“Città Futura” nei giorni scorsi ha già proposto un bell’articolo di Mauro Calise su Mario Tronti[1], pensatore e politico di matrice marxista di sinistra recentemente scomparso. In poche e chiare righe Calise ha saputo dire quali siano stati i tratti fondamentali di un pensiero che ha palesemente anticipato ed ispirato parte non piccola della contestazione degli anni Sessanta in Italia, e che ha poi avuto sviluppi interessanti sino a noi: l’operaismo marxista (innanzitutto), e poi il decisionismo “di sinistra”, e la stessa nuova religiosità interiore. Tronti è un autore che leggo molto volentieri da una vita, spesso in appassionato dissenso. Nei giorni scorsi sono pure andato a vedere i titoli delle pubblicazioni di Tronti, in commercio e non, tramite Internet, notando che ne conosco bene parecchi, e altri meno. Provvederò al più presto anche su ciò. Non vedo anzi l’ora di poterlo fare, per ragioni che non starò qui a spiegare in dettaglio, ma che forse emergeranno dal contesto.
Ma intanto dire qualcosa “a ruota libera” su Tronti e sulla corrente “operaista”, di cui fu dall’inizio esponente di primo piano, parlando un po’ da testimone e un poco da “marxologo”, ma senza i limiti ovvi di spazio che un quotidiano impone ai suoi collaboratori permanenti (come “Il Mattino” a Calise), non mi pare vano. Per ora propongo un “semilavorato”, ma in futuro penso che commenterò taluni testi trontiani che vorrei approfondire.
Io leggo e medito Tronti da sessant’anni, e cinquantanove anni fa l’avevo pure conosciuto in un’occasione non da poco per la corrente da lui impersonata (l’operaismo marxista in Italia), come dirò. Tronti aveva preso a farmelo conoscere, sin dal 1962, Gianfranco Faina, che allora aveva insegnato un poco nella media superiore in Alessandria ed era poi diventato un mio vero amico.
Anche Faina, di Genova Sampierdarena, era un bel personaggio. Era stato segretario della Federazione Giovanile Comunista Italiana a Genova tra 1954 e 1956, ma nel 1956 era stato espulso dalla sua Sezione per essersi opposto totalmente – com’era nel suo stile da crociato permanente della causa in cui di volta in volta credesse – all’intervento con i carri armati contro gli ungheresi, che nel ’56 avevano preteso di rendersi neutrali da Mosca e che furono allora massacrati a migliaia, e forse in decine di migliaia, dai “compagni sovietici”. Mi raccontò egli stesso taluni particolari che sarebbe stuzzicante riproporre qui, ma non lo faccio perché il ricordarli in dettaglio mi porterebbe troppo fuori strada.
Poi Faina aveva scoperto Rosa Luxemburg, con la sua teoria-prassi dell’azione diretta, prevalentemente spontanea (ma anche non), nella storia, da parte delle masse: il massenstrik, lotta “naturale” delle masse contro lo sfruttamento, per lei da intendersi come chiave di volta del divenire sociale e, in specie, della rivoluzione anticapitalistica. Sono certo che la pensasse generalmente così anche Karl Marx. La coscienza di classe rivoluzionaria non sarebbe portata “dall’esterno” ai proletari, altrimenti appena capaci di sindacalismo di mestiere (“tradeunionista”), da un’avanguardia politica antagonista, o partito “veramente socialista”, o “veramente comunista”, che si coaguli attorno al socialismo “scientifico”, come aveva detto Lenin nel Che fare? (1902), ma crescerebbe via via nel loro seno. Ritenere il contrario, come se i semplici lavoratori fossero nell’insieme dei poverini da illuminare da parte dei pretesi coscienti, per Rosa Luxemburg era “reazionario”.[2] In proposito per Faina e molti altri il testo centrale della Luxemburg cui attingere era il libro Sciopero di massa, partito e sindacato, del 1906.
Tra il 1963 e il 1967, poi, uscirono due raccolte di scritti di Rosa Luxemburg fondamentali, che subito centellinai con straordinario interesse.[3]
Faina di tutto ciò si era entusiasmato da anni[4], mentre, intanto, subiva anche l’influenza della filosofia della scienza della scuola di Vienna, e, qui, dell’empirismo logico di Giulio Preti, il quale ultimo pochi anni prima aveva scritto Praxis e empirismo (1957), e quella del John Dewey della Logica come teoria della ricerca (1938).[5] Nonostante la sua tendenza al “pensiero-prassi” in rivolta, Faina aveva infatti un forte interesse per la filosofia come scienza e per il pragmatismo. Quel che gli sembrasse “vero”, lo voleva subito “fare”. L’attivismo faceva parte della sua personalità profonda. Faina conosceva pure a fondo il Marx economista, con tutte le sue complesse formule ed elaborazioni, che per lui erano scienza in senso forte, seppure di tipo aperto ed incompiuto (anche se più oltre divenne anarchico situazionista, con uno spirito che mi ha fatto sempre pensare a quello di Carlo Cafiero[6], che per me era stato tale e quale). Appassionatosi di Rosa Luxemburg, e leggendo Marx in quella chiave – come insuperato scienziato economico-sociale “puro” – Faina sin dalle origini si era aggregato ai “Quaderni rossi” di Raniero Panzieri, nati a Torino nel 1961, e quasi subito, più o meno altrettanto, di Mario Tronti.
