Pensierini inattuali – III – I due volti del populismo in cammino

Pensierini inattuali
– III –
I due volti del populismo in cammino

C’è un fantasma che – come il comunismo per Marx e Engels nel 1848 – si aggira per il mondo[1]: è il fantasma del populismo, che spesso genera, in modo “forte” o “debole”, “democratura”, cioè miscela tra democrazia e dittatura. Questo populismo – aperto alla “democratura” – è al potere nella Russia di Putin come nella Turchia di Erdogan, nell’America di Trump come nell’India di Narendra Modi, nell’Ungheria di Orban come nell’Israele di Netaniahu (fatte salve, naturalmente, le grandi differenze di contesti storici e istituzionali tra un Paese e l’altro). Tale populismo è caratterizzato dalla volontà di dare voce alle aspirazioni profonde, umorali ed emozionali, del “proprio” popolo così come emergono comunque, via via, di mese in mese, o addirittura di giorno in giorno (oggi rilevate tramite i sondaggi). Questo “proprio popolo” è inteso – dal populismo – come se fosse un organismo vivo, un corpo “vero”, una specie di identità unitaria fatta di tradizioni, lingua, religione, o “stirpe” pretese comuni a tutte le “persone per bene” della propria “nazione”: al di là di ogni divisione – considerata “artificiale”, e comunque non essenziale – tra classi e partiti; spesso al di là di ogni apporto di gente “straniera” o comunque di etnia pretesa “estranea”, percepita sempre come ostile, corruttiva, criminogena e comunque temibile, o quantomeno assai fastidiosa; e spesso al di là di ogni riconoscimento della rappresentanza elettiva, che, anche quando la democrazia sia riconosciuta – come nel populismo europeo occidentale del nostro tempo lo è – viene sempre ritenuta composta da una casta di privilegiati, di scansafatiche o di ladri potenziali (cui “tagliare le unghie”, come dis-onorevoli normalmente). Tale populismo porta poi alla valorizzazione della democrazia referendaria – e oggi del “popolo della rete” – “contro” la rappresentanza parlamentare (o “casta”), e all’estrema valorizzazione di capi popolo “carismatici” sentiti come rappresentanti immediati del preteso popolo sovrano “vero”, qualora siano ritenuti capaci d’intendere ed esprimere la voce della “pancia” di un Paese (ossia quel che esso “davvero” vuole via via). Questi “capi popolo” nel secolo scorso diventavano spesso dittatori, ma nella nostra epoca debbono accontentarsi, almeno in Europa e America del nord, di essere leader nella democrazia, sia pure accrescendo fortemente i loro poteri effettivi rispetto alla democrazia liberale, la quale non consente al potere esecutivo di inglobare, o comunque di mettere “normalmente” sotto i piedi, il potere legislativo e il potere giudiziario, cioè parlamento e magistratura. (Anche se un tratto forte di ogni vero assetto liberale non è solo la divisione, ma anche il bilanciamento tra i tre poteri fondamentali dello Stato).

