Salvini “al balcone” in Italia, ma non in Europa

Propongo alcune primissime riflessioni, scritte mentre non conosciamo ancora neanche i nomi degli eletti in Europa e in Piemonte.

In Europa le cose vanno abbastanza bene per europeisti e progressisti. L’area sovranista ha raddoppiato sì i seggi in Europa, ma resta una forte minoranza per nulla determinante. Infatti, a livello dei 28 Paesi, ha 171 seggi sui 751 nel Parlamento Europeo di Strasburgo; e, anche se tutto il Partito Popolare Europeo dovesse allearsi con essa – il che sarebbe assurdo – non avrebbe la maggioranza. Per uno dei paradossi della storia, non essendo più possibile una maggioranza tra democristiani e socialisti, ma essendoci forti minoranze liberali e verdi, gli europeisti potrebbero persino formare una maggioranza dei due terzi nel Parlamento europeo.

Inoltre la crisi della sinistra tradizionale – socialdemocratica e di conio preteso nuovo – è ampiamente compensata dal successo dei Verdi in Germania e in Francia. L’area “verde” rappresenta un mondo di sinistra o comunque progressista; e, soprattutto, più europeista che mai. Di lì passa anzi la politica di sinistra e democratica del futuro. Questo corrisponde a quanto avevo previsto sin dall’anno 2000 nel mio vasto libro “Il mito della nuova terra. Cultura, idee e problemi dell’ambientalismo” (Giuffrè Editore). Allora qualcuno mi aveva obiettato che il “rosso”, incentrato su logiche del lavoro e dello sviluppo “industriale”, era contro il “verde”, e che perciò la mia idea che il nuovo sole dell’avvenire sarebbe stato verde-rosso, o rosso-verde, non avrebbe potuto funzionare. Invece il nuovo “ismo” che si aggira dal 1979 (quando in Germania sono nati i Grünen), come avevo esattamente previsto e argomentato nel mio libro del 2000 è proprio quello. Non accade in Italia per diverse ragioni che potrebbero pure essere approfondite, ma che in questa breve riflessione posso citare solo di sorvolo: qui il “verde” è figlio di due storiche microfrazioni, anche simpaticamente libertarie, ma che per il loro stesso carattere di nicchia non sono state affatto in grado di impersonare il futuro (Lotta Continua e i Radicali). Inoltre l’ecologismo implica una svolta morale e spirituale, fatta di risanamento ambientale, amore della vita semplice e onesta, e senso della sacralità della Natura: tutte cose che fanno a pugni con l’individualismo amorale e con il materialismo profondo di antichi popoli come il nostro, per troppi secoli cattolico pagani o miscredenti, appena sfiorati dalla Riforma protestante e che, soprattutto, ne hanno viste di tutti i colori per 2000 anni, e che perciò sul “principio speranza” – come l’avrebbe chiamato il filosofo Ernst Bloch – sono molto spesso stati e sono gli ultimi della classe. Certo Risorgimento, Socialismo e comunismo avevano aperto tanti cuori, ma erano presto degenerati e comunque da tempo sono più o meno finiti. Nel XXI secolo il nostro atavico individualismo amorale è rifiorito. Non già in camicia nera o con la tonaca, ma in forme capitalisticamente e politicamente aggiornate.

Noi di sinistra, inoltre, siamo sempre penalizzati dalle lotte fratricide, che, anch’esse, vengono da lontano. Questa è la ragione che ha impedito alla sinistra radicale, anche dell’ultimo decennio, di capire che poteva avere un ruolo neosocialista solo in alleanza critica col Partito Democratico, pur incalzandolo da sinistra, in specie in occasione del referendum sulle riforme istituzionali del 2016 e durante tutte le elezioni. La polemica “da sinistra” poteva ben esserci, ma “tra compagni”; altrimenti se ne sarebbe avvantaggiata la destra, com’è accaduto. Ma è valso pure nel PD, dove gli scontri di fazione si sono troppo spesso scatenati senza freno. E infatti, ora, è bastato che il PD con Zingaretti, pur senza fare niente di speciale, rappacificasse le aree diverse che lo compongono, e si aprisse ad alleanze con gruppi palesemente affini, per tornare ad essere importante, se non decisivo (come si è visto nelle elezioni europee del 26 maggio). Se ci fosse riuscito di più, sarebbe stato ancora meglio. Infatti abbiamo pur visto, in queste elezioni europee, una Emma Bonino – la quale è per altro una nobilissima persona, libertaria e riformatrice – preferire la dispersione di un bel gruzzolo di voti (3,1%), con la sua lista + Europa, all’alleanza col PD, che le era stata accoratamente richiesta. E abbiamo visto un Fratoianni, alla testa della cosiddetta “Sinistra”, imbarcarsi nell’impresa impossibile di raggiungere il 4% indispensabile, neppure realizzata a metà, pur di non allearsi col PD (uscendo con ciò praticamente dalla storia; e buon viaggio per sempre). Con un pizzico di buon senso e di realismo di questi potenziali alleati, la lista formata dal PD avrebbe ottenuto oltre il 25% (invece del già più che buono – rispetto al 17% del M5S – 22,7%). Ma è inutile piangere sul latte che gli irriducibili versano a danno della sinistra – o cosiddetta sinistra (fate voi) – almeno dal 1972 ai giorni nostri. Ma siccome i versatori di latte si danno sempre il cambio come in un pazzesco gioco della staffetta, ricordarlo non è male. A noi stessi e a tutti.

