II) Operai e capitale nell’Italia in cammino: il “punto di vista” di Mario Tronti

Per leggere l’intero saggio

Torno a riflettere su Mario Tronti, sempre a partire dalla sua opera più famosa (Operai e capitale, 1966 e poi 1970), ma questa volta per portare l’attenzione sui suoi scritti ulteriori, compresi tra il 1971 e il 2023. Taluno potrà pure pensare che io sopravvaluti questo Pinco Pallino di Mario Tronti, che in fondo – si dirà – ha scritto un solo libro – per altro controverso anche per molti tra quelli “che se ne intendono” – veramente importante, appunto Operai e capitale[1], che nel mio saggio del 16 agosto io avevo continuamente in mente; e poi, dopo quella breve stagione tra “Quaderni rossi” (1961/1963) e “Classe operaia” (1964-1967), è stato un comunista di seconda fila del PCI, pure senatore “bersaniano” a un certo punto; e prima, per anni, professore di Filosofia in una media superiore, e per una ventina d’anni incaricato di “Filosofia politica”, credo mai ordinario, all’Università di Siena, scrivendo ovviamente in tutto quel tempo alcuni libri.

Si vedrà. Io credo che Tronti non sia certo stato né un Marx né un Lenin o Trockij o Rosa Luxemburg, ma penso pure che in una vera storia del marxismo italiano Tronti dovrebbe emergere tra i filosofi politici più importanti, quanto lo è Norberto Bobbio in un’ideale storia del liberalismo democratico. In una vera storia del marxismo in Italia, che non c’è, non sfigurerà affatto accanto a Antonio Labriola o Rodolfo Mondolfo, ma persino, per quanto la mia affermazione potrà parere assurda, accanto a Gramsci, almeno sul terreno filosofico politico.

Nella mia troppo lunga meditazione su Tronti nella storia del marxismo operaista del 16 agosto 2023, ho già fatto molti riferimenti al Tronti di Operai e capitale, ma c’era appunto ben altro, che sono poi andato a leggere o rileggere, prendendo un mare di appunti soprattutto su due grossi libri di Mario Tronti: Il demone della politica. Antologia di scritti (1958-2015) e Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero (2015).[2] Ora proverò a dire quel che ne ho ricavato, facendo parlare anche l’autore, per quel che si può vagliando con cura queste mille pagine circa, oltre a Operai e capitale e al resto. Mi sono pure premurato di andare ad ascoltare, prendendo appunti, diversi suoi interventi su Youtube, in occasione dell’uscita dei suoi ultimi libri negli ultimi dieci anni della sua vita e di taluni dibattiti su temi decisivi.

Taccio su quisquiglie (ne “Il demone della politica” pp. 12/13 e n. 2)[3], che però sarebbe bello approfondire, come la tesi di laurea in Filosofia (su che cos’era? E com’era?) discussa all’Università “La Sapienza” di Roma con l’importante filosofo gentiliano di sinistra Ugo Spirito, forse la testa più forte del socialfascismo dagli anni Trenta del Novecento al secondo dopoguerra, dove in piena guerra fredda, pur restando un fascista (sempre molto “di sinistra”), era apertamente più favorevole all’economia pianificata e all’URSS che non agli Stati Uniti, che detestava[4]. Costui aveva pure elaborato una filosofia attualista, gentiliana ma a sé stante, chiamata “problematicismo”, che non ho qui occasione di riprendere, ma che sul piano della filosofia della religione è interessante.

Comunque credo vero che sin dall’inizio Tronti sia stato un comunista, già a ventiquattro anni, nel 1956, segretario della cellula del PCI all’Università della Sapienza di Roma, cui erano iscritti studenti e docenti comunisti. Tra questi c’era pure Lucio Colletti, allora assistente di Ugo Spirito. Tronti, sempre “operaista” nell’anima, si sentiva, inoltre, prossimo dalla prima infanzia dei proletari e popolani del Testaccio e della Garbatella, plebe romana antica e nuova, a suo dire la stessa delle poesie di Gioacchino Belli, e che avrebbe dato a lui, e pure ai suoi figli, la “giusta dritta” nella vita (come dice nel “Demone della politica” in una bella pagina”). Lì, prima ancora dell’Università, avrebbe fatto le sue esperienze di vita come comunista tra i proletari.[5] Io pure nell’infanzia e prima fanciullezza ho avuto il mio Borgo San Paolo natio di Torino, mai dimenticato né da me dimenticabile, ma da cui la vita della mia famiglia mi portò via. Tronti, invece, restò nelle sue periferie semiproletarie sino alla morte.