Panzieri, la cui opera “omnia” è stata curata dal mio compianto amico – ed ex collega presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano – Stefano Merli, era stato una figura molto importante della sinistra socialista.[7] Nenni, dal 1955 alla ricerca di una via autonoma dai comunisti, aveva voluto Panzieri come direttore del mensile del P.S.I. “Mondo operaio”.
Ma il legame forte Raniero Panzieri l’aveva avuto soprattutto con Rodolfo Morandi, storico vicesegretario nazionale del P.S.I. di Nenni, figura di straordinario spessore morale, e organizzatore geniale, che aveva riorganizzato quel partito tra il 1948 e la morte (1955), in un rapporto strettissimo ma emulativo con i comunisti, tendente alla riunificazione “socialista” della sinistra in un contesto che oggi si direbbe socialista democratico “di sinistra” (però comprensivo dello stesso leninismo). Rodolfo Morandi, di cui a suo tempo la Einaudi pubblicò le opere, e che oggi è un personaggio dimenticato, ha avuto un percorso straordinario da Mazzini al leninismo, in base ad una tendenza profonda che io oggi direi di “socialismo etico”. Rodolfo Morandi è stato studiato con cura in un libro che è il solo importante su di lui, Rodolfo Morandi. Il pensiero e l’azione politica (1971) da Aldo Agosti. Si tratta di opera che io pure discussi nel 1972 sul settimanale nazionale del PSIUP (“Mondo nuovo”), accentuandone, un poco strumentalmente, il filocomunismo in vista di un’unificazione tra PSIUP e PCI che – pur non ancora decisa – mi pareva, e presto risultò essere, ormai inevitabile per il PSIUP (1964/1972), diventato per molte ragioni elettoralmente marginale tra 1970 e 1971. In quella discussione, certo di un qualche significato nella piccola storia del PSIUP (storia poi raccontata da Aldo Agosti alcuni anni fa in altro libro importante edito sempre da Laterza, da me discusso qui e poi su “Critica marxista”)[8]. Al tempo del libro su Rodolfo Morandi, dopo il sottoscritto, su “Mondo nuovo”, intervennero sia il segretario del partito (Tullio Vecchietti) che l’inquieto vulcanico oratore, giornalista e politico Libertini.
Lucio Libertini, dal percorso molto travagliato che gli fece attraversare tutti i partiti della sinistra dai socialdemocratici di Saragat a Rifondazione Comunista, nel 1958 pubblicò, con firma sua e di Panzieri, alcune tesi sul controllo operaio della produzione, subito criticate dai comunisti.[9] Si riscopriva la democrazia operaia come possibile via al socialismo alternativa al comunismo di stato come alla socialdemocrazia riformista.
Quel testo del 1958, firmato insieme da Raniero Panzieri e Lucio Libertini, può essere inteso come la nascita dell’operaismo marxista in Italia, anche se nel nostro Paese prima del 1915, più o meno tra il 1900 e la Grande Guerra (ed anzi sino al 1926), si era già sviluppata la corrente operaistica del sindacalismo rivoluzionario, sorelliano e non sorelliano, tanto che quando nel 1974 divenni contrattista presso la cattedra di “Storia delle dottrine politiche” a Scienze Politiche presso l’Università di Torino, cattedra tenuta da Gian Mario Bravo – che aveva apprezzato un mio vasto saggio, Lenin in Italia, sul leninismo nella cultura della sinistra italiana, pubblicato nel 1971 su “Classe”, la bella rivista che Stefano Merli pubblicava allora presso l’editore Dedalo[10] – e Bravo m’invitò a scegliermi un argomento solido di cui occuparmi per alcuni anni invece di passare da un tema all’altro come allora nel mio muovermi ancora da politico appassionato io facevo, gli avevo detto che avrei volentieri lavorato, per il tempo necessario, ad una possibile storia dell’operaismo marxista in Italia, appunto da Arturo Labriola ed Enrico Leone sino a Vittorio Foa, Raniero Panzieri, Mario Tronti e compagni. La cosa al compianto Gian Mario Bravo – che tanti contributi importanti ha dato in materia di storia del marxismo, dell’anarchismo, del socialismo e del comunismo, pur con l’approccio marxista-leninista e a lungo filosovietico che gli era proprio – non interessò. Mi disse che era meglio scegliere un personaggio – con spessore teorico – poco studiato, per il mio futuro accademico. Allora mi occupai di Amadeo Bordiga (e in seguito di tante altre cose).
