Via Rivolta

Dopo la morte della mamma e la vendita dell’appartamento in cui aveva vissuto fino alla fine dei suoi giorni, non sono tornato molte volte in via Rivolta, 44. E anche quando ci sono passato in auto l’ho fatto velocemente quasi senza guardare.

Eppure ero giunto lì con tanta gioia, insieme a mia madre, nel gennaio del 1960 direttamente dalla stazione ferroviaria, dopo un lungo viaggio da Potenza.

All’andata, nel novembre del ’59, era partita tutta la famiglia, in seguito alla morte del nonno materno. A dicembre, erano tornati mio padre e mia sorella Maria Antonietta proprio per attendere al trasloco dalle Casermette alle nuove e confortevoli case popolari di via Rivolta.

Il trasloco era avvenuto in una gelida giornata invernale e Maria Antonietta, come avrebbe fatto per tutta la vita, era stata a fianco di papà, aiutando lui e gli altri uomini impegnati nelle operazioni di caricamento dei mobili e delle suppellettili.

Come benvenuto poi per il nostro ritorno aveva addobbato l’albero di Natale e allestito il presepe nella cucina della nuova casa, accanto alla stufa, che una volta accesa aveva reso l’ambiente caldo e confortevole.

Ricordo le castagne arrostite su quella stufa a legna e carbone, ma soprattutto ricordo il viaggio di ritorno da Potenza ad Alessandria, su una vecchia carrozza di terza classe, con i sedili di legno, trasformata in vagone di seconda cambiando solo il numero.

Rammento i campi innevati attraversati dal treno e alcuni militari, forse in licenza, che pochi sedili più indietro suonavano l’armonica a bocca.

La mamma, per non farmi annoiare, mi indicava continuamente gli alberi, le case e i paesi innevati che velocemente scorrevano davanti a noi.

Ricordo anche due controllori che frequentemente passavano a obliterare i biglietti, anche se sulla carrozza eravamo rimasti solo mia madre e io, tanto da sembrare avere più l’intento di importunare una donna sola con un piccolo che non di svolgere la propria mansione.

Alla stazione di Alessandria non c’era nessuno ad aspettarci, quindi prendemmo un taxi per andare in piazza Goito, dove mio padre prestava servizio. Finalmente, da qui, in tre, ci recammo in via Rivolta, nella nuova casa.

Quando vi giungemmo, ricordo la gioia della mamma, una abitazione luminosa, con tante camere e soprattutto con i servizi igienici non più in strada, come alle Casermette.

All’inizio anche io fui felice, ma quando notai la ringhiera al balcone e soprattutto l’impossibilità di accedere facilmente al cortile, come invece accadeva nella vecchia casa, iniziai a piangere e a ripetere:” Voglio tornare a casa mia. Voglio tornare a casa mia.”

E non fui l’unico fra i ragazzi e i bambini di via Rivolta a rimpiangere la vecchia casa e a vederla come un Eden perduto, dato che muri di recinzione, reti e inferriate toglievano quel senso di libertà che avevamo respirato fino a poco tempo prima fra gli orti, i piccoli prati e gli alberi delle Casermette.

Non tornai più a “casa”, rimasi in via Rivolta, al numero 22 (oggi 44), allora ai confini della città. Eh sì, perché quando andammo ad abitarvi, lì finiva Alessandria e fino agli inizi del 1963 non avemmo neppure la strada asfaltata.

Via Rivolta divideva la città da un mondo che, ai nostri occhi di bambini, appariva tutto da scoprire. Un mondo fatto di campi, boschetti, piccoli stagni, cascine isolate e qualche lontana discarica.

Un mondo che celava grandi segreti, come il forte Ferrovia. E proprio per questo i miei coetanei, spesso veri e propri discoli, uscivano dal cortile e si spingevano lontano nelle campagne, a volte giungendo in qualche discarica isolata, dalla quale tornavano con alcuni trofei: vecchi fumetti o un antico soprammobile in parte scheggiato.

Da una di queste spedizioni i miei amici Angelo, Luigi, Franco e Riccardo, di poco più grandi di me, avevano nove o dieci anni, mi portarono tre vecchie monete, trovate chi sa dove. Vedendole, avevano pensato a me. Da quel giorno è nato il mio interesse per la numismatica.

Quanto avrei voluto essere dei loro, partecipare alle battaglie fra bande, tirando con la fionda (che comunque possedevo), ma mi era proibito uscire dal cortile e fare certe cose. Mia madre o mia sorella si affacciavano quasi ogni ora alla finestra di casa, chiamandomi e io dovevo rispondere e farmi vedere, qualunque cosa stessi facendo.

Da quel cortile vidi il susseguirsi delle stagioni, dagli inverni freddissimi e nebbiosi, una nebbia tanto fitta da non scorgere a volte il palazzo di fronte, alle primavere ed estati tripudianti di verde e di sole. Ma vidi anche altri mutamenti. A poco a poco, i campi, i boschetti e le cascine isolate lasciarono il posto a nuovi condominii, strade e addirittura ad un nuovo quartiere, separato dalla Pista da corso Romita. E così ciò che era stato il regno della mia infanzia e della mia fantasia scomparve coperto da asfalto e cemento.

Ma negli anni tutto è cambiato, anche le persone.