Affacciandosi sulla scena della sinistra dopo la grande svolta del 1956, cercava una terza via nel marxismo. Certo non gli andava bene il marxismo “sovietico”, il famoso “diamàt” (materialismo dialettico), che cercava la dialettica già hegeliana tesi antitesi sintesi nelle cose stesse, pure nel movimento degli e negli atomi, ed era intriso di determinismo economico, esso pure con pretesa di riflettere rapporti “oggettivi”, e che Gramsci aveva criticato, nei Quaderni del carcere, in Bukharin; ma non gli andava bene neppure quello che sarà detto “italocomunismo”, qui nel senso di “italomarxismo”, che accentuava moltissimo il ruolo primario della coscienza nella storia (il sottofondo idealistico hegeliano del materialismo storico o marxismo), in un iter che sarebbe venuto tutto da Gramsci, ripreso da Togliatti, e che come hegelo-marxismo culminerà ne Il marxismo come storicismo di Nicola Badaloni (1962).[6] Lì, nel marxismo più legato all’hegelismo (o idealismo), prevalso nel PCI tra Gramsci e Togliatti, persisteva l’idea di un partito fonte di educazione delle masse popolari, “illuminato” da una Coscienza superiore, “illuminante” per suo tramite (piuttosto che parte “interna” delle masse stesse, quasi che la coscienza, come nell’idealismo hegeliano, irradiasse da una comunità etica collettiva, da un’entità sovraordinata, che lì era il “Partito Comunista” invece che lo Stato etico hegeliano, o neo-hegeliano). Tronti perciò prendeva un poco le distanze pure da Gramsci, come si vede ne “Il demone della politica”, nel saggio del 1959 (aveva allora ventisette anni) Tra materialismo dialettico e filosofia della prassi, Gramsci e Labriola[7].

Ricercava piuttosto un marxismo scientifico rivoluzionario, ma tramite una scientificità umanistica più che risolta nella pretesa oggettività dei rapporti economici (in ciò diversamente da Lucio Colletti): scientificità “umanistica” che pure pretendeva di cogliere nella realtà studiando il Marx filosofo economista dei Grundrisse e tutti i volumi del Capitale, che con evidenza egli conosceva a fondo[8]. Questa “nuova scienza”, intesa come marxismo creativo, mirava a cogliere, nella stessa economia in divenire, l’universalmente umano (hegeliano). Quest’ideale dell’universalmente umano, che Tronti cercava di cogliere nella realtà economica tramite le categorie di “critica dell’economia politica” caratteristiche del Capitale[9] e dei Grundrisse di Marx, avrebbe dovuto includere pure lo svelamento della soggettività rivoluzionaria. Questa soggettività rivoluzionaria, in tal caso del mondo operaio, era intesa da Tronti come una sorta di fuocherello sotto il paiolo della storia che si fa sempre collettivamente, tramite gli interni conflitti economico sociali politici e ideali: storia di cui i soggetti singoli sarebbero appena epifenomeni, un portato della storia, per quanto talora ci appaiano protagonisti veri, come Napoleone o Lenin. Lo sono, o sarebbero stati, ma solo come punta dell’iceberg sociale-politico che li ha fatti o fa venir fuori, e non certo “solo”, o “soprattutto”, come persone. In Tronti non c’era, e non ci fu mai, nessuna fascinazione per il mito del Capo, fosse pure quello trattato da Max Weber e approfondito da Schmitt[10]; certo a tratti può esserne stato suggestionato, ma sempre con la consapevolezza che i capi sono solo espressione e portavoce di un grande movimento collettivo, come insegnava Marx, ma in realtà già Hegel. L’impersonalimo, nel senso di società o intersoggettività anteriore all’individuo (che ne è solo una particolare espressione), rimase un tratto forte in Tronti quasi dall’inizio alla fine: un impersonalismo, o sovrapersonalismo, che però non condivido affatto, e in fondo non ho mai condiviso, pur riconoscendo che è un tratto forte del marxismo; ma in tal caso tanto peggio per il marxismo. Tronti poteva pure, alla fine, essere aperto all’inconscio (però collettivo), alla psicologia del profondo, qua e là con qualche cenno positivo a Jung e Hillman (in Dello spirito libero), ma in una visione in cui il “noi” viene prima dell’Io e spiega l’Io, o prima dello stesso inconscio individuale (compreso in quello collettivo). Il vero Io è, o sarebbe, sempre intersoggettivo, “tutti noi”, e in specie tutto il movimento collettivo fonte di storia. Di questo “noi” la singolarità potrebbe sì essere una straordinaria voce, ma che emerge da un humus comune, e sempre tale. Può darsi che questo sia pure l’A, B, C di Hegel e di Marx, ma in Tronti questo impersonalismo, o sovrapersonalismo, è stato molto interiorizzato (mentre da ciò Nietzsche e Kierkegaard mi hanno cauterizzato sin dal principio).

