pubblica (basti pensare che molti prodotti della siderurgia nazionale superavano dal 50 al 100 per cento quelli dell’industria straniera) diventa la scelta strategica che porterà ad un ulteriore aumento della disoccupazione e ad un consistente ulteriore abbassamento dei salari e dei consumi popolari. L’organizzazione del mondo del lavoro in Corporazioni, mediante la quale lo Stato si proponeva quale mediatore tra datori di lavoro e lavoratori -soprattutto per cercare di rassicurare quest’ultimi-, e, perciò, arbitro al di sopra tanto del liberismo capitalistico (si pensi al discorso di Mussolini del 1934 agli operai di Milano) quanto dello statalismo socialista, si rivela una ‘invenzione’ stravagante e ridicola essendo da tempo il potere effettivo nelle mani dei gruppi finanziari e delle concentrazioni economiche. Nato storicamente come funzione, strumento, del capitalismo minacciato dalla democrazia e dal socialismo emergente, per il regime era impossibile che il suo “Stato corporativo” superasse le fratture e le macroscopiche diseguaglianze della società privatistica rifugiandosi nella mitologia dello “Stato del lavoro” di Gentile che prevede non una possibile ‘liberazione’ delle attività sociali ma una loro premoderna vincolazione. Così scrive Adriano Tilgher, un filosofo firmatario del manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce: “La teoria di Gentile tende a stabilire una differenza di natura tra Lavoro e Cultura: questa, autonoma; quello, eteronomo; questa, disinteressata; quello, interessato; questa, universale e spirituale; quello, particolare e materiale: Dal che, a fil di logica, deriverebbe una divisione della società in caste: gli uni che lavorano perché gli altri possano pensare e contemplare. E’, in fondo, un ritorno alla giustificazione aristotelica della schiavitù”.

5.- Per risalire la china di una popolarità nettamente in calo, il regime cerca una disperata affermazione di prestigio in politica estera e, per questo, aggredisce l’Etiopia (1935) occupandone la capitale Addis Abeba. Con questa operazione ci fu effettivamente una rapida risalita della sua popolarità : nelle strade, specialmente del Sud, si canticchiava con soddisfazione la canzonetta “Faccetta nera”. Dal balcone di Palazzo Venezia, con molta prosopopea ed incoscienza, il 5 maggio 1936 Mussolini proclamò addirittura l’avvenuta realizzazione di un impero italiano, non rendendosi conto che l’idillio ritrovato era destinato a durare assai poco. Le scelte colonialiste, infatti, portarono il Paese alla rottura con Francia e Regno Unito e al suo isolamento dal mondo civile, rendendo così inevitabile l’alleanza col nazismo.

Mussolini e Hitler, alleati contro il resto del mondo, faranno precipitare l’umanità in abissi inenarrabili. Il fascismo, privo di risorse materiali e umane, intellettuali e diplomatiche, saprà soltanto accentuare il suo carattere autoritario e totalitario, violento, a tal punto da imporlo come principio pedagogico perfino ai bambini della scuola elementare. In un libro di lettura per la classe terza elementare pubblicato nel ’36 si possono leggere, non senza enorme sgomento, queste parole: “Manganello, Manganello/ che rischiari ogni cervello, / mai la falce ed il martello/ su di te trionferà. / Manganello, Manganello/ che rischiari ogni cervello,/ ogni eroe nel suo avello/ l’opra tua benedirà” (in “Corriere della Sera’, 24-1-’24).

In tutti gli anni Trenta -dunque già prima del varo della famigerata e nota legge “Provvedimenti per la difesa della razza italiana” del 17 novembre 1938 n.1728-, il regime alimenta un razzismo perfino più odioso di quello nazista. Nel ’37 si fanno le prove generali contro gli africani delle colonie, ritenuti di razza inferiore. Il 14 luglio 1938 viene pubblicato il “Manifesto degli scienziati razzisti”, ispirato direttamente da Mussolini e dove è detto espressamente: “E’ tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti. Tutta l’opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo. Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del Capo il richiamo ai concetti di razza”. Il mese successivo (22 agosto), proprio per poterli colpire con la massima efficacia, viene effettuato il censimento degli ebrei in Italia. Di lì a pochi giorni (5 settembre), con il R.D.L. n. 1390 “Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista”, si ordina l’allontanamento da ogni scuola del Paese degli insegnanti e alunni ebrei. Il 26 ottobre il Gran Consiglio del fascismo, con la propria “Dichiarazione sulla razza”, dà con la massima precisione tutte le indicazioni per il varo della barbara legge n.1728. Ai Repubblichini che, nei nostri tempi, reclamano il diritto di essere anche loro ricordati – al pari dei partigiani- come combattenti per un ideale, è bene rammentare, tra l’altro, che nel loro “Manifesto di Verona” del novembre del ’43 si dice espressamente che gli ebrei “appartengono a nazionalità nemica” e nell’ordinanza della loro polizia del 1° dicembre successivo che “tutti gli ebrei debbono essere inviati in appositi campi di concentramento”. Come sollecita a fare Emilio Gentile, su questo punto, dunque, sarebbe opportuno porsi tutti -in primo luogo proprio i ‘negazionisti’ del fascismo come regime barbaro e crudele- l’interrogativo: “Se il totalitarismo fascista fu solo una abbronzatura in camicia nera, perché torniamo continuamente a parlarne? Come è possibile che il periodo più incisivo nella storia dell’Italia unita e nella coscienza nazionale siano stati i ventitre anni di dominio fascista e non i precedenti sessant’anni di monarchia liberale o i successivi settantasette di democrazia repubblicana?”

La legislazione razzista e la guerra con le loro efferatezze susciteranno contro il regime un sentimento di profonda avversione nel popolo italiano e, perfino, in parte della stessa gerarchia fascista che con il “Gran Consiglio” del 25 luglio 1943 farà decadere Mussolini da Presidente del Consiglio dei Ministri, accelerando così la chiusura di una pagina tragica della nostra storia.

Dalla tragedia del fascismo l’Italia uscirà ricostruendosi moralmente e politicamente attorno ai valori dell’antifascismo e della democrazia e consegnando alle nuove generazioni una Carta Costituzionale tra le più lungimiranti e avanzate del mondo.

Egidio ZACHEO

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