La decadenza della democrazia

Appartengo a un’area di “compagni e cittadini”, non certo maggioritaria nella sinistra, che sino a tempi recentissimi non ha mai creduto che in Italia la democrazia costituzionale fosse mai stata veramente a rischio, almeno dopo il luglio 1960. Quest’area, di matrice socialista e proletaria, ha attraversato la sinistra, operando dal 1972 prevalentemente nel PCI e accompagnandone. salvo eccezioni – tutte le metamorfosi sino al PD di oggi. Io di tale area di matrice socialista di sinistra e marxista feci parte dal 1962, quando avevo ventuno anni. Ne ho un ricordo molto vivo.

Nel 1963 Nenni diceva che si doveva fare il centrosinistra – come si chiamava allora l’accordo epocale tra socialisti e democristiani – perché si sentiva già il “rumoreggiare di sciabole” delle forze reazionarie, impersonato allora da un generale dei carabinieri con nostalgie golpiste, De Lorenzo, che, secondo gli avversari, il capo dello Stato di allora, Antonio Segni, aveva o favorito o fatto finta di non vedere. Non saprei minimamente dire se fosse vero, e di tale diceria non mi assumo alcuna responsabilità, ma si mormorava – tra dirigenti della sinistra di quel tempo ora lontanissimo – che il leader socialdemocratico Saragat fosse andato al Quirinale e avesse avuto un forte alterco con quel Presidente, accusandolo di golpismo e minacciandolo di accusarlo di “alto tradimento della Costituzione” di fronte alle Camere chiedendone la destituzione. Nel corso della “conversazione” l’anziano Presidente sarebbe stato colpito da ictus fulminante, morendo poco dopo; e anche per questo, poco oltre, i comunisti avrebbero deciso di votare Saragat – che dal 1947, scindendo da destra il Partito Socialista e colpendo al cuore il Fronte Popolare, era stato considerato il grande rinnegato della sinistra – come nuovo Presidente della Repubblica. Così allora mi raccontavano – fosse ciò vero, falso o esagerato – i miei amici di allora, vuoi capi della corrente di Lelio Basso e vuoi operaisti marxisti legati a Foa o a Panzieri e Mario Tronti. A loro dire quegli intrighi golpisti di destra erano stati solo gli ultimi residui dell’epoca in cui tutto aveva ruotato attorno alla sola DC più conservatrice, i cui alleati, minori dal 1947, erano stati del tutto succubi di essa (il “centrismo”). Il neocapitalismo democratico europeo ormai era da ritenersi di casa anche qui, almeno nel sempre decisivo Nord. Le minacce di golpe sarebbero state da considerare come velleità, o come gli ultimi colpi di coda del pescecane morente (del centrismo): colpi di coda e velleità persino utili ai principali fautori del centrosinistra dei due partiti maggiori, Nenni e soprattutto Moro, per far credere indispensabile un governo “organico” tra socialisti e democristiani, in quella prima versione poco aperto a nuove riforme (che poi sarebbe durato trent’anni).

Dopo quel 1963 ci furono – tra la metà degli anni Sessanta e il Sessantotto del Novecento – molti giovani che, suggestionati dalla grande eruzione della protesta operaia e studentesca nel mondo, ma anche dalle guerriglie comuniste dell’America Latina (per non dire della rivoluzione culturale di Mao), volevano persuaderci che si poteva fare la rivoluzione proletaria in Italia. Ma io sostenevo, ovviamente riprendendo idee che erano nell’aria, che l’Italia non era l’America Latina, e che l’Europa Occidentale, capitalistica avanzata, era area “di contestazione, ma non di rivoluzione”. Lo argomentai molto chiaramente anche nella mia tesi di laurea, discussa con il compianto filosofo liberale e spiritualista Carlo Mazzantini, presso l’Università di Torino, l’11 luglio 1968, con esito ottimale, sul “problema dell’emancipazione nella filosofia politica di Marx”. L’Italia non era la Cuba di Fidel o la Bolivia di Che Guevara, rivoluzionari allora ammiratissimi da tutti noi, come non era la Grecia dei colonnelli, temutissima dalla sinistra ma vagheggiata “dall’altra parte” della barricata dai “contestatori” neri. “Quelli là”, i contestatori più estremi di opposta matrice, evidentemente erano tutti troppo ingenui, o ignoranti, o fanatici – fate voi – per capirlo, sia che sognassero la rossa Cuba di Fidel e del “Che” o la nera Grecia dei colonnelli. Non intendo mettere i primi, che avevano in molti casi un grande anelito di redenzione sociale, sullo stesso piano dei secondi, amanti dell’autoritarismo come se l’”ordine nazionale” fosse un Valore in sé: voglio solo segnalare l’incapacità di tali parti estreme di capire l’enorme differenza tra mondo capitalistico avanzato e mondo economicamente arretrato e, correlativamente, tra aree in cui il conflitto tra forze reazionarie e rivoluzionarie era attuale ed aree ben diverse, in cui la composizione degli opposti sociali, senza conflitti estremi violenti, era sempre possibile, a dispetto di tanti episodi, magari significativi, ma marginali, di vero antagonismo. L’angustia di visuale degli opposti estremismi – diversi per valore etico, culturale ed ideale, ma tutti incapaci di comprendere il neocapitalismo e le sue profonde radici liberaldemocratiche e riformiste – però non rimase senza conseguenze, sol che si pensi ai lutti e alle rovine provocati dallo stragismo nero e dal terrorismo rosso.