A un certo punto però pure Tronti, alla fine, ha scoperto che il singolo può prescindere dal “generale”, dal sovrapersonale o collettività umana, come “spirito libero”; ma in tal caso solo come l’anti-storia, in certo modo distaccandosene, con l’approccio che in Veneto direbbero un “trarse fora”, per opporsi ad una decadenza senza fine in cui la storia in questo tempo sciagurato sarebbe ora precipitata. Ma su ciò tornerò.

Ma ab ovo, sulla base di un marxismo inteso come “scienza della rivoluzione in cammino”, nel 1961 Tronti vedeva tutto il divenire come opera di collettività in cammino: in chiave comunista come collettività proletaria che nel profondo fa la storia, a prescindere dalla consapevolezza dei singoli. Diventò cofondatore dei “Quaderni rossi” di Panzieri, con cui però già nell’agosto 1963 ruppe da sinistra (come sinistra dell’estrema sinistra), con alcuni amici: non senza però aver pubblicato prima, sui “Quaderni rossi”, saggi che nel consenso come nel dissenso Panzieri aveva apprezzato moltissimo, come La fabbrica e la società (1962)[11], e Il piano del capitale (1963), che poi naturalmente Tronti avrebbe riproposto in Operai e capitale.

Qui emergeva già un punto differenziale importantissimo rispetto alla sinistra tradizionale, socialista e anche comunista. Di solito si diceva, pure da parte di Vittorio Foa, che nell’operaio c’è una duplice natura: da un lato l’operaio è forza-lavoro del capitale, ma dall’altro è persona, che vuole dipendere solo da sé stessa (mira in modo ancestrale all’”autonomia”)[12], cioè mira a non dipendere da nessuno. Ma Tronti unificava le due parti (l’essere l’operaio “forza lavoro” e libera persona), vedendo la classe operaia, o l’operaio (collettivo), contemporaneamente, e sempre, al tempo stesso come forza lavoro e persona. Lo affermava perché l’essere umano è “tutto quanto” materia, ma “materia umana”, materia pensante[13]; e poi perché nella prassi è sempre così (“sarebbe” sempre così): tanto più nel nostro mondo neocapitalista o super-capitalista. In tal caso l’operaio, essendo il soggetto sottinteso oltre che l’antitesi del Capitale (forza lavoro e libero-creativo), risultava (sarebbe risultato) il soggetto collettivo “del” e “nel” capitalismo: un capitalismo che l’operaio collettivo avrebbe fatto vivere benché fosse sfruttato (donde il grande titolo del suo opus del 1966, appunto “Operai” – al primo posto – e “capitale” – al secondo posto – anche se Marx non a caso aveva invece intitolato il suo opus “Il capitale” (perché lì, in Marx, l’operaio è soprattutto “v”, capitale variabile, salariato dipendente dal Capitale che lo compera al mercato, finché il Capitale non salti e venga fatto saltare per aria dalla rivolta dei lavoratori, che ferve dal principio, ma prigioniera del capitale, e sino alla rivolta contro il Capitale, o “alle” rivolte contro il Capitale, irriducibilmente tale, che sconvolgono le pretese leggi economiche oggettive del capitale, come il meccanismo del plusvalore e del profitto). E infatti nel vasto saggio Marx, forza-lavoro, classe operaia, del 1965, già in Operai e capitale[14], Tronti scriveva: “La figura schumpeteriana dell’imprenditore, con la sua iniziativa innovatrice, ci piace vederla rovesciata nella permanente iniziativa di lotta delle grandi masse operaie.”[15] Sarebbero proprio le masse lavoratrici in lotta contro il Capitale a forzare il Capitale allo sviluppo. Ogni evoluzione della tecnologia avverrebbe come tentativo del Capitale di seguitare a far profitto rispondendo ai problemi che la resistenza della classe operaia allo sfruttamento pone nel corso del tempo. Non è una faccenda politicamente sempre sotto la bandiera rossa, perché si manifesterebbe pure in contesti in cui l’apparenza sembrerebbe dire il contrario.

Ad esempio anni dopo (1970), nella seconda edizione di Operai e capitale, vagliando il rapporto positivo instaurato dagli operai americani, di solito detti integrati nel sistema capitalistico, col New Deal di Roosevelt del 1933-1934, poteva dire che “se mettiamo l’occhio sui risultati, vediamo che quanto ha ottenuto il nuovo sindacalismo industriale dentro il New Deal non lo ha ottenuto mai nessun partito della classe operaia”. E insisteva dicendo che “Una lettura ‘americana’ del Capitale e dei Grundrisse [di Marx] si raccomanda a chi possiede il gusto o il genio della scoperta critica.” E aggiungeva che “C’è una storia americana di organizzazioni che non sono partito, eppure sono vere organizzazioni operaie Così come c’è un filone americano di pensiero che non è marxista, eppure è vero pensiero operaio.”[16]