Salvini comunque, col suo spropositato 34%, è il prossimo “dominus” dell’Italia. Si può sperare che il risultato sia effimero come il 40% del PD di Renzi alle precedenti elezioni europee, ma purtroppo ha poco senso: perché Salvini non ha contro il fuoco amico che impiombò Renzi. Tutta l’area di centrodestra sarebbe, anzi, felicissima di incoronarlo “Capo”, ed è lui solo a temere lo sputtanamento rimettendosi con Berlusconi in Parlamento, cioè alleandosi formalmente con Forza Italia, con i pesanti fardelli che quella si è sempre portata dietro, al centro e in periferia. Inoltre Salvini ha dalla sua tutto il Nord, per ragioni di mero sviluppo del capitalismo italiano e per una domanda di blocco d’ordine che viene dalla “pancia” del Paese (da cui però – a lato delle istanze produttivistiche, senza inciampi burocratici e oneri burocratici eccessivi, e una giustizia a scoppio ritardatissimo – emanano pure i succhi gastrici peggiori, come la xenofobia, il familismo reazionario, l’omofobia e gli antichi spiriti forcaioli). Salvini ha persino liquidato – 52% contro il 38% – la sinistra riformista di Chiamparino in Piemonte, ultima roccaforte rossa (o rosa) a cadere. Inoltre egli, pur essendo culturalmente ben più rozzo di Renzi, è un animale politico probabilmente nato, specie sul decisivo piano tattico, e come interprete degli umori profondi del Paese, tanto momentanei quanto storici. Temo, perciò, che siamo agli inizi di una vera “democratura”. Questa democratura, oggi, in Europa vive già in Ungheria e Polonia, ma se dovesse arrivare in Italia la cosa avrebbe un senso epocale ben più rilevante, tanto più che in Francia, in queste elezioni, il Front National di Marine Le Pen ha già battuto, sia pure di misura, e lì con pochi possibili alleati, il partito di Macron.

Negli ultimi mesi ho sostenuto più volte che fallito il progetto di realizzare una forte governabilità democratica “da sinistra”, o se si preferisce da posizioni riformiste democratiche, incarnato da Renzi, questo progetto sarebbe tornato, in forme ben più gravi, da destra: non perché qui si aggirino i fantasmi delle camicie nere o dei cavalieri di ventura – mai così deboli nella nostra storia – ma perché l’istanza di rimettere in moto lo sviluppo capitalistico attraverso un governo “autorevole” e “durevole” (per altro non apertamente autoritario, e neppure democraticamente insuperabile), viene da tutte le forze produttive, in specie del Nord e del Centro dell’Italia, con una forza addirittura superiore a tutte le previsioni.

La “democratura” è in cammino, attraverso un Giano bifronte: un populismo “double face”, incarnato dalla Lega, ma pure dal M5S. L’ho qui sostenuto in molti articoli e piccoli saggi, come: “Zingaretti e il Corsaro Nero” (19 marzo 2019), e soprattutto “La decadenza della democrazia” (3 aprile 2019), “Crisi dello Stato e governabilità del Paese” (5 maggio 2019); “Il doppio volto del populismo in cammino” (12 maggio 2019). Di tali analisi non cambierei neanche una virgola. Neanche sul “salvinismo”. E neppure sul destino del “pentastellismo”, a mio parere chiamato ad incarnare la “sinistra della destra” (ossia il salvinismo riluttante, il salvinismo “per forza maggiore”, il salvinismo da “vorrei e non vorrei”), come lo erano stati nel fascismo i molti elementi che non venivano dalla destra nazionalista, ma dal sindacalismo “rivoluzionario” o dallo stesso socialismo intransigente anteriore alla Grande Guerra. Ad esempio è molto caratteristico il fatto che sino a due mesi fa – giorno più o giorno meno – il M5S abbia ingoiato qualunque rospo “salviniano”: prendendo a contestare Salvini, ogni giorno, solo in vista delle elezioni; ma è pure significativo che persino tale contestazione continua, vista a posteriori, sia risultata controproducente (tanto che quelli che probabilmente l’hanno imposta, da Fico a Di Battista o Grillo, sono stranamente silenti); che in Europa il M5S abbia corso con i campioni dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, e soprattutto che quasi tutta la valanga di voti persa dal M5S sia andata a ingrossare le “armate” di Salvini, come accade nei grandi spostamenti della storia.

