«What is Left?»: il presente e il futuro della sinistra

Dunque, destra e sinistra esistono ancora? E se esistono ancora, e tengono il campo, come si può dire che hanno perduto il loro significato? E se hanno ancora un significato, qual è?
Norberto Bobbio, Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, Donzelli Editore, Roma 1994

Chissà cosa avrebbe scritto Norberto Bobbio (1909-2004) sull’attuale situazione politica e sulle “Ragioni e significati di una distinzione politica”. Ci soccorre, in parte, la lettura del recente libro del professor Gianfranco Pasquino[1], laddove ci rammenta come “Destra e Sinistra”, sia stato ispirato “dagli echi del dibattito internazionale, segnato dalle preoccupazioni di molti intellettuali sull’incerto futuro della sinistra, ripetutamente sconfitta in molte elezioni nelle più importanti democrazie occidentali, (echi che) giungevano fievoli nel contesto italiano”. “Destra e Sinistra” sarebbe stato scritto con l’intento di fornire una risposta al quesito “dal duplice e suggestivo significato” «What is Left?»,[2] e “con grande sorpresa dell’autore”, il libro è stato premiato da un successo immediato e duraturo. Tant’è vero che a distanza di un quarto di secolo dalla sua prima edizione merita tutt’oggi di essere riletto e meditato.

Non intendo affatto rubare il mestiere a quanti, siano essi filosofi (Massimo Cacciari), politici (Luciano Violante), storici (Ernesto Galli della Loggia), politologi (Angelo Panebianco) ed economisti (Michele Salvati) i quali, con la consueta chiarezza, competenza e precisione circa l’incerto (presente) e il futuro della sinistra italiana, si sono già espressi sui principali quotidiani. Mi limiterò pertanto a chiosare quanto Gianfranco Pasquino scrive sui criteri utilizzati da Bobbio “per distinguere la destra dalla sinistra”: “La sinistra (…) mira a ridurre le disuguaglianze e a perseguire e conseguire l’eguaglianza, mentre la destra prende atto dell’esistenza di disuguaglianze e può giungere a valutarle positivamente come premessa e come esito della competizione sociale ed economica” (p. 10).

Il modo di porsi di fronte alle disuguaglianze è senza alcun dubbio un criterio assai efficace nel contesto dell’analisi filosofico-politica, basti pensare ai diritti umani universali, alle disuguaglianze di genere, ma anche alle disuguaglianze economiche e sociali che si sono enormemente ampliate nell’ultimo mezzo secolo di “globalizzazione senza regole” (ma non solo), come da tempo va sostenendo il Premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz.[3] E tuttavia, un elettore che si riconosca in quei principi di «etica liberale» per i quali destra e sinistra possedevano un significato, in termini di policy, immediatamente riconoscibile, “più stato” (per la sinistra) e “più mercato” (per la destra), quell’elettore fatica oggi a riconoscersi in entrambi gli schieramenti, allineati come sono sul “pensiero unico neo-liberista”, incentrato (e a difesa) della infallibilità “dei mercati”.[4] Anche in questo caso ci soccorre un piccolo, ma estremamente interessante libricino[5], nel quale l’economista Francesco Saraceno, Vice Direttore del centro di ricerca sulle congiunture economiche di Sciences Po a Parigi ─ dove insegna Macroeconomia internazionale ed europea ─, ha raccolto tre brillantissimi saggi di John Maynard Keynes. Nella Lezione che introduce il volume, Saraceno chiarisce in maniera estremamente efficace il diverso significato che la Politica economica (la policy) assume, sia nell’accezione keynesiana che in quella del Nuovo Consenso incentrata sul paradigma dell’efficienza dei mercati, oggi prevalente a destra come a sinistra (basti pensare alle misure volute e introdotte dal Governo presieduto da Matteo Renzi).