Il sindacalismo rivoluzionario in Italia era stato decisivo nel primo grande sciopero generale “nazionale” del 1905, nello sciopero generale di Parma del 1907, e certo era stato ben presente pure nella settimana rossa del 1914. Il sindacalismo rivoluzionario nel 1912 si era pure dato un’organizzazione più stabile, l’Unione Sindacale Italiana (USI), contro la CGIL, nata riformista nel 1906. Poi molti capi del sindacalismo rivoluzionario, in odio al tran tran dell’Italia giolittiana, allo scoppio della Grande Guerra del 1914-1918 erano diventati interventisti “di sinistra”, e poi, in una cospicua minoranza, o erano diventati “legionari” dannunziani o fascisti (Filippo Corrodi morì in trincea; Alceste De Ambis, già protagonista dello sciopero generale di Parma del 1907, divenne l’ispiratore della Carta del Canaro, la costituzione democratica e sociale di D’Annunzio al tempo dell’occupazione di Fiume del settembre 1919 – dicembre 1920, e non divenne fascista; uno dei quadrumviri della marcia su Roma, Michele Bianchi, era un ex sindacalista rivoluzionario, e così Edmondo Rossoni e Paolo Orano[11].
Nel saggio su Lenin in Italia (1971) parlavo molto anche del primo opus di Mario Tronti, Operai e capitale (1966), che raccoglieva importanti articoli e saggi dello stesso Tronti dal 1962[12]. In taluni passaggi di Lenin in Italia lo criticavo in modo eccessivo (soprattutto per l’enfasi un poco retorica in cui esprimeva il suo operaismo). Alcune cose su Tronti, lì, mi sembrano ancora giuste, e altre no (e anzi francamente “ingiuste”), ma un lettore appena un poco smaliziato avrebbe potuto cogliere facilmente il mio orientamento da “Odi et amo”.
Tronti già nel 1958 aveva ridimensionato l’importanza dei Quaderni del carcere di Gramsci per il marxismo teorico in Italia, in polemica con la linea fortemente idealistica presente nel marxismo italiano (togliattiano), in un volume a più voci che s’intitolava proprio La Città Futura. Saggi su Gramsci[13] (“Città Futura” era stato il titolo di un numero unico scritto totalmente dal giovane Gramsci, a Torino, alla fine del 1917: non ultima ragione, per cui io proposi “Città Futura” come nome della nostra associazione politico-culturale, e poi sito e giornale on-line, più di vent’anni fa in Alessandria). In alternativa al Gramsci dei Quaderni del carcere[14], considerato più o meno sotterraneamente idealista e riformista, Tronti proponeva una sorta di ritorno a Marx, in un primo tempo da lui riscoperto sulla scia di Panzieri. In sostanza con Panzieri e Tronti il socialismo marxista tornava ad essere socialista “scientifico”, ma in modo nuovo almeno dal 1961 in poi (come dirò).
Qual è l’importanza, e l’originalità teorica di questo marxismo “operaista”, e che cosa poi vi portò Tronti di suo, e perché e con quali esiti Tronti stesso poi si staccò parzialmente da esso giungendo “sin qua”?
Facciamo un poco di catalogazione concettuale. In Europa occidentale, a sinistra, il referente ideal-politico fondamentale, seppure mai unico, è stato il marxismo (come ha notato recentemente Aldo Schiavone[15]). Il suo materialismo, il suo economicismo e, dopo Marx, il suo statalismo sono tratti di ogni socialismo e comunismo, anche non marxista, dagli anni Novanta del XIX secolo in poi. (Ma ora a sinistra sembra imporsi un nuovo paradigma – sociale, ma pure ecologico e spirituale – come ho sostenuto qui, in testi poi riuniti nel mio libro Il Rosso e il Verde, nel 2021).[16]
Proviamo però a vedere la cosa storicamente. In tal caso, nella cultura del socialismo (compreso il comunismo), noi troviamo sempre come prevalenti due grandi correnti: il comunismo “leninista” e la socialdemocrazia riformista.
Il “comunismo” politico, al potere, è sempre “diventato” burocratico autoritario (covando però tale tratto anche in humus democratico-parlamentare, “riformista”, specie “nel” suo gran Partito, sempre costruito in modo fortissimo intorno all’apparato, che per quanto composto da tanti bravi compagni era pur sempre una burocrazia, sovrana all’interno, che dava la linea, quasi sempre approvata all’unanimità o al 95%, pure ai militanti operanti nelle istituzioni, e ai compagni di ogni ordine e grado).