Questo consentiva di superare un “rivoluzionarismo” antico anche bolscevico che distingueva bene il “prima” e “dopo” la rivoluzione. In sostanza la rivoluzione operaia, essendo sempre operante per lo sviluppo del capitalismo (spinto suo malgrado oltre) e contro il capitalismo (per superarlo), sarebbe permanente, ben prima della conquista del potere se non addirittura a prescindere da essa. La classe operaia sarebbe sempre dentro e contro il capitalismo, come il capitalismo sarebbe sempre dentro e contro la classe operaia, con impostazione di compresenza tra opposti – operai e capitale – in vista di un oltre, o sintesi superatrice degli opposti. Direi che è come quando diciamo che nell’organismo c’è un cervello della testa e uno dell’intestino: c’è una logica o cervello sociale del lavoro dipendente e ce n’è una, altrettanto sociale, del Capitale; esse sarebbero nemiche, ma al tempo stesso interdipendenti. Questa visione che tramite l’urto dei contrari produce lo sviluppo, nella rivoluzione continua, che culminerebbe nella rivoluzione operaia, naturalmente trasuda di idealismo hegeliano e neo-hegeliano, o di marxismo hegeliano (ossia dialettico idealistico): però non come mera coscienza ideale immanente, come si credeva fosse la linea che da Antonio Labriola tramite Gramsci portava a Togliatti, ma come “scienza” (un’idea di “scienza” di cui Cacciari ha colto qualche eco della vichiana “Scienza nuova”, vista come “la Storia”, che potrebbe diventare scienza, più della cartesiana matematica, perché l’uomo, qui collettivo, la fa[17]). Tronti, in quella fase ultraoperaistica, sottolineava “la portata oggettivamente rivoluzionaria dello sviluppo capitalistico”: “Per cui, la rivoluzione operaia – diceva già in La fabbrica e la società (1962) – non deve avvenire dopo, quando il capitalismo è già crollato nella catastrofe di una crisi generale, né può venire prima, quando il capitalismo non ha neppure cominciato il suo specifico ciclo di sviluppo. Può e deve avvenire contemporaneamente a questo sviluppo, deve presentarsi come componente interna dello sviluppo e al tempo stesso come sua interna contraddizione …”[18].

In questa visuale, come in: La rivoluzione copernicana (1963)[19], sempre di Tronti, a fare la rivoluzione capitalistica è la classe operaia, in una sorta di rivoluzione appunto permanente, che tramite il perseguimento del proprio interesse collettivo anche immediato, e forse soprattutto immediato, attraverso la lotta disloca in avanti tutto il sistema cui inerisce. Si può cogliere il retroterra di tale vision in quello che Lenin, certo l’autore più caro a Tronti dopo Marx (o quanto Marx), aveva teorizzato nel 1905 in Due tattiche della socialdemocrazia, per spiegare la possibilità in Russia di fare il capitalismo tramite il potere “politico” della casse operaia (una “rivoluzione borghese senza borghesia”, diceva lì Lenin). In quel vasto saggio Lenin aveva spiegato che spesso la borghesia, sconfitto il precapitalismo (o i poteri feudali, i tratti parassitari più gravi che frenano lo sviluppo, cioè la “reazione”) ha interesse a cercare subito il compromesso con le forze del passato, come monarchia, latifondismo, chiesa, eccetera, per timore dell’avanzata del movimento operaio: mentre i proletari hanno l’interesse opposto, come i giacobini (Lenin chiamava i socialisti democratici rivoluzionari russi “giacobini marxisti”)[20]. Questa visione di un proletariato più interessato della stessa borghesia allo sviluppo del capitalismo, purché non dominato dalla borghesia, passava a Tronti.

Quest’impostazione però comportava pure – dopo il primo risveglio alla lotta degli operai della stessa FIAT (Torino, 1962) – anche se la ripresa “piena” delle lotte in grande stile lì sarebbe arrivata anni dopo – un’idea, in parte ingenua e in parte preveggente – in anni che visti a posteriori erano di palese preparazione del futuro autunno caldo – di attualità della rivoluzione operaia.