Più oltre ancora, rispetto al 1961/1969, nel dicembre del 1969, arrivò la strage di piazza Fontana, in cui fascisti estremisti fecero saltare la Banca dell’agricoltura di Milano provocando una vera strage degli innocenti: evento terribile che io pure commentai a caldo1. Una frazione della sinistra – formata da elementi che già avevano fatto confusione tra l’Italia del neocapitalismo e del riformismo e l’America Latina di Che Guevara – prese a dire che l’alternativa ormai era tra Neri e Rossi; che bisognava fare la rivoluzione proletaria per impedire la reazione fascista, già iniziata. Io, allora, in Alessandria, facevo parte della segreteria provinciale di un piccolo partito di estrema sinistra socialista, il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (ero pure membro della segreteria regionale piemontese). Notai che qualcuno portava nella Federazione del PSIUP un bel po’ di copie di una rivistina stampata che si chiamava “Lavoro politico” e che inneggiava appunto alla rivoluzione proletaria antifascista come solo antidoto attuale a quella fascista ritenuta “en marche”. Accadeva nel 1970, e a me pareva “folle”. Un giorno l’amico che ci invitava a tali letture, e che ben presto sarebbe diventato ultrariformista, mi invitò al Ristorante Grappolo a un pranzo con alcuni amici tra cui c’era Giambattista Lazagna, ex leggendario capo partigiano nella Valcurone e medaglia d’argento della Resistenza, autore di un bel libro memorialistico che è in effetti tra i migliori sulla e della Resistenza2. L’autore era fratello di un mio amico professore, cattolico di estrema sinistra, che ho stimato tutta la vita, Pietro Lazagna. Di Giambattista Lazagna un giovane professore “allora” di ultrasinistra, che insegnò poi Filosofia al Liceo Plana – un tipo dagli occhi celesti tanto chiari da sembrare quasi bianchi e che era sempre a mezza strada tra il suicidio e la rivoluzione, e che era mio vero amico dal 1964 – proprio nei primi tempi della nostra frequentazione mi diceva – con il tipico accento cantilenante genovese – che Giambattista Lazagna era uno “rimasto fermo al 26 aprile 1945”: insomma, che era uno il quale avrebbe voluto che la Resistenza non finisse, o che ricominciasse, avendola intesa e intendendola da sempre come rivoluzione socialista in cammino (“mancata”). Dopo la strage di Piazza Fontana rifiorivano discorsi di quel genere. Giambattista mi chiese, tra una bevutina e l’altra, se non ritenessi che dopo la strage di Piazza Fontana si dovesse riorganizzare una Resistenza clandestina ed armata in vista di una rivoluzione proletaria vista come solo antidoto alla reazione fascista. Io lo esclusi subito totalmente, per le anzidette ragioni (anche se sul momento credetti si trattasse delle solite chiacchere di ultrasinistra che in quel tempo si sciupavano, o poco di più). Se l’Italia fosse stata tutta come la Calabria o la Sardegna, il rischio di un golpe nero sarebbe stato alto, perché la Grecia dei colonnelli sarebbe stata “vicina” (e pure le possibilità di rivoluzione “socialista” sarebbero state “vere”, perché sarebbe stata socioculturalmente “vicina” pure Cuba), ma la Valle Padana non era così; e in Italia tutti i giochi dal 1848 sono sempre dipesi da tale polmone forte del Paese. In Italia non avremmo potuto avere né qualcosa di omologo a Fidel Castro né ai colonnelli neri greci. Bisognava lottare sia per la democrazia operaia nei luoghi di lavoro che per un’alternativa democratica e di sinistra a livello di governo, combinando insieme i due generi di lotta. L’analisi di Giambattista Lazagna, veterocomunista, coltivata da vecchi amici di Pietro Secchia, che dal più al meno aveva inteso la Resistenza come rivoluzione rossa mancata3, mi pareva insomma totalmente errata. Mi sembrava che in Italia ci fosse sì un forte rischio di riflusso a destra, di cui lo stragismo era sintomo, ma che il vero rischio qui fosse il neogollismo (e lo teorizzai chiaramente – allora come possibilità incombente giocata contro il movimento operaio e socialcomunista – in articoli sul settimanale nazionale del PSIUP, “Mondo nuovo” sin dal 19714). Dopo la rottura della tentata “unità socialista” tra socialisti e socialdemocratici (unità che era stata proclamata in pompa magna nel 1966) – rottura avvenuta a fine 1969 – il PSIUP entrò via via in crisi (perché la protesta contro i socialdemocratici moderati “saragattiani” unitisi ai socialisti “nenniani”, combinandosi con il clima della contestazione, aveva prodotto il 4,5% di voti che nel ’68 avevamo). Dopo il crollo elettorale del PSIUP tra il 1970 e il 1972 molti tra noi, nel 1972, confluirono nel PCI. Dopo un anno, nel 1973, fui cooptato nella segreteria di federazione di Alessandria. Forse il PCI, che non era solo un partito grande, ma che era un grande, serio e generoso partito di lavoratori (seppure alquanto burocratico e unanimistico), sentendo la svolta a destra che montava fu incerto tra linee opposte. Se sarà il caso ne parlerò in seguito. Ma quando in America Latina i militari di Pinochet, alla testa della destra non solo fascista, ma ex democristiana, fecero il colpo di stato in Cile, il segretario del PCI, Enrico Berlinguer, nel 1973, fece una svolta di 180°, che poi risultò “a Dio spiacente e alli nemici sui”: il compromesso storico. Per impedire il golpe fascista anche in Italia, tutti i democratici avrebbero dovuto unirsi, dal PCI di Berlinguer alla DC di Moro, in “compromesso storico”, inteso addirittura come via democratica al socialismo del nostro tempo5. Il ministero monocolore democristiano di Andreotti nato nell’estate del 1976, detto “governo di solidarietà nazionale”, reso possibile dalla benevola astensione e poi dal sì del PCI, era considerato dai comunisti – come si potrebbe dimostrare con testi di “Rinascita” alla mano – il primo tempo del compromesso storico. Dapprima mi opposi apertamente, anche nel Comitato Federale di Alessandria, ma poi – da dirigente, quando divenne la “linea generale” del PCI – vezzeggiai io pure con quel compromesso storico, cui non credetti mai (per la stessa ragione per cui non avevo creduto alle soluzioni eversive armate, anche di segno opposto, dal 1963 in poi, in una delle aree forti del neocapitalismo europeo come l’Alta Italia, sempre egemone nel Paese; per me, in Italia – lo ribadisco – era possibile, anche da destra, il gollismo, di cui allora il democristiano Fanfani era considerato fautore, ma non il golpe “alla cilena”, in stile Pinochet. Mi sembrava e sembra necessaria un’alternativa democratica di sinistra tra blocco moderato conservatore e blocco socialista e democratico, ma quest’alternativa di sinistra – come ben presto giunsi a pensare – richiedeva da un lato una chiara rottura del PCI con l’URSS (arrivata in tono minore solo nel 1981, “dopo” il fallimento del compromesso storico nel 1979), dall’altro un sistema elettorale a due turni di tipo maggioritario, come in Francia (da de Gaulle al socialista Mitterrad). Invece di seguire la via già battuta da Nenni e che aveva rovinato elettoralmente e moralmente il PSI – partito che andando con la Democrazia Cristiana aveva preso a zoppicare come la zoppa – perché non seguire la via di Mitterrand in Francia? Perché non coniugare insieme neogollismo e alternativa di sinistra6? E se di ciò non si poteva parlare neppure (non eran tempi; e sul semipresidenzialismo a sinistra c’era ancora un fuoco generale di sbarramento), perché non accelerare almeno l’unificazione della sinistra sotto le bandiere del socialismo democratico europeo, previo ovvio distacco dall’URSS, per dare uno sbocco avanzato sia alla grande crisi della prima repubblica – che nel 1975 aveva ormai bruciato le basi di massa sia del centrismo che del centrosinistra Moro-Nenni – e sia a un quindicennio di avanzata sociale e politica delle forze di sinistra e del lavoro?