E la socialdemocrazia riformista è sempre risultata pronta alla collaborazione con forze moderate ed anche ultra-moderate: collaborazione prima tattica e poi sempre strategica (sino agli eccessi noti del “così fan tutte”). Si tratta di un’oscillazione pendolare, tra “komunismo” e socialdemocrazia riformista, in fondo tra Longo e Saragat, così persistente nella storia da far cascare al poveruomo “le braccia”, per non parlar d’altro, perché sembra che si cada sempre dalla padella nella brace. (In seguito, nel XXI secolo, si è caduti persino “per terra”, senza socialismo, né leninista né riformista: insomma, “senza padella e senza brace”; il che non è allegro).
Ma c’è stata una grande corrente socialista che non ha accettato né il “komunismo” né la socialdemocrazia riformista, neanche “all’italiana” (né tantomeno lo “stalinismo socialdemocratizzato”, che il mio amico Merli attribuiva al PCI). Dico subito che non avendo spazio sociale e soprattutto politico e culturale sufficiente, questa corrente “terza” è sempre stata costretta, dopo taluni grandi tentativi di svincolarsi da entrambi quei potentissimi fratelli-coltelli, a rifluire in uno dei due, spesso passando persino dall’uno all’altro: o nella socialdemocrazia “saragattiana” o nel “komunismo” italiano. In generale questa corrente del “né questo né quello” ha sofferto, sia in ambito “komunista” che socialdemocratico riformista, essendo irriducibile a entrambi (in sostanza essendo “un’altra roba”, che poco si adattava a “quei due”, pur finendoci sempre dentro, o a ridosso, per carenza di “spazio politico” sufficiente o di capacità politica).
Questa “terza corrente” della sinistra, che io ho molto amato, ha avuto due anime: una la direi “massimalista” e l’altra appunto “operaista”.
Pur essendo stato il massimalismo caratterizzato anche da figure nobilissime ai vertici come alla base, alcune tra le quali io ho fatto in tempo a frequentare con vera amicizia, ritengo che il massimalismo – o comunque si voglia chiamare tale tendenza – sia stato la corrente sterile del socialismo: più una remora che una risorsa per la sinistra. L’errante (massimalista) era nobile d’animo, libero, franco, rispettoso e generoso; o lo era molto spesso. Ma non poteva essere mai né comunista né socialista: a volte perché “non ci arrivava”, e a volte perché era sanamente “oltre”. Il massimalismo – comunque si chiamasse – è stato la corrente degli scontenti “a vita” del “komunismo” come della socialdemocrazia riformista. Persino nel vecchio PSIUP alessandrino c’erano molti i quali si sentivano ed erano sentiti come “veramente di sinistra” perché criticavano i comunisti dal mattino alla sera, benché fossero spesso lontanissimi dai luoghi di lavoro. In sostanza il massimalismo, quale fosse o sia il suo nome, è stato l’area di quelli che hanno fatto di tutto per impedire alla strategia dominante della sinistra di cui facevano parte – o del “komunismo” o della socialdemocrazia – di raggiungere lo sbocco politico (rivoluzionario o riformista che esso fosse): una specie di “coscienza infelice” della sinistra.
Quando tale tendenza è riuscita a prevalere, sempre per un tempo breve, nel più rappresentativo partito o socialista o “komunista” di cui facesse parte, ne ha fatto fallire la strategia senza poter affermare la pretesa strategia propria. Così nel primo dopoguerra il massimalismo riuscì ad impedire ai socialisti riformisti alla Filippo Turati di andare al governo (necessariamente con liberali e popolari), ma così finì per tenere per mille giorni “sgovernato” il Paese, del che approfittò il fascismo; e riuscì ad impedire ai comunisti, che non volle raggiungere per tempo, nel biennio rosso 1919-1920, di nascere come partito di massa maggioritario nella sinistra, mentre i riformisti, esclusi, avrebbero potuto raggiungere Giolitti e Sturzo come troppo tardi provarono a fare nel 1923-1924, dopo la marcia fascista su Roma; e il partito socialcomunista di massa avrebbe potuto fare la sua parte di forza antagonistica. Potrei seguitare l’esemplificazione relativa al massimalismo come corrente che non è mai né antagonista né riformista; che sempre rifiuta sia l’antagonismo “vero” che il riformismo “possibile”, a tutto vantaggio della destra: ma dettagliare il tutto servirebbe solo ad attizzare polemiche inutili e ci porterebbe troppo fuori strada.