Su questo Raniero Panzieri non poteva concordare, in parte perché avendo nove anni più di Tronti e dei suoi pur stimatissimi amici romani era più scafato politicamente, come Tronti e compagni poco sapevano nonostante la frequentazione a Roma ancor prima dei “Quaderni rossi”, come si vede pure nell’intervento del 2005 – pur molto interessante – su Panzieri, dello stesso Tronti, di tanti anni dopo, L’eredità di quello che è stato (tratto da un volume su Panzieri del 2011 curato da Paolo Ferrero)[21], in cui sembra che non ci sia sospetto del fatto che Panzieri era stato segretario del P.S.I, della Sicilia, mandato da Rodolfo Morandi (decisivo Vicesegretario del Nenni di quel tempo), al tempo dell’occupazione delle terre nella Sicilia del secondo dopoguerra; era stato assistente volontario di della Volpe a Messina, e direttore, voluto e stimato da Nenni, del mensile del PSI “Mondo operaio”, oltre che redattore (licenziatosi credo nel 1961) all’Einaudi di Torino, e fondatore e direttore dei “Quaderni rossi” (1961/1966[22]). Panzieri si entusiasmava dei movimenti di massa spontanei, da vero luxemburghiano socialista, che poneva sempre la classe lavoratrice “sopra” il partito, e criticava sino alla rottura la dirigenza socialista e comunista del 1962 (che nei fatti di Piazza Statuto in cui operai FIAT avevano occupato per giorni la piazza e attaccato persino la sede della UIL, considerata allora padronale, aveva visto fascisti all’opera); ma ciononostante Panzieri non era neppure disposto a vedere nei movimenti spontanei degli operai una specie di rivoluzione già en marche, che un’avanguardia antagonistica, di cui il gruppo si considerava il nucleo, avrebbe potuto dirigere. Per lui andava fatto un lungo lavoro di conoscenza-intervento tra i lavoratori, in cui si accentuava il momento dell’educazione-autoeducazione all’antagonismo, incentrato sull’inchiesta tra gli operai. L’autogoverno operaio, come per Marx e Rosa Luxemburg, per Panzieri era la chiave di volta, ed attuale, ma senza possibili forzature da parte di gruppi pretesi d’avanguardia che “trascinassero” le masse (con approccio neo-leninista destinato alla sconfitta, e comunque pericolosamente aperto ad avventure di pretese piccole minoranze che si dicevano rivoluzionarie e “operaie”). La spontaneità operaia per Panzieri andava molto valorizzata, ma pure lungamente “lavorata”. Nessuno, però, avrebbe potuto né tantomeno dovuto trascinare o surrogare il protagonismo diretto delle masse, pur dando un’indispensabile mano. Tronti e compagni, per lo più educati dal PCI anche se l’avevano temporaneamente ripudiato (o nel caso di Tronti si erano messi da parte prescindendone), per contro credevano di essere un micromovimento rivoluzionario dentro una rivoluzione operaia in fieri, che aspettava solo loro, o avanguardie come loro, per manifestarsi. Così i dissidenti s’imbarcarono nell’avventura di “Classe operaia” (1964/1967).

Su ciò la testimonianza di Tronti, riferita a Panzieri, è comunque significativa: “Forse lo colse il timore di buttarsi in un’avventura più grande delle nostre forze. Era più prudente, aveva più esperienza, noi, più giovani, eravamo più incoscienti. Il pericolo dell’isolamento era forte. La sponda sindacale era caduta presto. L’ostilità dei partiti cresceva. Dopo il primo numero [dei “Quaderni rossi”], i nomi più altisonanti si erano subito defilati.” E qui si riferiva a Vittorio Foa, che nel ’61 aveva scritto l’editoriale del primo numero. “E lì si ritrovava con intorno questo gruppo di matti intelligenti. Certo, lo capisco più oggi che allora.” Riconosce che era stata una fuga in avanti: “Ma è vero – riconosceva -, lo sbocco sociale, subito, non ci fu. Ci fu però subito dopo, nel nuovo biennio rosso [1919-1920] 1968-1969.”

Poi però va più a fondo, osservando: “Direi, però, che non è ancora questo il punto. Il vero punto è che lui era un socialista e io ero un comunista. Mi piace a questo punto rileggere i nostri rapporti come un piccolo episodio novecentesco del nobile confronto fra tradizione socialista e tradizione comunista. In comune c’era il fatto che all’interno delle due tradizioni non sceglievamo né l’ortodossia né l’eresia, ma l’eterodossia, e dunque la ‘critica’ (…). Se per lui un riferimento possibile era a posizioni socialiste rivoluzionarie e luxemburghiane, per me il riferimento certo era a posizioni bolsceviche e leniniane. (…) A rileggerla adesso, la differenza con Panzieri mi appare quella tra spontaneità e direzione, tra autorganizzazione e organizzazione, tra Consigli e Partito[23].”