Il PCI, dall’autunno 1973 all’autunno 1979, fece altra scelta, che praticamente realizzava quello che noi ex bassiani o foani paventavamo da sempre chiamando ciò, nel PSIUP, “centrosinistra pulito”: in pratica l’allargamento del centrosinistra Moro-Nenni-La Malfa a Berlinguer. Il leader del Partito Socialista, Francesco De Martino, dalla fine del 1969 concordava col PCI, che egli avrebbe voluto “portare in maggioranza”, almeno accettandone i voti come apporto esterno: sino a provocare, per quell’obiettivo, le elezioni politiche anticipate del 1976. Voleva favorire l’apertura del centrosinistra al PCI; ma per quella via lo PSI rischiò persino di scomparire facendo, più in grande, la fine del PSIUP. Mentre il PCI, che nel 1946 era il secondo partito della sinistra, sia pure di poco (19%), nel 1975/76 era ormai rappresentativo di un italiano su tre, lo PSI nel 1976, era ormai sceso, a furia di “donar sangue” (soprattutto al PCI), sotto il 10%. Così cadde De Martino e arrivò Craxi, che avrebbe voluto essere sostenuto, nel 1978, come leader per tutta la sinistra, alla presidenza del Consiglio (centrosinistra aperto sì, ma a trazione socialista); tuttavia il PCI, che pure aveva dato l’astensione e poi l’assenso a un tipetto come Andreotti, probabilmente per il timore di perdere la “primazia” a sinistra come accaduto ai comunisti in Francia, non volle saperne; e il disegno del coniugare da sinistra una tendenza neogollista e una tendenza socialriformista, proprio di Craxi (e di Mitterrand), divenne neoconservatore, combattuto dal PCI come una specie di recidiva del mussolinismo (come già era stato detto del gollismo in Francia, benché de Gaulle fosse stato per anni il Capo della Resistenza). Il risultato di ciò è stato prima la degenerazione del craxismo in un patto di potere, però alla pari, tra Craxi Andreotti e Forlani, e poi il riemergere del craxismo, o del neogollismo, dopo Tangentopoli, in forma “rovesciata”, da destra: tramite un ex sponsor e grande amico di Craxi stesso, Silvio Berlusconi.