All’interno dell’Unione Europea, tra gli Stati che più contano per posizione geopolitica, economia manifatturiera, numero di abitanti e storia dell’assetto comune – Germania, Francia e Italia, con la Gran Bretagna ora sostanzialmente fuori per scelta sua – il populismo tarda a “prendere il potere”; ma “noi” italiani siamo sulla buona strada. E siccome in Italia siamo “più bravi”, qui di populismi “al potere” – per ora in via eccezionale, e in modo molto instabile – ne abbiamo addirittura due (il Movimento 5 Stelle e la Lega), che governano insieme, sia pure – da un mese o due a questa parte – convivendo come cani e gatti. Ma potrebbe anche darsi che i governanti ora confliggenti come “anima” stellare pretesa di “sinistra” e anima leghista di “destra” siano come i ladri di Pisa, che di giorno – sotto elezioni – litigano, e di notte, e in specie dopo le elezioni, si spartiscono tutto, nella logica per cui passata la festa il santo popolo votante è gabbato. Io sospetto proprio questo e penso che dopo una qualche verifica più o meno movimentata, o eventualmente dopo una crisi di governo pilotata (verso un “lieto fine”), dopo le elezioni del 26 maggio M5S e Lega “torneranno” a essere culo e camicia, esprimendo due anime in relazione di emulazione, ma complementari, del populismo neo-reazionario che avanza. Credo dopo una “verifica” un poco mossa. Lo vedremo comunque ben presto. Anche volendo vedere il continuo conflitto tra M5S e Lega dell’ultimo mese come qualcosa di più di un confronto semplicemente per non perdere ancora voti e anzi per riguadagnarli rispetto ai sondaggi (da parte soprattutto del M5S), tendo a cogliervi più uno scontro tra alleati che competono per non sottostare in modo troppo masochistico l’uno all’altro che non come uno scontro vero tra posizioni alternative. I motivi di attrito vengono persino inventati da un giorno all’altro, con una demagogia strumentale senza uguali dal 2 giugno 1946 a livello di governo. Molti osservatori non concordano con me, ma a mio parere si sbagliano, anche se sarei felicissimo di sbagliarmi io. Comunque lo vedremo bene entro la fine di giugno. La verifica è dunque vicina.

Dubito che persino la situazione economica, che è grave e potrà aggravarsi, potrà far saltare un’alleanza che, prima delle elezioni politiche, non ha neanche alternative praticabili in Parlamento; e un Parlamento che corre alle elezioni, se possa farne a meno, debbo ancora vederlo. Del resto il potere – come diceva il cinico, ma non certo fesso, Andreotti – “logora chi non ce l’ha”: questi qui ce l’hanno, e tra loro il M5S sa che quando lo perderà tarderà moltissimo a riprenderlo. Se dovesse venir fuori un governo tecnico “super partes” non credo né che il M5S potrebbe preferirlo al proprio potere e neppure votarlo; e credo che pure l’aspirante “leader maximo”, Salvini, non potrebbe gradirlo affatto. Certo potrà o potrebbe sorgere un governo di “destracentro” Salvini, ma solo dopo elezioni politiche rischiose. Perciò credo che gli “sposi”, M5S e Lega, siano condannati a stare insieme a lungo, consolidando il matrimonio “dopo” le elezioni europee, dopo una piccola “resa dei conti”. Ma rispetto al grande tema del populismo, questi sono aspetti laterali, per quanto “qui” decisivi.

Qualche buon spunto per la comprensione del populismo, nel mondo come in Italia, ce l’ha dato, nei giorni scorsi, l’interessantissima conferenza del 2 maggio, all’ACSAL di Alessandria, di Marc Lazare. Egli si è dapprima riferito al libro suo e di Ilvo Diamanti “Popolocrazia. La metamorfosi della nostra democrazia”, da poco edito[2]. Vi si sostiene che il populismo non è da intendersi come un nuovo “ismo” (o rinnovato “ismo”, perché naturalmente il populismo storico viene da lontano, in specie dalle steppe della Russia, dove lo era stato pure il fratello impiccato di Lenin, Alexandr, populista terrorista che aveva attentato all’erede dello zar: un Alexandr certo mitizzato dapprima dal Lenin adolescente, poi convertitosi totalmente al marxismo e divenuto il più acuto critico del populismo stesso, in un grande saggio antelucano del 1894[3]). Il populismo, nel mondo d’oggi, non sarebbe cioè – secondo Lazare – una corrente politica, un’“ideologia”, come lo sono stati socialismo, comunismo, fascismo, eccetera, ma uno “stile politico”, ossia un insieme di atteggiamenti e orientamenti, non propriamente di destra o sinistra, ma trasversali (sebbene più frequenti, e più forti, a destra che a sinistra). Si tratta, più o meno, degli orientamenti di cui qui ho parlato all’inizio. L’emergere del populismo, con la forza che manifesta, in tanti paesi del mondo, presupporrebbe eventi epocali come: la fine del comunismo nel 1989/1991 e l’attentato islamico contro le torri gemelle di New York dell’11 settembre 2001, e, più in generale, la grande crisi dei partiti tradizionali specie dopo il crollo del comunismo sovietico del 1991, ma anche l’emergere del popolo della rete sempre interconnesso, e anche perciò un’opzione democratica invece che autoritaria com’era invece stata quella dei fascismi nel passato. Tutti quegli individui interconnessi in rete, uno per uno, per quanto atomizzati, costituirebbero un mondo d’opinioni assolutamente semplificate, o semplicistiche, ovviamente molto emozionali, che nessun potere potrebbe facilmente uniformare tramite atti di autoritarismo. Ma al tempo stesso le ondate di semplicismo ed emozionalità sono gettate necessariamente sulla bilancia della politica concreta, condizionando potentemente le decisioni dei governanti, oltre che degli oppositori, tramite continui sondaggi, che registrano gli “umori”, ormai “decisivi” ove le elezioni siano vicine (e da noi ce n’è sempre una incombente). Ciò starebbe già cambiando la nostra democrazia in “popolocrazia”, ossia in regime che tende a realizzare in modo immediato i bisogni giorno per giorno più “sentiti” dal “popolo”: cosa emulata molto dagli stessi avversari formali del populismo (“di destra”), che tutti twittano e procedono per messaggi categorici e brevi a scapito del vero e articolato ragionare (del quale spesso – aggiungo io – molti leader sotto i cinquant’anni sembrano spesso persino incapaci).

