Violante e la democrazia dei doveri

Stiamo vivendo tempi in cui la democrazia non se la passa molto bene. I sistemi democratici non solo non riescono ad apparire come modelli da imitare ma, anzi, sono considerati incapaci di dare risposte adeguate alle comunità. Si tratta sicuramente di un fenomeno che deve allarmare molto. Ancora agli inizi di questo secolo ben 119 Paesi, sui 190 presenti nel mondo, erano governati da democrazie ed era ‘democratica’ il 67% della popolazione mondiale. A distanza di appena vent’anni la situazione si è capovolta. I dati che Luciano Violante fornisce nel suo ultimo pamphlet, “La democrazia non è gratis. I costi per restare liberi” (Marsilio, pagg.128), sono da brivido: “Solo il 20% della popolazione mondiale vive oggi in una democrazia, mentre il 38% si trova in totale assenza di libertà. Il 42% vive in regimi parzialmente autoritari” (p.19).

Cosa è accaduto in due decenni di tanto grave e radicale da determinare una inversione di questa portata? Proprio a questa domanda Violante cerca di dare una risposta e lo fa muovendosi su due piani che, inevitabilmente, si intersecano: su quello della crisi generale della democrazia e su quello della crisi della democrazia nel nostro Paese. Bisogna dire subito che, però, le poche pagine che ci offre non appaiono adeguate alla portata (enorme e complessa) del problema. Più che cercare di comprendere i processi materiali che hanno generato le nuove forme storiche assunte dal potere, Violante spiega l’arretramento della democrazia enfatizzando l’aspetto etico ad essa connesso ed ampliando la consueta rassegna delle sue ‘promesse non mantenute’. La dimensione valoriale “tradita” diventa così prevalente, quasi esaustiva. Naturalmente non si vuol dire che questa non abbia la sua importanza, ma certamente va portata alla luce la durezza di altre cause. Invece, secondo Violante, dopo la caduta del Muro di Berlino che ha segnato “il trionfo dell’Occidente”, i leader occidentali anziché preoccuparsi “di consolidare i valori che li avevano fatti vincere” (p.54) hanno oscurato “l’assolutezza” (p.63) di quei valori ripiegando su “un’idea relativistica della democrazia, come insieme di regole che si rispettano finché conviene” (p.64). Addirittura un intero capitolo è dedicato alle “nostre presunzioni”, all’orgoglio eccessivo dell’Occidente e al narcisismo di una civiltà che ha fatto l’errore capitale, partendo dal mito greco, di aver preferito “lo scaltro Ulisse all’onesto Palamede”: cioè, l’intelligenza all’onestà, la curiosità per la conoscenza alla generosità.

Obiettivamente, non paiono, queste, armi proprio efficaci per aggredire un fenomeno di valore epocale. Ma Violante passa senza titubanze dall’elencazione dei ‘fondamenti’ morali dei regimi democratici a quella dei comportamenti virtuosi dei cittadini: perchè le democrazie funzionano “quando i cittadini si assumono fino in fondo le proprie responsabilità” (p.10). Egli dichiara esplicitamente che il libro propone, per superare le nostre attuali difficoltà, ” una via ispirata non al nomos ma alla paideia, non al comando della legge ma alla persuasione dell’etica civile”(p.10). Ci immerge quasi del tutto nella dimensione del dover essere che però non riesce a dare conto di quella dell’essere. Il cittadino virtuoso diventa il suo obiettivo. Tocca innanzitutto a questi transitare dalla dimensione dei diritti a quella dei doveri perché proprio “i doveri sono il costo della democrazia” (p.104).

A questo punto ci sarebbe da chiedere a Violante: dove sono i vantaggi concreti della democrazia? Devo sceglierla solo perché è più virtuosa della tirannide? Viene saltata, come si vede, la grande novità storica della democrazia capace di darci lo Stato sociale, storicamente sinonimo di miglioramento netto delle condizioni di vita per tutti (specialmente per i ceti subalterni). Violante sembra essere più vicino al cielo che alla terra. L’assunzione dello scopo politico della democrazia della “vita buona”, già indicata dai classici, lui la legge ancora come l’ideale medievale della pax et iustitia anzichè come obiettivo dinamico capace di deformalizzare il vecchio impianto privatistico. Non riuscendo a cogliere le dinamiche storico-materiali, le nuove dislocazioni delle potenze economiche e politiche, egli solo qualche volta scende sulla terra ma per rifugiarsi nella modellistica, vale a dire proprio nella dimensione più arida del potere, e ci fa sapere che è (giustamente) contro il presidenzialismo.

Il libro non dice niente sul rapporto fra disincanto verso la democrazia e globalizzazione: rapporto che è la vera questione della tenuta democratica dei regimi. Non dice niente sulle colossali conseguenze per la democrazia della evaporazione della dimensione territoriale della politica. Sulla pervasiva penetrazione della ricchezza nei meccanismi della decisione. Su un mercato mondializzato che debilita la capacità regolativa della norma fatta dalla politica rispetto alla potenza aliena della lex mercatoria. Le promesse non mantenute della democrazia segnalate con molta enfasi da Violante sono poca cosa rispetto alle conseguenze derivanti da una economia che si fa immediatamente politica e di una politica fatta immediatamente dall’economia. La novità dei tempi con cui la democrazia deve fare i conti per sopravvivere è legata dunque “ad una progressiva privatizzazione della politica che sgonfia la democrazia, accorcia la distanza tra Stato e proprietà e determina l’opacità della sfera pubblica”(M. Prospero). La conseguenza è un clamoroso divorzio fra politica e vita. Il denaro che diventa direttamente potere conferisce una disparità di risorse politiche a danno del cittadino, per cui, come dice A. Touraine, “non è possibile sopprimere l’autonomia della sfera politica senza consegnarsi, con ciò, al potere autoritario”.

E’ questo che spiega la disaffezione verso la democrazia: il disincanto, la frustrazione, il risentimento, l’astensionismo del cittadino che percepisce di contare sempre meno. Ma in Violante c’è solo qualche accenno a questo processo di progressiva identità, che tendenzialmente azzera il cittadino, fra ricchezza e potere politico. Efficace, però, appare -bisogna riconoscerlo- la sua rapida riflessione sia sui “nuovi mediatori” globali (Microsoft, Amazon, Google) sia sulla degenerazione della politica determinata dalla ‘discesa in campo’ di Berlusconi. Sui primi scrive: “Non hanno indirizzo, non hanno sedi, …procedimenti conoscibili e democratici, non hanno statuti visibili. In cambio diventiamo merce, consegnando loro gratuitamente e liberamente tutti i nostri dati”(p. 99). Sul secondo dice che, con lui, la politica “comincia ad assumere i caratteri di una spregiudicata televendita” e che “si indebolisce l’idea che la politica debba avere l’ambizione di costruire la nazione”(81).

Dunque, per difendere la democrazia non basta essere più responsabili e disponibili a necessarie rinunce, ma occorre intervenire sui concreti processi materiali. Come, con efficacia, scrive il politologo britannico David Held nel suo “Modelli di democrazia”, per il potenziamento del progetto democratico sono fondamentali “la necessità di trasformare aspetti della proprietà e il controllo sui sistemi produttivi e finanziari”.

Egidio Zacheo

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