Il fenomeno di un craxismo di sinistra, che voleva coniugare insieme governo democratico forte e riformismo sociale e civile, tornò nel 2013 con il PD di Renzi: oltre a tutto non più per conto di un partito tra il 10 e il 13%, e già logorato pure moralmente da molti anni di alleanza con la DC, qual era stato il PSI di Craxi, ma tendenzialmente maggioritario e moralmente sano come il PD (seppure senza una grande storia e idealità socialista, per quanto degenerate, alle spalle). Matteo Renzi avrebbe voluto modificare e stabilizzare nel senso del premierato (doppio turno con premio di maggioranza) la forma di governo, da posizioni neosocialiste europee (e infatti fu lui a far aderire subito il “suo” PD, nel 2013, al Partito Socialista Europeo, di cui per sette anni “gli altri”, i bersaniani, si erano “scordati”). I nipotini – pure ormai post-comunisti nettamente – di Enrico Berlinguer – da D’Alema a Bersani – uniti ai veri amici cattolici dell’ex compromesso storico, e ai soliti fantasmi della sinistra massimalista buona sempre a spararsi nelle scarpe o peggio – riuscirono a rovinare pure Renzi e il suo PD (anche grazie a debolezze ideal-politiche e caratteriali del “segretario fiorentino”). Se rovinando Craxi avevano tirato la volata a Berlusconi, ora rovinando Renzi l’hanno tirata a Matteo Salvini. “Elementare Watson!”. E non occorreva il genio politico di Niccolò Machiavelli per capirlo in anticipo (ma la faziosità acceca, e noi italiani sembriamo sempre ricadere in essa).