Lazare – facendo venire un brivido nella schiena a chi un pochino se ne intenda – diceva che per la crisi della democrazia liberale, cioè basata sulla divisione tra i poteri fondamentali dello Stato e incentrata sul mandato pieno dato alla rappresentanza eletta legalmente in carica – si può applicare la formula usata da Enrico Berlinguer nel 1981 quando aveva detto che l’URSS “aveva esaurito la sua forza propulsiva” (ma dieci anni dopo il “comunismo” cadde da Berlino a Vladivostock). E qua e là Lazare ha mostrato di ritenere che la democratura, che è poi il populismo visto da destra al potere (che miscela tratti di democrazia e di dittatura), potrebbe pure dilagare, come qui io ho più volte sostenuto negli ultimi mesi[4].

Ciò posto, però, se la “democratura” populista si aggira davvero per il mondo, perché non vedere in ciò il nuovo “ismo” sostitutivo del fascismo, ma sullo stesso terreno del fascismo?

Forse perché il populismo d’oggi non è né di destra né di sinistra?

Ma non bisogna confondere lo stato “nascente”, o di “genesi”, dei movimenti storici – come l’avrebbe detto Alberoni quando ragionava[5] – con il loro coagularsi come partito “di governo” (“istituzionale”). Il movimento reazionario con basi di massa del XX secolo, come Togliatti definì il fascismo nel 1935[6] – se è veramente tale, e non un più o meno effimero governo poliziesco, che senza seguito sentito e vissuto tra masse comunque imponenti in quest’area del mondo non dura – in Europa occidentale ha sempre implicato una certa trasversalità, specie dopo la Grande Guerra. Spesso, in Europa Occidentale – specie dopo la prima guerra mondiale – il “movimento reazionario con basi di massa” mimetizza l’avversario “di classe”; e perciò – dico io, usando i colori come metafora – “nasce” metà rosso e metà nero (e talora anche più rosso che nero); ma poi, finita l’infanzia del movimento e approssimatosi al potere, diventa sempre per tre quarti nero (reazionario, o controrivoluzionario) e solo per un quarto rosso (riformista, socialista, eccetera). Tutta la dialettica tra fascismo-movimento e fascismo-regime, tanto investigata da Renzo De Felice[7], e comunque tutta la differenza tra il fascismo del 1919-1920 e quello dal 1921 in poi, sta lì. La contaminazione è stata tale che il nazionalsocialismo metteva il cerchio con la sua tremenda svastica entro una bandiera rossa; celebrava ogni anno il primo maggio in pompa magna ed ebbe a lungo all’interno, sino al 1930, una forte “sinistra” – dei fratelli Strasser – che avrebbe voluto il collettivismo economico e persino, per molti, un’alleanza politica, non solo tattica, con l’URSS (fu sconfitta definitivamente da Hitler, il cui cuore da razzista antisemita e da piccolissimo borghese austriaco frustrato e furibondo, batteva più decisamente all’estrema destra, ossia in senso nazionalista razzista e imperialista, furiosamente anticomunista, appena con una spolveratina di rosso per attrarre anche una parte di lavoratori[8]).