Questo aveva a che fare con quello che a metà degli anni Sessanta dicevamo essere il rapporto tra avanguardia e classe, tra minoranza organizzata e masse, tra partito di sinistra (o fosse pure un “partitino”, un gruppo che si pretendesse partito) e lavoratori. Allora si faceva spesso distinzione tra il partito come avanguardia “esterna” oppure “avanguardia interna” rispetto alle masse lavoratrici. La concezione del partito come “avanguardia esterna” era quella tipica del PCI (del partito che porta la coscienza ai lavoratori), ma anche di piccoli gruppi sorti sull’onda del 1968-1969, pretesi “avanguardia del proletariato” marxisti-leninisti, in specie maoisti: tutta gente che pretendeva di avere una scienza rivoluzionaria “vera” da innestare sulla spontaneità delle masse lavoratrici, che da sole “non ci potevano arrivare”. Così aveva detto Lenin nel Che fare?, nel 1902[24], che per loro era una Bibbia. Questo nel PCI era l’A, B, C, come lo era stato nell’Internazionale Comunista, Partito che riuniva in una sorta di superpartito i partiti comunisti del mondo (1919/1943), specie dal 1926 in poi. Come i cattolici spesso – talora compresi diversi preti e cardinali – credono più nella Chiesa che in Dio, il PCI credeva solo nel proprio essere – in quanto tale – la coscienza-volontà dei lavoratori (lo sapessero i lavoratori o meno).

Invece altri marxisti, di matrice socialista anche di estrema sinistra, credevano al ruolo di avanguardie interne al mondo operaio. Il primo tipo era detto partito preteso “di classe”, e il secondo “della” classe operaia. L’idea di avanguardia “interna” segnalava sì il carattere necessario dei dirigenti, ma solo emergenti nelle lotte o almeno dentro di esse (e non come un corpo “sovraordinato”, come il Partito per il PCI, ma pure per i pretesi micropartiti marxisti-leninisti, tipo “Servire il popolo” e forse anche “Avanguardia operaia”). La posizione fautrice dell’azione in prima persona della classe operaia, solo stimolata da avanguardie interne, “trontiana”, era pure stata raggiunta da ex comunisti (come ad esempio il genovese Gianfranco Faina), ma veniva da Rosa Luxemburg, segnatamente dal suo libro Sciopero di massa, partito e sindacati (1907). Per tale posizione i lavoratori vengono sempre prima del partito che pure sia o si pretenda la loro coscienza[25]. Lo diceva Rodolfo Morandi[26], il vicesegretario del PSI, come pure il suo amico Raniero Panzieri, cui avrebbe persino lasciato il suo studio e biblioteca a Torino in via Bligny.

In materia però, dall’inizio, la posizione di Tronti era un po’ un ponte tra le due (tra il “partito” o nucleo dirigente “esterno” o “interno” alle grandi masse lavoratrici, perché Tronti sottolineava pure, nell’avanguardia, uno scatto in più, un momento decisionistico, quasi di necessaria forzatura della storia, di cui per lui l’esponente massimo era stato Lenin stesso). Quello che sarebbe poi stato, anni dopo, il discorso di Tronti, post-operaista, sull’”autonomia del politico” (dal 1972 in poi), connesso pure a Carl Schmitt, o espressamente a Schmitt, aveva come filo rosso questo legame perenne col Lenin capo di una rivoluzione.

Non a caso il primo formidabile editoriale del numero uno di “Classe operaia” s’intitolava Lenin in Inghilterra. Bisognava forzare la storia come aveva fatto sempre Lenin nel ventennio tra 1905 e 1924 (quando era morto), col suo partito: leader e movimento trascinati dalla passione e determinazione, ma a misura dei problemi del capitalismo avanzato (in “Inghilterra, nel senso di operante nell’Occidente capitalistico avanzato, europeo e – almeno altrettanto – americano)[27]. E quest’articolo è stato, ed idealmente è, il Vangelo di Antonio Negri[28], malgrado il Tronti successivo del PCI (dal 1966 al 2023, naturalmente passando per i diversi “ribattezzamenti” e “metamorfosi”, sino al Partito Democratico). Sin dall’inizio c’era in Tronti, dentro un contesto pure molto operaio collettivo, ritenuto decisore virtuale o reale in permanenza, un’ipervalorizzazione del decisore politico, che nel saggio del 2001 Politica e destino lo porterà a fare il seguente parallelismo (metaforico) tra azione politica e musica: “La parte del solista è la politica, il destino è l’orchestra, Come il piano dirige l’orchestra, così la politica guida la storia.”[29]

Se nell’estate 1963 questo portava a rompere con Panzieri ritenendo attuale la rivoluzione operaia, già tre anni dopo lo stesso approccio, prendendo di sorpresa parecchi di questi operaisti estremi, portava Tronti a teorizzare, per sé stesso e per i suoi compagni, la necessità “rivoluzionaria” di rientrare nei partiti della sinistra (lui nel PCI, come sempre, ma taluno, come Asor Rosa, entrerà nel PSIUP): come “lotta di partito per la conquista dell’organizzazione; tattica leninista entro una ricerca strategica di tipo nuovo; processo rivoluzionario in un punto per rimettere in moto il meccanismo della rivoluzione internazionale. Alla domanda che fare, c’è ancora per poco tempo una risposta possibile da proporre. Lavorare tutti per anni su una sola parola d’ordine: dateci il partito in Italia e rovesceremo l’Europa!” (scriveva in La linea di condotta nel 1966, introducendo Operai e capitale). Così faceva eco al Lenin del 1903[30].