Piaccia ciò o meno, contro un tal disegno di nuova destra con basi di massa in cammino (salviniano), c’è solo il PD. Chi è onesto, serio e di sinistra dovrebbe ormai riconoscerlo. Ma per essere vera alternativa epocale, e non solo – per l’ennesima volta – un tampone, neppure sicuro, il PD avrà da fare ancora molta strada, trovando: ideali forti comuni (come fu l’idea socialista); spirito comunitario tra tutti i suoi membri, uniti nella diversità (come nei grandi partiti socialisti, in cui tutti si sentono compagni tra loro anche quando litigano come cani e gatti), e soprattutto un programma di grande riforma istituzionale e “lavorista” del Paese e dell’Unione Europea, che sia profondamente condiviso e preso sul serio da tutti, e non da mutare a ogni stormire di venti contrari, come si è fatto varando la legge elettorale vigente dopo la sconfitta del 2016, tornando alla proporzionale della prima Repubblica come se niente fosse (ma senza quei partiti “veri” a reggerla, ormai impossibili o quasi su tutti i fronti). Il rischio di un decennio “salviniano”, di destracentro al potere, se il PD non riuscirà ad autoriformarsi profondamente, ma saprà solo essere “più aperto” verso l’interno e verso l’esterno (per quanto anche questo sia molto importante), sarà molto alto.

Non solo. Per la prima volta sento che la democrazia italiana in quanto tale è in pericolo. Infatti a furia di accumulare fattori di crisi irrisolti e delusioni c’è il rischio che perda ogni credito la stessa democrazia rappresentativa, e che l’Italia dia inizio ad un’era di crisi della democrazia europea come accadde dalla fine d’ottobre del 1922 in poi. Se dovesse accadere sarebbe per fallimento più o meno fraudolento dell’economia e della democrazia, e non per tratti di arretratezza del capitalismo o per i residui del fascismo (entrambi risibili nelle aree trainanti del Paese). Naturalmente la storia importante non si ripete mai; e tuttavia il cogliere non solo le differenze, ma anche le analogie (nei movimenti della reazione, come pure della rivoluzione o del riformismo) nelle diverse fasi, è doveroso, perché se queste analogie profonde venissero negate, persino lo studio della storia avrebbe poco senso (diventerebbe più che altro un racconto commemorativo oppure detrattivo, buono per chi non abbia di meglio da fare nella vita). Persino il Front National di Marine Le Pen non è quello di “suo papà”; ma non cogliere i nessi tra l’uno e l’altro, oltre le differenze, sarebbe grave. Se Salvini è diventato un punto di riferimento per Marine Le Pen o persino per Alternative for Deutschland e per Casa Pound, qualcosa vuol dire.

Anche quando il fascismo prevalse nel 1922 c’era già stato un regime nazionalista reazionario in Ungheria, ma il successo di un regime nazionalista autoritario con basi di massa in un grande Paese come l’Italia segnò una svolta nella storia europea. Oggi la dittatura aperta è inattuale, ma la democratura – il mix tra democrazia e dittatura, che sembra la forma rinnovata del movimento reazionario con base di massa a livello mondiale – può essere molto vicina.

La democrazia “illiberale”, o semiautoritaria, già prevalsa in Ungheria (e altrove), potrebbe essere alle porte in Italia, dopo elezioni politiche che potranno arrivare nel 2020 (se non prima), ancora una volta con conseguenze gravi per l’Europa. Ce ne sono già tanti di sintomi: un colossale debito pubblico, di 2350 miliardi di euro, che pesa su tutto come un macigno, e cresce; la realtà di una democrazia “quasi” senza partiti veri, in Europa inusitata forse dal 1919; la demagogia, l’intolleranza e la voglia di un governo che sia interprete – quasi di tipo extraistituzionale – dei forti mal di pancia del Paese contro il ceto politico tradizionale, cui è attribuito ogni male (come se l’illegalismo non venisse pure dal basso, da gente che vuol farsi gli affari suoi, evadendo quanto può IVA e tasse, pensando che alla fine ci sarà sempre uno Stato “Pantalone” che provvederà, e che se non può più farlo sia colpa non già anche dei cittadini, ma della sola “casta”); l’incapacità sempre maggiore di affrontare le crisi economiche incipienti; un discredito del mestiere del politico, tra la gente, persino superiore a quello che c’era nell’Italia del 1922 o nella Germania di Weimar prima del 1933; lo svuotamento del ruolo del parlamento rispetto al potere esecutivo, e la totale incapacità del potere giudiziario di garantire processi rapidi; e tanti segnali di apertura del governo in carica o dei partiti che lo formano a tanti regimi e movimenti illiberali o autoritari della terra. Non basta ancora?