Il governo gialloverde che c’è ora in Italia, egemonizzato dalla minoranza di Salvini, che rappresenta ora un italiano su tre dal più al meno, per ora è un esperimento. Si mescolano gli opposti, ancora in modo paritario: il “rossiccio” del M5S e il “nero” della Lega salviniana. I due lottano per non dare “sangue” prezioso l’uno all’altro, ma anche per vedere quanto di “rosso” e quanto di “nero” dovrà caratterizzare quello che pare a me un compromesso storico tra due populismi, o addirittura il doppio volto del populismo. Anche alle origini del fascismo c’erano stati, insieme, ex socialisti “rivoluzionari” di primo piano come lo stesso Mussolini e tanti ex sindacalisti rivoluzionari o repubblicani, e tanti ex nazionalisti o di tale pasta, ossia c’erano stati rossi e neri, ma col nero (reazionario, controrivoluzionario) destinato ben presto a permeare il tutto, sia che venisse dalla prima “anima” o dalla seconda (anche se l’anima “rossa” restò sempre come un fermento, buono a far sognare i giovani inquieti che si sentissero “rivoluzionari”, così integrandoli, utilmente, “nel sistema”).

In realtà oggi si sta formando un nuovo blocco storico reazionario con basi di massa, diverso dal fascismo perché non è né violento né dittatoriale, ma omologo a quello. E l’Italia è, come sempre, una gran fabbrica del futuro, anche indesiderabile. Più durerà il Governo “giallo-verde”, anche dopo le elezioni europee del maggio 2019, e più elementi (ed elettori) del M5S saranno incorporati nel movimento reazionario di massa che, nel quadro democratico più o meno sterilizzato, viene realizzando il leghismo neo-nazionalista di Salvini. Probabilmente Di Maio incarna, insomma, una tendenza, di cui per ora è difficile immaginare la consistenza finale, “di destra” – al di là degli strilli pre-elettorali “rossi” – destinata ad essere organicamente presa all’interno della tela “nera” di Salvini. Ma anche se i due movimenti accorciassero le distanze elettorali, la cosa non muterebbe molto perché i due populismi, a mio parere, sono complementari (“armonia dei contrari come quella dell’arco e della lira”, avrebbe detto Eraclito 2500 anni fa[9]).