Se il M5S fosse un vero partito, Di Maio oggi si dimetterebbe, essendo il “suo” M5S diventato, da primo partito di un anno fa (marzo 2018) il terzo, decisamente dietro il PD. In tal caso proprio il M5S aprirebbe una crisi di governo cercando di rifarsi una verginità, col relativo gruzzolo di voti perduto, in nuove elezioni politiche. Ma credo che non accadrà. Anzi, qui io azzardo una previsione. Non solo Di Maio non si dimetterà, ma il M5S non si spaccherà neppure. Forse ingoierà persino rospi storici come la TAV Torino-Lione, la Flat Tax e l’autonomismo delle regioni forti del nord (o una o due tra tali cose decisive per Salvini). Così il M5S dimostrerà di essere una gassosa meteora, ma non una stella o costellazione. Molti voti se ne sono già andati e molti altri se ne andranno, sino a fare del M5S il socio di minoranza della destra populista con basi di massa di Salvini. I tanti dispersi, verso l’astensione e in parte verso il PD, non lasceranno tracce nella storia.

Ma su ciò io spero ardentemente di sbagliarmi. E non lo escludo, anche se mi pare improbabile. Se mi sbagliassi (come ardentemente vorrei), le due anime giustapposte – una “di sinistra” e una “di destra” – del M5S si scomporrebbero presto, in poche settimane o mesi. Gli amici di Di Maio, governativi sino al rogo escluso, seguirebbero il “duce democratico” Salvini, sia pure mordendo di tanto in tanto il freno, mentre quelli di Fico e forse Grillo, per così dire “di sinistra”, se ne andrebbero col PD, che in tal caso troverebbe in loro un alleato naturale. Ma – lo ribadisco – dubito molto che ciò accadrà, anche se sarebbe bello e ragionevole che accadesse. Infatti tutti i “capi” a 5S sanno persino troppo bene che, perso il governo, e forse le vicine elezioni, per loro il rischio di tornare ad essere nessuno sarebbe altissimo; e siccome sotto quel vestito non c’è niente – né un vero partito né una vera convinzione profonda salvo qualche vago appello all’Italia degli onesti e alla Costituzione, che è ormai “senso comune” generale – non molleranno la presa. Forse, per questo, persino la sinistra del M5S tacerà; o sparerà “a salve”, scatenando qualche tempesta in un bicchier d’acqua (o neanche quello). Con buona pace di quelli che hanno creduto al carattere “veramente di sinistra” del M5S, dal “Fatto quotidiano” all’ottimo Cacciari.

Ben diversa è la sorte del PD. Lì la ritrovata unità – da me auspicata con forza attorno a Zingaretti almeno sino alle prossime elezioni politiche – ha pagato. Hanno preso il 22,7% alle europee e bagnato decisamente il naso al M5S, staccandolo di 5 punti. Gli stessi “renziani” hanno fatto molto bene a sostenere Zingaretti lealmente; e oggi, nel PD, la loro area, in sana coabitazione e emulazione con Zingaretti e compagni, tramite Carlo Calenda, quantomeno loro affine, potrà avere un grande ruolo. Zingaretti, Gentiloni e Calenda potrebbero diventare un bel triumvirato “di fatto”, rappresentativo di “tutto” il mondo del PD. Se il M5S si spaccherà, ci sarà “l’alleato” pure per il PD. In caso diverso si dovrà far politica svuotando ulteriormente il M5S stesso agendo, come PD, da forza di governo “ombra”, e soprattutto approfittando del periodo di forzata opposizione, che in verità potrebbe anche non essere affatto breve, per diventare quella grande forza di alternativa democratica e di sinistra, riformatrice in senso bipolare e al tempo stesso più “lavorista” che mai, liberalsocialista e personalista, verde e federalista europea, che sinora ha latitato oscillando lì dentro tra esserlo e non esserlo. Ci sono idee di forte e stabile governabilità democratica, di detassazione del lavoro e di lotte per il lavoro, di risanamento ambientale, di volontariato sociale e di federalizzazione dell’Europa, da portare in tutte le istituzioni elettive, ma pure su tutto il territorio, periferie degradate comprese. Qualche anno di opposizione al PD non farebbe male, se usato a tal fine. Ma sarà così?

(franco.livorsi@alice,it)

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