All’inizio, gli abitanti provenivano dalle Casermette, dal Distretto o da altre zone del centro in cui occupavano residenze precarie. In buona parte erano meridionali, in maggioranza giunti a nord in cerca di fortuna, ma c’erano anche molti settentrionali, rimasti senza casa a causa della guerra o giunti in Piemonte per le motivazioni più diverse. Fra loro erano presenti anche profughi istriani in fuga dalla Iugoslavia di Tito.

Questo insieme, nel bene o nel male, divenne comunità. E la comunità fece sentire la propria presenza nei momenti gioiosi e in quelli tristi.

Quando, nel 1963, Pasquale vinse 4 milioni di lire, cifra considerevole in quell’epoca, i più si rallegrarono e lui offrì a tutti i condomini delle scale A, B e C di via Rivolta, 22 un rinfresco.

Nel 1973, il piccolo Valentino ebbe una crisi respiratoria. Il primo a soccorrerlo e ad aiutare la madre fu mio padre, che, temendo un guasto o un incidente, seguì con la propria auto al pronto soccorso quella dei genitori.

Un momento aggregante era la partita di calcio che si giocava in cortile, allora libero dalle automobili, dopo cena, in estate, nei primi anni Sessanta.

I ragazzi più grandi organizzavano due squadre e si contendevano la vittoria finché non scendeva l’oscurità. Giocavano con passione e con passione venivano seguiti dagli inquilini affacciati alle finestre o seduti, al fresco, sul balcone.

Le partite erano avvincenti anche perché i giovani non si limitavano a giocare gagliardamente, ma coinvolgevano alcuni adulti del cortile ritenuti da loro particolarmente bravi nel palleggio e ciò faceva sì che i familiari di questi ultimi manifestassero un tifo particolarmente vivace.

Uno degli adulti era mio padre: “Signor Arturo scenda a giocare con noi!” Lo incitavano i giovani e lui scendeva in cortile senza indugio, salvo fermarsi alla fine del primo tempo a causa del fiatone.

Eravamo comunità anche nel male. Nella mia scala viveva una coppia a dir poco particolare. Lei, con la legge Merlin, era riuscita a trovare un posto in fabbrica, mentre lui, allontanato dallo stabilimento dove lavorava, perché attaccabrighe, dopo tante peripezie aveva trovato un’occupazione come uomo di fatica in una ditta di traslochi.

Erano due caratteri molto diversi, accomunati solo da una cosa: l’alcool. Erano due etilisti. Alla fine della giornata perdevano il controllo e cominciavano ad insultarsi e a darsele di santa ragione.

Disturbavano quando bisticciavano in casa, ma diventavano fastidiosi e a volte pericolosi quando uscivano sulle scale, importunando qualche inquilino.

Allora dagli appartamenti spesso uscivano gli altri condomini a dare man forte al malcapitato.

Più di una volta però si rischiò di andare oltre e più di una volta accorse la forza pubblica, senza però poter fare più di tanto. All’inizio erano un incubo, poi negli anni mi ero talmente abituato ai loro litigi che non riuscivo ad addormentarmi se non li sentivo urlare, con le voci sempre più impastate e affievolite dal vino e dall’avanzare dell’età.

Quando si stabilì presso di loro la madre di lei, fece fronte comune con la figlia negli alterchi, apostrofando a volte il genero con il termine “gaglioffo”. In tutta la mia vita, a parte la letteratura e a teatro, ho udito pronunciare questo termine nella quotidianità soltanto da quella anziana signora residente alle case popolari.

Siamo stati comunità per tanti anni. Poi i giovani si sono allontanati, creando una propria famiglia, io stesso mi sono trasferito altrove, quindi molti anziani, un tempo giovani, se ne sono andati via per sempre.

Della mia vecchia comunità sono ormai in pochi: alcuni anziani e qualche “giovane”, rimasto al 44 di via Rivolta oppure tornato nella casa paterna a causa delle vicissitudini della vita.

Ora c’è una nuova comunità, formata da gente di altri paesi europei o di altri continenti, che poco lega con i vecchi abitanti. Eppure gli inquilini di oggi hanno le stesse necessità di quelli di ieri e le case popolari di via Rivolta svolgono sempre la stessa funzione, dare un tetto a chi non l’ha.

Passo poco ormai da quelle parti, soprattutto a piedi, ma quando mi capita di farlo e di incontrare qualche vecchio conoscente, mi fermo a scambiare quattro chiacchiere sulle ultime novità del posto.

A volte vedo Nunzia, dietro i vetri della finestra del proprio appartamento, al piano terra, che dà sulla via.

Ormai è una bisnonna, ma per me è ancora la bella ragazza di un tempo poco più che ventenne però già mamma di tre bimbi.

Recentemente l’ho incontrata, era affacciata alla finestra e mi sono fermato per chiederle come stesse. Mentre parlavamo è passata Anna, quasi mia coetanea, tornata ad abitare al numero 44 con la nuova famiglia, che si è unita alla conversazione, inevitabilmente caduta sui vecchi conoscenti, su come stessero e cosa facessero.

Ma fatti pochi nomi mi sono reso conto che dei “vecchi” ne erano rimasti ben pochi e allora sono stato preso da una sensazione di malinconia e dal pensiero di appartenere, insieme alle mie interlocutrici, a un mondo che non esisteva più.

Egidio Lapenta

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