Questo non è fascismo, perché non ha senso parlare di fascismo dove non c’è ideologia strutturata, tendenza al totalitarismo, violenza “sistematica” contro gli avversari né rischio di dittatura. Emilio Gentile l’ha spiegato bene nel suo ultimo libro[10] e Lazare, su ciò, nella conferenza che ho più volte richiamato qui, mi ha definitivamente convinto su ciò (però con una precisazione importante, di cui ora dirò). Sì, è vero, questi qua, i populisti di destracentro (senza trattino), che si stanno espandendo sia con l’arroganza popolaresca di Salvini che come movimento dei cittadini democratici “onesti” di Di Maio, non hanno la minima intenzione di limitare i poteri elettivi del popolo, e non sono più né razzisti (pur essendo xenofobi) né tantomeno antisemiti, ma anzi sono spesso filo-israeliani (data oltre a tutto la politica populista di Netaniahu, non certo incompatibile con l’antislamismo radicale leghista). Ma essi sono per la democratura, ossia per la democrazia che Orban dice “illiberale”, che pone il governo del “pueblo”, ora pure cosiddetto “della rete”, come “dominus” rispetto al parlamento; e certo pure, quando sarà, per Salvini rispetto alla magistratura. Ma dopo il 1945 nel loro insieme – a parte taluni gruppuscoli pseudorivoluzionari, presenti come opposti estremismi – neanche i fascisti, in Francia come in Italia, hanno mai preteso di più[11]. In Francia de Gaulle nel 1958 era stato invocato al potere dalla destra dei generali e dei colonialisti d’Algeria (non certo per chiudere la guerra d’Algeria come ben presto fece), e in Italia un centrodestra consolidato, comprensivo dell’estrema destra neofascista, era stato addirittura il sogno di Pio XII e allora della sua potentissima chiesa, almeno per Roma, nel 1952 (ma fare questo a Roma non sarebbe stato come farlo a Roccacannuccia)[12]. Quella finestra del centro aperta verso l’estrema destra, fatta fallire da De Gasperi, che perciò non fu più ricevuto in Vaticano sino alla morte, restò aperta, come possibilità, dopo il 1952, per ben otto anni. L’ipotesi democratico-reazionaria nel luglio 1960, incarnata dal Governo Tambroni, fu sconfitta dalla forza d’urto del movimento operaio, che era in espansione grazie al “miracolo economico” e alla potenza crescente del numero (nelle fabbriche dell’operaio-massa, della catena di montaggio, del tempo), e grazie alla capacità di mobilitazione politica e tattica di Togliatti, il quale ultimo era un autentico genio politico. Poi il disegno democratico-reazionario, fallito nel luglio 1960, però provò a rinascere, tale e quale a quello fallito tra 1952 e 1960, con Berlusconi nel 1994. Berlusconi iniziò anzi la propria grande avventura populista di centrodestra proprio aprendo al neofascismo nella lotta per il Campidoglio del 1994, emulando – senza volerlo esattamente – il sogno papale reazionario del 1952 (sostenuto in quegli anni dal nobilissimo antifascista don Luigi Sturzo). E oggi, in una forma che per l’estrema destra dal 1945 era follia sperare, il disegno democratico reazionario torna come ipotesi di destracentro senza trattino, ma con un apporto di populismo di sinistra addomesticato, la cui consistenza è difficile da calcolare a tavolino, di una parte certo importante del M5S, dopo crisi interna, dopo le elezioni europee. Queste sono le basi della democratura (“nera” e “rossa”, e “quanto” si vedrà), che affermandosi in uno dei tre grandi Paesi dell’Europa, l’Italia, avrebbe un significato non meno importante per i “vicini” del governo Mussolini del novembre 1922 (lo ripeto: questa volta senza dittatura alcuna).

Tutto ciò non è fatale (sia assolutamente chiaro). Ma ogni ondata del genere – ci insegna Madama la Storia – non si vince né con gli strilli da “Dagli all’untore” rivolti al preteso tiranno, che lo accreditano anzi come “Duce” in panchina, e neppure con i blocchi trasformistici tra moderati e “innovatori” di turno, che via via inquinano moralmente e rovinano finanziariamente uno Stato liberale o liberaldemocratico.

Occorre piuttosto vincere l’avversario neo-reazionario andando incontro alle pulsioni che l’alimentano rispondendo ad esse in una chiave democratica e progressista. Ad esempio secondo me è chiaro che la sconfitta di Renzi ha voluto dire anche sconfitta di un possibile populismo democratico e di sinistra: sconfitta che per ciò è stata manna dal cielo per il populismo democratico di estrema destra di Salvini (e per quello forzatamente, ma non casualmente, complementare di Di Maio).