Ma in questa terza sinistra – intrecciata o no con massimalisti e neo-massimalisti – c’è pure l’ala del marxismo o socialismo o comunismo – non faccio questione di parole – operaista. Ho intuito sin dal 1963, in modo fortissimo, che essa era “altra roba”: una potenziale vera alternativa tanto al burocratismo comunista (autoritario come socialdemocratizzato) che al collaborazionismo spinto (socialdemocratico). Questa corrente, quando l’ho scoperta, mi ha sempre interessato. Senza saperlo lo stesso Maurizio Landini a mio parere ne fa parte (è un vero “operaista” nel senso del discorso che vengo svolgendo), e infatti secondo me sarebbe stato o sarebbe il solo possibile leader di una nuova sinistra di alternativa democratica con basi di massa, che però per la nobile vocazione di Landini al sindacalismo “di-vittoriano” puro, e un poco al vecchio sindacalismo rivoluzionario, non si farà (e quando Landini eventualmente tra anni lo vorrà, sarà troppo tardi). Da molti decenni sono lontano politicamente dall’operaismo marxista, ma persino ora leggo molto volentieri i libri della tendenza, compresi quelli di Antonio Negri[17]. Non ho mai concordato e non concordo, ma mi fanno molto pensare. M’interessano. E Mario Tronti mi ha interessato ed interessa più di ogni altro della tendenza.
All’inizio degli anni Sessanta l’operaismo, connesso pure al leninismo, mi era parso alternativa democratica e rivoluzionaria. Fu così da quando scoprii tale corrente. E per questo nel PSIUP dal 1964 al 1972 fui il responsabile del lavoro politico di fabbrica della federazione del PSIUP di Alessandria, e dal 1969 al 1971 feci parte della segreteria regionale piemontese del PSIUP, di cui era segretario Mario Giovana, col compito, dato a me ed a Franco Ramella, di coordinare il lavoro operaio del partito in Piemonte. Nel frattempo il mio quasi coetaneo Fausto Bertinotti, che perciò allora vedevo molto spesso, faceva parte per il PSIUP, dopo Gianni Alasia, della Segreteria regionale della CGIL. Dal 1963 leggevo e meditavo soprattutto Tronti, cui il mio amico Faina era allora legato. Ma nell’operaismo marxista c’era un humus comune, che veniva da Vittorio Foa e Raniero Panzieri.
Vittorio Foa nel 1961 aveva pubblicato l’articolo di fondo dei “Quaderni rossi”. Poi se n’era staccato perché per lui, che dopo essere stato nove anni “in carcere” sotto il fascismo, era stato soprattutto un sindacalista della FIOM, legatissimo al comunista proletario suo segretario generale (Giuseppe Di Vittorio), essere in radicale dissenso con la FIOM era impensabile. Foa aveva un’inquietudine ideologica totale, credo connessa al fatto che aveva un’intelligenza probabilmente vulcanica, ma il punto “fermo” per lui era il legame con i grandi sindacati operai. Pure con tale tratto, che in lui non venne mai meno, le memorie di Vittorio Foa (1991), che i suoi amici gli avevano quasi estorto, sbobinando testi che egli poi mise a punto, sono un libro assolutamente straordinario non solo nella grande memorialistica, ma anche nella storia dell’operaismo marxista.[18] Pure le opere di Vittorio Foa sarebbero da raccogliere con pazienza certosina. Ne varrebbe davvero la pena.
Ma che c’era di tanto originale e di politicamente rilevante nel marxismo operaistico?
Anche qui posso provare a fare un minimo di nomenclatura dottrinaria riferita al marxismo. Questo ha avuto due correnti, che anche in tal caso poi sono tre.
La più forte corrente è stata quella che di solito si chiama determinismo economico e, come essa l’ha soprattutto definito, “socialismo scientifico”. Il socialismo scientifico ha considerato il marxismo come una scienza, né più né meno di quella di Galileo, Newton o Einstein in Fisica. Il marxismo ci avrebbe dato la prima o definitiva fisica economica, guida sicura dell’azione politica. Così pensava Engels, più influente, anche suo malgrado, dell’alter ego, Karl Marx, di cui semplificava e approfondiva gli assunti, però in schemi spesso troppo rigidi. Così pensava Karl Kautsky. Così pensava Lenin, per il quale il socialismo come scienza rivoluzionaria del divenire sociale era la pietra angolare del partito socialista proletario o comunista (sin dal suo grande testo “giovanile” del 1894 Che cosa sono gli amici del popolo e come combattono contro i socialdemocratici[19]). Così pensava e avrebbe sempre pensato Bordiga[20]. Così provarono a tornare a pensare taluni marxisti teorici degli anni Sessanta e Settanta. Come Ludovico Geymonat (per difendere – per alcuni anni d’intesa con il nostro compianto grande amico di Tortona, Enrico Bellone – la “scienza” dagli assalti di un irrazionalismo ritenuto pericolosamente dilagante e in sé reazionario)[21]. Come Louis Althusser, che invitava a “rileggere il Capitale” di Marx ed era convinto che