Nell’ottica del Nuovo Consenso, scrive Saraceno, “i governi dovrebbero seguire delle regole di politica di bilancio e monetaria chiare e prevedibili (sostanzialmente stabilizzare prezzi e bilancio pubblico), in modo da ridurre l’incertezza e permettere ai mercati di convergere più in fretta verso l’equilibrio naturale. Come nel vecchio modello prekeynesiano, lo strumento di politica economica per eccellenza è costituito da misure ottimali e universali, le cosiddette riforme strutturali, che consentono di aumentare la crescita di lungo periodo avvicinando il sistema economico all’idealtipo definito dalla teoria: la lotta ai monopoli, la riduzione del peso dello Stato nell’economia e del ruolo dei corpi intermedi (sindacati, associazioni eccetera), l’eliminazione delle rigidità di prezzo e di salario dovrebbero consentire di ridurre l’ampiezza e la durata delle fluttuazioni dell’economia intorno all’equilibrio naturale” (p. XIV).

Mi scuso per questa lunga citazione, ma non avrei saputo sintetizzare in egual maniera e con altrettanta precisione ed efficacia l’ideologia del Nuovo Consenso. Al contrario di questa ideologia, vivendo in un un’epoca caratterizzata da fasi cicliche di ampiezza rilevante che hanno fatto seguito alla Grande Crisi della fine degli anni ’20, John Maynard Keynes e Sir Roy Harrod (“amico, discepolo e biografo ufficiale” di Keynes), senza alcun dubbio i due economisti più importanti del secolo scorso, posero al centro delle loro analisi il problema della “disoccupazione involontaria”: un concetto di disoccupazione introdotto nella letteratura economica proprio da questi due grandi economisti.[6] Partendo dalla stessa base teorica, giunsero entrambi alla conclusione che il sistema economico non possedeva alcun meccanismo spontaneo di aggiustamento attorno all’equilibrio naturale di piena occupazione. Conseguentemente, per essi, al fine di ridurre la “disoccupazione involontaria” si rendeva necessario l’intervento dello Stato.

Prova ne sia che la Politica economica, connaturata alla concezione della Macroeconomia keynesiana, viene comunemente intesa quale “opportunità (o meno) e merito (se è opportuno come) dell’intervento pubblico nel sistema economico”. In quest’ottica, la causa della disoccupazione involontaria andava ricercata, secondo Keynes, nel gap esistente tra l’«offerta aggregata» (ovvero quanto hanno prodotto le imprese nel periodo considerato) e la «domanda aggregata» (quanto hanno acquistato di ciò che è stato prodotto dalle imprese i quattro grandi operatori economici (le Famiglie, le Imprese, lo Stato e il settore Estero). A differenza di Keynes, per Harrod la causa della disoccupazione involontaria andava ricondotta però all’instabilità economica dovuta all’incertezza delle imprese in merito alle aspettative di crescita della domanda aggregata, e giova ricordare che è proprio dalla sua impostazione che hanno preso l’avvio le moderne teorie della crescita economica.

Posto che l’interpretazione della storia e della evoluzione delle idee degli economisti di Saraceno sia corretta ─ che, sia detto per inciso, personalmente condivido ─, con riguardo al presente e al passato più recente mi chiedo, pur non avendo dubbi al riguardo, a quale delle due scuole di pensiero abbiano aderito, e conseguentemente praticato in termini di misure di Politica economica, la sinistra italiana, quella europea unitamente a quella “delle più importanti democrazie occidentali”.

Consideriamo infine, a prescindere dalla risposta che si intende dare al quesito posto da Bobbio sul «What is Left?», nonché dall’accezione della Politica economica che si ritiene più corretta, i seguenti fatti: a) il contesto politico internazionale; b) la pavidità dei paesi dell’Unione Europea (e dei paesi dell’Eurozona in particolare) ad uscire dalla logica intergovernativa che sottende il governo delle Istituzioni europee in favore di quella sovrannazionale, la sola che potrebbe condurre alla creazione degli Stati Uniti d’Europa; c) il sopravvento a livello mondiale della finanziarizzazione dell’economia rispetto all’economia reale di produzione; d) le migrazioni in atto e quelle a venire a seguito dei cambiamenti climatici, sulla cui origine antropica tutti gli scienziati concordano.