Non sembra ingeneroso, dopo oltre mezzo secolo, vedervi un certo velleitarismo da Lenin in Italia, del resto allora ricorrente in più di un “capo” di movimenti ultraminoritari pretesi rivoluzionari, ma egli pretendeva di svolgere tale ruolo conquistando il PCI alle posizioni antagonistiche di cui era fautore.

(Segue)

di Franco Livorsi

  1. M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino, 1966 e poi 1970.
  2. M. Tronti, Il demone della politica. Antologia di scritti (1958-2015), a cura di Matteo Cavalleri, Michele Filippini e Jamila M. H. Mascat, Il Mulino, Bologna2017, pagg. 656, e Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero, Il Saggiatore, Milano, 2015, pagg. 316.
  3. M. Tronti, Il demone della politica, cit., pp. 12/13 e n. 2.
  4. U. Spirito, Storia della mia ricerca, Sansoni, Firenze, 1971; Il problematicismo, Sansoni, 1948. Si veda pure: E. Serra, Il tema del comunismo in Ugo Spirito dal 1946 al 1960, “Democrazia e diritto”, febbraio 2020, pp. 99-119.
  5. M. Tronti, “Politica e destino” (2001), in: Il demone della politica, cit., p. 576. Su ciò c’è un filmato, con sue dichiarazioni, “La mia parola messa a nudo”. Video intervista a Mario Tronti, s.d., su “Youtube”.
  6. N. Badaloni, Il marxismo come storicismo, Feltrinelli, Milano, 1962.
  7. M. Tronti, “Tra materialismo dialettico e filosofia della prassi, Gramsci e Labriola” (1959), in: La città futura. Saggi sulla figura e il pensiero di Antonio Gramsci, a cura di A. Caracciolo e G. Scalia, Feltrinelli, Milano, 1959 e in: Il demone della politica, cit., pp. 67-94.
  8. I Grundrisse di Karl Marx. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (1857-1858, ma postumo a Mosca nel 1939), a cura di M. Mosto e con Prefazione di E. Hobsbawm, ETS, Pisa, 2015; K. Marx, Il capitale, I (1867 e poi 1873; II, postumo a cura di f. Engels, 1885; III, a cura di F. Engels, 1895; ma si parla pure di un IV, Teorie del plusvalore, a cura di K. Kautsky, 1895 ), tr. di D. Cantimori, I, con Prefazione di M. Dobb, Editori Riuniti, Roma, 1962/1968.
  9. Il Capitale di Marx ha come sottotitolo, non certo casuale, Critica dell’economia politica. Voleva insomma smascherare la pretesa scientificità delle leggi dell’economia capitalistica e non semplicemente riproporle in chiave collettivista come si crede molto spesso. In casa ho pure una vecchia edizione della UTET di Torino del 1946, in cui in una nota, fatta sparire in edizioni successive maggiori, Marx diceva di essersi proposto di “far scoppiare i coglioni” degli economisti della borghesia.
  10. M. Weber, Economia e società. L’economia, gli ordinamenti politici e sociali (1922, postumo, per iniziativa di Marianne Weber), a cura di M. Palma, Donzelli, Roma, 2022, cinque volumi. Si veda il quarto sul “dominio”. Per la teoria del capo carismatico di Carl Schmitt, si vedano, dello stesso: Le categorie del politico. Saggi di teoria politica, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna, 1972; Principi politici del nazionalsocialismo, a cura di D. Cantimori, Sansoni, Firenze, 1935.
  11. M. Tronti, “La fabbrica e la società”, “Quaderni rossi”, giugno 1962, e Il demone della politica, cit., pp. 95-122
  12. In Foa c’erano molti echi del liberalsocialismo del movimento di Carlo Rosselli “Giustizia e Libertà”, sui cui “Quaderni” aveva scritto già con tale approccio liberale-libertario dall’inizio. Il tema anarchico dell’”autonomia” del lavoratore era valorizzato. Per tale lavoro clandestino, sotto il fascismo Foa fu imprigionato per nove anni.
  13. Il tema dell’uomo come materia “umana” è decisivo specie a partire dalle Tesi su Feuerbach di Marx del 1845, in appendice a: F. Engels, Ludovico Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca (1886), Edizioni Rinascita, Roma, 1950.
  14. M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino, 1966 e poi 1970.
  15. M. Tronti, “Marx, forza-lavoro, classe operaia”, del 1965, in: Il demone della politica, cit., pp.153-198, ma c’era già in Operai e capitale. V. qui p. 175.