la storia, essendo fatta da tutti e da nessuno in base a “leggi” economiche reiterabili (scoperte da Marx), non avesse “soggetto”, come a suo dire pensava Lenin[22]. Come Lucio Colletti, che intanto svalutava del tutto il legame tra marxismo e idealismo, negando che la teoria di Marx, almeno dopo la prima gioventù, avesse avuto carattere dialettico, cioè volto a vedere la realtà come contraddittoria in sé, basata sull’urto degli opposti ad ogni livello, anche nella coscienza proletaria. Le leggi scientifiche anche del divenire sociale dovevano essere logicamente stringenti e storicamente verificabili, come in ogni scienza del tipo della matematica e fisica. Poi cercava di vedere se la teoria del Capitale di Marx sulla crisi necessaria e fatale del sistema, che renderebbe fatale la rivoluzione proletaria, avesse base scientifica[23]; alla fine si persuase che non l’aveva, ritenendo perciò ineluttabile la pura Modernizzazione, per cui si spostò sempre più a destra, sino a diventare berlusconiano (tanto che oggi in Parlamento la destra si riunisce in una sala chiamata “Lucio Colletti”). Persino il riformismo della “Critica Sociale” di Turati, nella misura non ampia in cui fu “teorico”, fu soprattutto di tal pasta “scientifica” (in tal caso ad essere fatale economicamente sarebbe stato il riformismo, per legge dell’evoluzione sociale complementare a quella dell’evoluzione naturale: legge, volta ad affermare un continuo progresso senza avventure “rivoluzionarie”, che il marxismo economico di Eduard Bernstein avrebbe dimostrato dal 1899, suscitando una polemica di Rosa Luxemburg, a ruota, espressa nel grande saggio Riforma sociale e rivoluzione).[24]
L’altra corrente del marxismo, oltre a quella del marxismo come scienza dell’economia e della connessa rivoluzione proletaria “inevitabile”, vedeva invece il marxismo come filosofia della liberazione umana: liberazione da uno smarrimento di sé socialmente dominante sotto il capitalismo – o alienazione capitalistica – rispetto a qualcosa di universalmente umano che c’è già nell’umanità in cammino, ma pure in ogni uomo, che è infinito per sé. In tal caso leggeva tutto Marx alla luce delle opere giovanili sino al 1844, in cui il legame con Hegel era stato più forte. Questo era idealismo (o almeno era un materialismo intriso di idealismo, in Italia esemplarmente incarnato da un grande studioso un po’ dimenticato, turatiano o socialdemocratico “di sinistra”, che ha dato contributi di prim’ordine sulla filosofia dall’antichità al marxismo, e che Togliatti e Gramsci discutevano dal 1920: Rodolfo Mondolfo[25]; a lui si deve persino la definizione del marxismo come “filosofia della prassi”, così comune nei Quaderni del carcere di Gramsci).
L’idealismo, da Hegel a Gentile, aveva spesso confuso l’universalmente umano – il Soggetto infinito che per l’idealismo filosofico è presente a priori, latente, in ognuno di noi – con lo Stato, asso piglia tutto nella storia (da Hegel a Giovanni Gentile): mentre per il cosiddetto hegelo-marxismo, che dal Marx del 1844 andava a Gramsci e Togliatti, e a Nicola Badaloni, lo Stato di tutti e di ciascuno sarebbe da fare, nella necessaria Prospettiva di emancipazione[26]. Questa linea era confluita in Gramsci, come sua costante (svolta a fondo nei Quaderni del carcere): ora con un’accentuazione più decisionistica intorno al 1917 (e forse dal 1914) e ora più democratico autogestionaria, tendente al potere dei consigli di fabbrica; o, infine, specie dal 1925 alla morte, volta a teorizzare il Partito liberatore: nei Quaderni del carcere “nuovo Principe”, nelle parti sul “Machiavelli” e la politica nello Stato moderno.
Il PCI dal 1926 e soprattutto dal 1944 vi si era riconosciuto, pur identificando stalinisticamente o leninisticamente – o come si vuole – il Gran Soggetto universalmente umano che fa la nuova storia col proprio partito. In tal modo, però, pur non attribuendo al marxismo il ruolo di scienza, si aveva una visione del mondo in cammino intesa come una specie di religione secolarizzata, in cui il Partito si fa portatore di una fede comune (una specie di mistica dell’Organizzazione “lavorista”, che ai veri comunisti “veniva naturale”). Ma questo poteva conciliarsi sia con un comunismo rivoluzionario più idealistico (ma pure fideistico, basato su una “concezione del mondo”) o con un comunismo socialdemocratico-leninista, che volendo tenere insieme il “fare la rivoluzione” e il “fare la democrazia” poteva essere sì “il sogno di una cosa” pasoliniano[27], ma anche un sogno che non arrivava mai, e che rischiava di non essere né carne né pesce, né comunismo di stato né socialdemocrazia riformista, nella realtà effettuale.
Ma il marxismo operaista cercava e forse cerca la risposta a entrambe le aporie. In che modo?