Su tali basi ci sarebbe tanto da stupirsi se dovesse accadere qualcosa di omologo a quello che accadde in Francia nel passaggio dal cesarismo di Napoleone Bonaparte (crollato nel 1815) a quello di Luigi Bonaparte (al potere dal 1849 al 1870), passaggio descritto in pagine immortali da Marx nel 18 Brumaio di Luigi Bonaparte (1852) unendo osservazioni geniali e riso amaro, parlando del dramma che nella storia ritorna come farsa? Non potrebbe sussistere lo stesso rapporto che c’è stato fra Napoleone I e Napoleone III tra Mussolini e Salvini, pur nella difformità della matrice? Che c’importa di nomi e bandiere? Non potremmo essere proprio alla vigilia non già di una dittatura, ma della “democratura”, o democrazia illiberale, ossia di un assetto in cui l’esecutivo, anche senza annullare in sé gli altri due poteri fondamentali dello Stato, li subordini decisamente, interpretando a livello epocale, in un senso duramente conservatore o reazionario-modernizzatore, l’istanza di governo forte e capace di risanare l’economia risultata impossibile da un punto di vista di forte democrazia, però liberale e socialmente molto aperta? E non è chiaro che se ciò accadesse appunto da destra, cioè se il “salvinismo” diventasse storicamente e stabilmente egemone, ciò sarebbe pagato da un lato dalla povera gente che sgobba o vorrebbe sgobbare, e dall’altro da tutte le minoranze più o meno emarginate?

Se però la sinistra reagisse a ciò, per l’ennesima volta, elevando alti lamenti contro il “tiranno”, staremmo freschi. La sinistra potrà uscirne solo andando incontro alle istanze del Paese con soluzioni di governo forte e stabile, ma in un contesto decisamente liberale e socialista nelle soluzioni per il Paese, oltre che rinnovato negli ideali, nei programmi e nell’organizzazione interna sua propria. Ma ne sarà capace?

1 F. LIVORSI, La violenza oggi, “L’idea socialista”, n. s., a. II, n. 1, gennaio 1970, p. 1.

2 G. LAZAGNA, Ponte rotto, Cooperatica Colibri, Milano, 1972.

3 Pietro Secchia era stato il Vice di Togliatti per molti anni, sino al 1954, quando in seguito a un forte ammanco di soldi di cui fu responsabile il suo segretario, nel clima nuovo aperto dalla morte di Stalin, fu destituito dalla potente Commissione Organizzazione e dal 1955 sostituito da Giorgio Amendola. Si veda: P. SECCHIA, La Resistenza accusa. 1945-1973, Mazzotta, Milano, 1973, da confrontare almeno con: M. MAFAI, L’uomo che sognava la lotta armata. La storia di Pietro Secchia, Rizzoli, 1984.

4 F. LIVORSI, Neogollismo e politica di classe, “Mondo nuovo”, a. XIII, n. 46, 28 novembre 1971,

5 Mi riferisco ai famosi articoli-saggio di Enrico BERLINGUER Imperialismo e coesistenza alla luce dei fatti cileni, Via democratica e violenza reazionaria, Alleanze sociali e schieramenti politici, comparsi su “Rinascita” nel 1973 e che si possono leggere in: La questione comunista. Scritti e discorsi 1969/1975, a cura di A. Tatò, Editori Riuniti, 1975.

6 Al tempo della caduta del muro di Berlino o poco oltre, convinto che l’unità socialista della sinistra fosse inevitabile, e sentendo l’assoluto bisogno di una tribuna da cui dire la mia in modo alto e forte, pur essendo comunista accettai di collaborare con la stampa socialista. Scrissi molti articoli, “tutti” incentrati su due temi: la necessità di unire comunisti e socialisti in una casa socialista comune e la necessità di combinare insieme, come in Francia, riforme sociali e semipresidenzialismo. Su ciò si vedano i miei articoli firmati: Socialismo e presidenzialismo, “Critica Sociale”, n. 7, luglio 1990, pp. 23-29; Chi ha paura del presidente eletto dal popolo?, “Avanti!”, 7 agosto 1991; Quei gattopardi che demonizzano il presidenzialismo, ivi, 30 agosto 1991. Ma si veda pure la mia riflessione: Unità socialista e repubblica presidenziale. Perché no?, “Il Ponte”, a. XLVII, nn. 8-9, agosto-settembre 1991, pp. 102-121.

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