Tutto ciò considerato, nutro altrettanti pochi dubbi in merito alla palese inadeguatezza della dimensione nazionale (sia essa governata dalla destra populista che dalla sinistra) nell’affrontare le sfide del futuro, auspicando nel contempo (ma senza speranza) il ritorno a quel “progetto di unione monetaria internazionale”, ideato da Keynes nel settembre del 1941. Un Piano pensato allo scopo di contrastare le svalutazioni competitive, incentrato “in un contesto di cooperazione tra pari”.[7] Quello stesso Piano che Keynes, in qualità di rappresentante della Gran Bretagna, presenterà nel luglio del 1944, alla Conferenza di Bretton Woods, ma che, alla fine delle tre settimane di dibattiti tra i 730 delegati delle 44 nazioni alleate, vedrà approvato il piano del suo antagonista, il delegato degli Stati Uniti Harry Dexter White, incentrato anziché sulla “cooperazione tra pari”, sulla supremazia statunitense, la potenza uscita vincitrice dalla Seconda Guerra Mondiale.[8]

Lascio al lettore di trarre le conclusioni che preferisce. Per quanto mi riguarda sono assai preoccupato, non tanto per il presente e il futuro della sinistra, quanto piuttosto per il mio e il vostro futuro, ma soprattutto per quello dei vostri figli e dei nostri nipoti.

Alessandria, 30 novembre 2019

  1. G. Pasquino, Bobbio e Sartori. Capire e cambiare la politica, Bocconi Editore, 2019.
  2. Il quesito «What is Left?», precisa Pasquino, può assumere, infatti, sia il significato di «che cosa è sinistra?», sia «che cosa è rimasto?» della sinistra (p. 10).
  3. J. Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, Torino 2002. Sulla cui pericolosità degli effetti della globalizzazione Stiglitz tornerà qualche anno dopo in Il prezzo della disuguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro, Einaudi, Torino 2013, proponendo infine Le nuove regole dell’economia. Sconfiggere la disuguaglianza per tornate a crescere, ilSaggiatore, Milano 2016.
  4. In un libro a mio parere ancora insuperato in termini di evoluzione del pensiero degli economisti, nel capitolo dedicato a Scelta sociale e uguaglianza, Daniele Besomi e Giorgio Rampa scrivono: “(…) la discussione tra liberisti e non sembra trovare un punto d’accordo sul fatto che libertà e uguaglianza sono tra loro contrapposte: gli uni sostengono che l’egualitarismo riduce la libertà e la volontà di prendere iniziative (con possibili effetti negativi sul benessere generale); gli altri dicono che l’eccessiva e incontrollata libertà di iniziativa privata aggrava sempre più le disuguaglianze presenti nella società”, giungendo alla conclusione che “Un criterio singolo (la massimizzazione del benessere individuale) non può farsi carico di reggere e governare qualsiasi manifestazione della vita sociale”, in D. Besomi e G. Rampa, Dal liberalismo al liberismo. Stato e mercato nella storia delle idee e nell’analisi degli economisti, Giappichelli, Torino 1998, pp. 241-2).
  5. F. Saraceno, John Maynard Keynes. Prosperità, Chiarelettere, Milano, maggio 2019.
  6. Il concetto della “disoccupazione involontaria” era infatti sconosciuto alle teorie prekeynesiane, le quali prescrivevano di ridurre la disoccupazione, intesa quale «eccedenza dell’offerta di lavoro sulla domanda», semplicemente riducendo i salari e il potere dei sindacati. Più o meno la stessa misura di policy sostenuta dall’ideologia del Nuovo Consenso.
  7. Il Piano di Keynes “Per la libertà del commercio e il disarmo finanziario” è stato recentemente riproposto nel libro a cura di Luca Fantacci John Maynard
    Keynes, Moneta Internazionale
    , il Saggiatore, Milano 2016. Le vicende legate agli Accordi di Bretton Woods sono invece narrate nel libro di Benn Steil, La Battaglia di Bretton Woods John Maynard Keynes, Harry Dexter White e la nascita di un nuovo ordine mondiale, Donzelli, Roma 2015.
  8. Sul “disordine del neoliberismo e le speranze di una nuova Bretton Woods”, si veda, di A. Carabelli e M. Cedrini, Secondo Keynes, Lit Edizioni, Roma 2014.

di Bruno Soro

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