Confermava la decisiva idea che la storia, essendo soprattutto economica, non dipenda da capi o élites ma dal contrasto irriducibile tra datori di lavoro e lavoratori, tra borghesi e proletari, tra Capitale e lavoro dipendente. Ma invece di veder ciò come un che di legato ad automatismi economici, spostava e sposta l’accento dall’economia alla sociologia: dalle “leggi” economiche alle forze umani che da padroni o dipendenti – poco importa se padroni di Stato o privati – sono in campo. Le leggi dell’economia non dominerebbero la realtà, ma sarebbero il frutto dei rapporti reali tra forze umane operanti nell’ambito della produzione, distribuzione e consumo delle merci. L’economia era assorbita dalla sociologia; gli automatismi economici, o pretesi tali, venivano a dipendere, vengono ivi a dipendere, da ciò che accade ogni giorno nella relazione tra chi comanda e chi è comandato (nella società civile), e in specie nei luoghi di lavoro. Di lì veniva il riferimento al VI libro inedito del Capitale e ai Grundrisse di economia politica di Marx[28], enfatizzato da Tronti per primo e più di tutti gli altri. Si dice più o meno “basta” agli automatismi dell’economia che fa la storia, cui adeguarsi, da Engels a Althusser; oppure si sussume quel divenire preteso “oggettivo” a un soggetto collettivo sempre in atto, da cui le leggi economiche, come estrapolazioni astratte dalla realtà sociale, dipendono. La storia – per il nuovo operaismo marxista – non la fa né un singolo né un gruppo e nemmeno un partito, ma il produttore collettivo, che nel capitalismo “era” il “mondo operaio”, che sotterraneamente tutto muoveva (o “muove”). Sarebbero proprio gli operai, o proletari, a fare la storia, a un punto tale che la “vecchia talpa” della rivoluzione che tutto muove, persino l’antirivoluzione, che servirà alla rivoluzione, secondo la grande apostrofe del 1852 del Marx del 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, qui era presa per oro colato[29] Questa portentosa pagina era sempre stata percepita come una grandiosa metafora, più o meno retorica. Invece il marxismo operaistico la prendeva giustamente alla lettera (giustamente dal punto di vista di Marx, ben inteso). Le formule del Capitale ridurrebbero in leggi tendenziali astratte il moto concreto delle classi in conflitto nella società capitalistica. La teoria “scientifica” non dimostra la verità del movimento operaio nella storia, ma è esso a fondarla (per l’operaismo marxista): senza di che – vera o falsa – quella “scienza” nulla conterebbe. L’antagonismo sociale non sarebbe insomma “post rem”, ossia “dopo la cosa”, effetto dell’Idea comunista “diffusa”, in quanto scienza (da Engels a Althusser) o anche in quanto fede in un nuovo mondo possibile (da Gramsci a Berlinguer, fatti gli ovvi distinguo non da poco tra loro, ben inteso). Non sarebbe una costruzione dei creatori di storia (singoli, o partito, o partiti, o sette, o quel che si vuole), ma “in re” (nella realtà: già operante in grandissima parte nel sociale spontaneo, piaccia o meno a lor signori, anzi “a lor compagni”). La Storia si farebbe da sé persino curandosi poco di quel che fanno i vertici politici muovendo tanto la coda. Perciò la rivoluzione non si attende, ma si fa: è atto e in atto. Oppure non è niente. Quando vide il “niente” Faina si fece anarchico situazionista, e come tale morì anni dopo, per tumore, in carcere come terrorista, quasi tra le braccia di Toni Negri, come questi racconta in Pipe-line[30].
Su questa faccenda dell’autonomia o meno dei movimenti proletari di lotta, anche senza capi, si aprì la prima crisi dell’operaismo marxista in Italia, di cui Mario Tronti fu protagonista. Correva l’anno 1964 e il tutto ebbe per piccola scena la città della FIAT, che a Mirafiori allora aveva almeno sessantamila operai. Accadde nello studio-biblioteca di Panzieri, a Torino, in via Bligny. Dove tra il 1966 e il 1968 sarei stato più volte, poco oltre la morte di Panzieri (1964), insieme a Liliana Lanzardo, mia compagna di Università, e a suo marito Dario Lanzardo, che poi sarebbe diventato un cultore della fotografia come arte[31]. Ma qui va fatto un piccolo passo indietro nella storia.