Va comunque notato, su un piano più “storico”, che la vittoria del populismo – base di massa e “ideale” dell’incombente “democratura” – ha ragioni molto profonde. Oggi nel mondo della globalizzazione intanto c’è una pericolosissima frattura generazionale (giovani contro vecchi, anche se questa volta i primi non cantano “Giovinezza”): frattura alimentata dal fatto che uno su tre giovani in Italia non ha lavoro; e quando il giovane questo lavoro ce l’abbia, spesso è precario. Inoltre c’è, in Italia, il terzo debito pubblico del mondo, e cresce. Ci sono non già troppi immigrati, ma troppi immigrati abbandonati per strada a chiedere la carità o peggio, invece che ospitati e messi a lavorare, “in cambio”, anche se “in transito” o “irregolari”, dai pubblici poteri. Inoltre nell’Unione Europea – che pure ci ha costretti a comportamenti economici meno irragionevoli, e soprattutto ci ha impedito di fare dissesto come l’Argentina o il Venezuela comperando i nostri titoli di Stato decotti – c’è “troppo poco unione europea”. L’UE non si fa carico di gestire “tra 27 Paesi” gli immigrati, e i “nostri” cittadini si spazientiscono. E ogni “potenza” vuol fare il suo “gioco” in politica estera, come si vede con la Libia, ma pure nei rapporti economico-politici Italia-Cina. Bisogna rilanciare, anche a piccoli passi, gli Stati Uniti d’Europa, cominciando a unire la gestione degli immigrati, l’esercito e la politica finanziaria. E la sinistra deve rinascere, nei programmi “storici”, nei fini “politici” e nell’organizzazione territoriale “capillare”. Purtroppo per ora non accade.

Anzi, un fenomeno assolutamente impressionante è il fatto che mentre la sinistra non riesce ad andare oltre la difesa del vecchio Welfare State e oltre la difesa del lavoro di chi ce l’ha, e, inoltre, a dispetto dell’epoca della “democrazia del leader”[13], seguita a far fuori tutti i capi con un minimo di carisma, e con un progetto di democrazia bipolare, da Veltroni a Matteo Renzi (se non addirittura da Occhetto a Renzi), l’area di destracentro (o di centrodesta) non ha tali ubbie, e rinnova persino, in misura rilevante, il suo vecchio bagaglio ideologico (non limitandosi a lasciarlo cadere ove sia impraticabile, come fa la sinistra). Per questo la democratura ha purtroppo tante chances di vittoria. Marine Le Pen ha commesso il suo piccolo parricidio “ideale”, e Salvini il suo “bossicidio” e “maronicidio” politico, sostituendo la patria italiana alla patria pretesa “padana”. E probabilmente l’americano Steven Bannon è davvero un ideologo del populismo di destra mondiale che dovremmo studiare criticamente ben bene, e Salvini è oggi, in Europa, il suo primo profeta (però con Di Maio “unito nella lotta”, sino a prova contraria).

Tuttavia non dobbiamo neppure cedere al cupo pessimismo e al disfattismo sterile, perché non essendo in gioco la democrazia, ed essendo oggi piuttosto volatili tutti i fenomeni di consenso nel tempo di Internet e dei media insopprimibili, c’è tutto il tempo di rifarsi “come sinistra”, purché ci si sappia rinnovare profondamente, tramite soluzioni al passo idealmente, programmaticamente e organizzativamente con i tempi: forte opzione ideale liberale, socialista e ambientalista; forte opzione per la democrazia bipolare, basata sul maggioritario a due turni e in ogni caso su norme garanti di governi di legislatura; una giustizia rapida ed efficace; meno tasse sul lavoro e investimenti nei lavori pubblici; lotta senza quartiere contro la criminalità organizzata specie al sud; sostegno ad ogni forma di cooperazione e cogestione nell’economia, e pratica di ogni forma di volontariato nel sociale; impegno forte verso gli Stati Uniti d’Europa, da anticipare tramite comune gestione tra ventisette Paesi di immigrati, politica finanziaria e politica militare, Prima o poi tali “fini” – nel loro insieme o in molti tra tali punti – torneranno ad essere il comune sentire di una grande comunità organizzata di lavoratori e cittadini, che in quest’epoca solo il PD può organizzare (sicché andrebbe sostenuto).

Potrà accadere, ed anzi accadrà di certo, ma quando?