  16. M. Tronti, “Poscritto di problemi”, nella seconda edizione di Operai e capitale, del 1970, e in: Il demone della politica, cit., pp. 243-284, con riferimenti a p. 279 e 282.
  17. Mario Tronti e Massimo Cacciari: “il demone della politica”, Youtube”, 2018. Vico diceva che la vera scienza che l’uomo può conoscere è la Storia, “perché la fa”. Così la classe operaia, come insieme dei movimenti che la costituiscono, “conosce” (cioè esprime”) il senso del divenire sociale, come fa pure a parti inverse il Capitale, che l’asservisce, in modo speculare. Così Cacciari interpretava Tronti.
  18. M. Tronti, “La fabbrica e la società”, “Quaderni rossi”, 1962, e in: Il demone della politica, cit., pp. 95-122, ma v. qui pp. 119-120.
  19. M. Tronti, “La rivoluzione copernicana” (1963, in Il demone della politica, pp. 123-136.
  20. Lenin, Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica (1905), “Opere complete”, Editori Riuniti, 1960, vol. IX, pp. 9-126.
  21. M. Tronti, “L’eredità di quello che è stato” (2005), in: Raniero Panzieri. Un uomo di frontiera, a cura di P. Ferrero, Edizioni Punto Rosso / Carte, Roma, 2005, pp. 252-259 e in: Il demone della politica, cit., pp. 591-599.
  22. Panzieri morì nel 1964, ma i “Quaderni rossi” uscirono sino al 1966.
  23. M. Tronti, “L’eredità di quello che è stato”, 2005, cit., pp. 598-599.
  24. Lenin, Che fare? (1902), a cura di V. Strada, Einaudi, Torino, 1972. Quest’edizione portava pure il verbale del congresso del Partito Operaio Socialista Democratico Russo svoltosi a Londra nel 1903, in cui si determinò la storica frattura tra “bolscevichi” (i maggioritari) e “menscevichi” (i minoritari).
  25. R. Luxemburg, Scritti scelti, a cura di L. Amodio, Edizioni Avanti!, Milano, 1963; Scritti politici, Introduzione e cura di L. Basso, Editori Riuniti, 1967: entrambe le raccolte, in specie la prima, comprendono un’ampia scelta del testo della Luxemburg del 1908 Sciopero di massa, partito e sindacati, testo di riferimento di ogni cosiddetto spontaneismo rivoluzionario.
  26. Rodolfo Morandi, storico Vicesegretario dello PSI di Nenni negli anni dell’unità d’azione con i comunisti, e vero riorganizzatore di quel partito dalla Liberazione in poi, diceva che “al di sopra del partito” aveva “messo sempre la classe lavoratrice”, e aveva sempre pensato che il partito non avrebbe mai potuto chiedergli nulla di più. Su quest’importante figura, decisiva nella formazione di quasi tutti i dirigenti del PSIUP (1964-1972), è da vedere il bel primo libro di Aldo Agosti: Rodolfo Morandi. Il pensiero e l’azione politica, Laterza, Bari, 1971. Ma si vedano le opere di Rodolfo Morandi: La democrazia del socialismo. 1923-1937, Einaudi, 1961; Storia della grande industria in Italia (1931), ivi, 1958: Lotte di popolo. 1937-1945, ivi, 1958; Lettere al fratello. 1937-1943, ivi, 1959; Il partito e la classe. 1948-1955, ivi, 1961. Più oltre, sempre di R. Morandi: Democrazia e riforme di struttura, ivi, 1997; La politica unitaria, ivi, 1997.
  27. M. Tronti, “Lenin in Inghilterra”, “Classe operaia”, 1 gennaio 1964, e in Il demone della politica, pp. 137-144,
  28. Emerge bene nel primo volume della sua fluviale autobiografia, interessante anche per conoscere abbastanza bene i dibattito della cultura filosofica e politica europea degli ultimi quarant’anni: Storia di un comunista, a cura di G. De Michele, Ponte alle Grazie, Milano, 2015 (II, 2018; III, 2020).
  29. M. Tronti, “Politica e destino”, in: Il demone della politica, cit., pp. 563-590, ma p. 564.
  30. M. Tronti, “La linea di condotta”, introduzione del 1966 a Operai e capitale, cit., e in Il demone della politica, cit., pp. 199-220, ma p. 217. Così faceva eco ad una famosa affermazione di Lenin del 1903, il quale aveva detto: “Dateci un partito di rivoluzionari e rovesceremo tutta la Russia.”

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