(Segue)

(vai a Pensierini inattuali I – II – III)

  1. K. MARX – F. ENGELS, Manifesto del partito comunista (1848), a cura di E. Cantimori Mezzomonti, e con Introduzione di B. Bongiovanni, Einaudi, Torino, 1998.
  2. Laterza, Roma-Bari, dicembre 2018.
  3. In Russia, prima del 1917, il “popolo genuino”, ossia il popolo “populisticamente” inteso, era opposto sia allo zarismo che al modo di essere occidentale, capitalistico o anche socialdemocratico. Il “vero” popolo in Russia era stato identificato, tra fine del XIX secolo e 1917, soprattutto con i contadini, con idea di un socialismo rurale, basato sulle comunità di villaggio (mir), saltando il capitalismo, che però secondo i marxisti era ormai arrivato irreversibilmente in Russia. I populisti russi erano talora terroristi, come il fratello di Lenin (che si chiamava Vladimir Ilic Ulianov), Alexandr, impiccato perché aveva attentato alla vita del successore al trono. Il LENIN protomarxista, post-populista, scrisse il suo primo importante saggio proprio contro il populismo: Che cosa sono gli “Amici del popolo” e come lottano contro i socialdemocratici (1894), in “Opere complete”, I, Edizioni Rinascita, Roma, 1955, pp. 123-339. Ma si veda soprattutto il classico: Franco VENTURI, Il populismo russo, Einaudi, Torino, 1952, due voll.
  4. F. LIVORSI, Sinistra e Partito Democratico nell’”era” di Salvini, “Città Futura on-line”, 24 febbraio 2019; La decadenza della democrazia, 3 aprile 2019.
  5. F. ALBERONI, Movimento e istituzione, Garzanti, Milano, 1977.
  6. P. TOGLIATTI, Lezioni sul fascismo (1935), a cura di E. Ragionieri, Editori Riuniti, 1967.
  7. R. DE FELICE, Mussolini, Einaudi, Torino, 1965/1996, quattro volumi in otto tomi.
  8. Il dato è noto. Comunque rinvio particolarmente a: A. BULLOCK, Hitler. Studio sulla tirannide (1952, 1962), Oscar Mondadori, Milano, 1979, pp. 88-89, sul 1930. In quel caso fu espulso Otto Strasser, capo della sinistra. Problemi del genere si affacciarono sino al 1934, pp. 164-171. Lì si vede che la strage delle S.A. di Rohm del giugno 1934 aveva un nesso con questa “sinistra” nazista, che dopo l’espulsione di Otto Strasser nel 1930 contava ancora tramite Gregor Strasser, fratello di Otto, e il sovversivismo di Rohm. In pratica i veri “conti”, con liquidazione dell’ala cosiddetta di sinistra, tramite centinaia di assassinii (tra cui Gregor Strasser), furono fatti nel giugno 1934.
  9. ERACLITO, Dell’origine (VI/V secolo a.C.), a cura di A. Tonelli, Feltrinelli, Milano, 1993: frammento 11 a p. 54 e 15 a p. 58.
  10. E. GENTILE, Chi è fascista, Laterza, Roma-Bari, 2018.
  11. Su ciò si veda soprattutto: P. IGNAZI, Il polo escluso. Profilo del Movimento Sociale Italiano, Il Mulino, Bologna, 1989.
  12. Il papa, Pio XII, temendo che il Colosseo venisse conquistato dai detestati socialcomunisti, voleva che la Democrazia Cristiana, allora legatissima al Vaticano, accettasse di allearsi elettoralmente con i neofascisti del Movimento Sociale Italiano, tramite lista civica presieduta dal fondatore del Partito Popolare e antifascista indiscusso, don Luigi Sturzo, che accettava. In sostanza il papa, cercando di accentuare il carattere di destra del centrismo contro i comunisti e socialisti, voleva sdoganare il neofascismo, esattamente come fece Berlusconi nel 1993 in scenario analogo. Ma allora il fascismo era finito da soli sette anni. De Gasperi, pressato molto dal papa tramite un emissario che per ironia della storia era il futuro papa riformista Paolo VI, ebbe il coraggio di rifiutare, anche se non fu mai più ricevuto in Vaticano. Su ciò è da vedere la tardiva, ma finalmente esaustiva e vera, biografia del grande statista trentino: P. CRAVERI, De Gasperi, Il Mulino, Bologna, 2006.
  13. M. CALISE, La democrazia del leader, Roma-Bari, Laterza, 2016.

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