La FIAT era il cuore del neocapitalismo italiano: duro in fabbrica nel corso del lavoro, ma sulla base di un sindacalismo di collaborazione aziendale intorno al sindacato interno (SIDA) legato alla UIL. I salari alla FIAT erano un po’ più alti che in altre aziende; c’era pure un certo paternalismo verso i dipendenti; ed una propensione politica socialdemocratica, ma tutto ciò era dato in cambio di un’obbedienza cieca pronta e assoluta delle maestranze sul lavoro, con controllo minuzioso uno ad uno anche in apposite cartelline, dei loro orientamenti politici e sindacali, come voleva il direttore tornato ai vertici dopo essere stato epurato per i trascorsi fascisti e rimasto poi in sella dal 1946 al 1966, Vittorio Valletta, superato poi dai nuovi diritti conquistati nell’autunno caldo del 1969: anche se Cesare Romiti avrebbe poi tentato, tanti anni dopo, di ripristinarne taluni metodi dopo la marcia dei dipendenti moderati, o dei quarantamila, del 14 ottobre 1980. Comunque alla FIAT dal 1955 non si scioperava più. Non si riusciva più a scioperare. Mi ricordo che Gianni Alasia, al tempo in cui ero nella segreteria regionale del PSIUP, mi raccontò che in quel 1955 una volta Nenni, segretario del PSI (ben prima della collaborazione di governo con la Democrazia Cristiana), venuto per un grande comizio, si era intrattenuto per più di un’ora con lui, allora segretario socialista della FIOM, per farsi raccontare come aveva potuto determinarsi quella storica sconfitta del sindacato di classe. “Mì l’hai cuntàilu per n’ura e passa, e chièl a smiava interesà. Ma poi al comizio aveva detto semplicemente che la reazione padronale aveva schiacciato momentaneamente il movimento dei lavoratori, che presto sarebbe tornato alla riscossa. Tutto lì …”
Ma il “1955” non durò sempre. Più oltre arrivò il miracolo economico, con tutti quei proletari venuti dal sud presto immessi nelle catene di montaggio dell’operaio “di massa” del tempo. E dopo un poco arrivò, sulla scia dei grandi moti pacifisti e operai degli anni Sessanta, una mezza rivolta operaia: i fatti di Piazza Statuto del 1962, in cui i lavoratori già della UIL avevano bruciato le tessere, e taluni avevano pure attaccato il sindacato collaborazionista della UIL provando a incendiarlo. Dominarono la Piazza per giorni, senza capi. I comunisti, con Diego Novelli in testa, parlarono di fascisti. Ma i “Quaderni rossi” vi videro l’inizio di un processo rivoluzionario politico di massa. Ricordo un comizio del giovane Canestri del 1962 – anno in cui per alcuni mesi fui funzionario, poco funzionante, del PSI ad Alessandria – a Ovada, in cui disse, entusiasmandomi giovanilmente, che gli operai avevano bruciato, in quei giorni, “le tessere della loro vergogna”. Quando una ventina di anni fa glielo ricordai, fece una piccola smorfia di dispiacere, per quell’estremismo da ventottenne (smorfia che, come sempre, andava a suo onore).
Tuttavia l’antagonismo sociale, che in effetti allora cresceva in ogni sfera, in anni splendidi di mutamento possibile della Storia mondiale, estremizzava pure l’estremismo. Panzieri vedeva sì sintomi di rivolta, ma riteneva che fossero potenzialità cariche di futuro che avrebbero potuto farsi processo rivoluzionario solo tramite il lavoro politico di avanguardie che operassero all’interno dei movimenti spontanei per molti anni. Mancava, per lui, una direzione politica conforme ai movimenti antagonistici spontanei. Nonostante l’operaismo in lui c’era, insomma, un fondo, morandiano, di leninismo. Invece Tronti e i suoi amici, tra cui allora era Faina, ritenevano che la classe operaia fosse intrinsecamente rivoluzionaria. Anche quando non scioperava affatto, l’antagonismo sotterraneo sarebbe stato incessante, manifestandosi in mille modi, dalle fermate improvvise al sabotaggio. “Noi”, mi diceva Faina, “partiamo dall’idea dell’autonomia politica della classe operaia” (poi questo si sarebbe detto “autonomia operaia”). O, come avrebbe detto in un intervento di cui io corressi solo l’italiano, un mio amico fornaciaio siciliano in un giornalino che facevo quando insegnai a Pontecurone (1965/1966), Natale: “L’operaio è il rivoluzionario dell’industria”[32]. Così Tronti uscì dai QR e fondò, nel 1964, il mensile “Classe operaia”. “L’unità” si chiedeva: “Chi li paga?”. Era la sua vecchia risposta al dissidentismo di sinistra, che era pure sua difesa di un’antica egemonia tra gli operai non regalata da nessuno, ma conquistata dal PCI sul campo, in lotte ininterrotte dal 1921, nell’antifascismo, nelle carceri e nelle isole di confino durante il regime, nella Resistenza e nella dura lotta contro la restaurazione del potere capitalistico in fabbrica negli anni Cinquanta.
Tronti aveva una visione complessa, evidente pure in un vasto saggio che concludeva Operai e capitale, ma già presente in un saggio sul “piano del Capitale” del 1963, che io lessi subito e che mi colpì moltissimo. Se la classe operaia è la forza dinamica prima dentro e contro il capitalismo e poi al di là del capitalismo, essa dovrebbe essere egemone pure nelle sue organizzazioni politiche, nei partiti e sindacati in cui si riconosca o cui dia un continuativo consenso, com’era il PCI, detto però – dagli operaisti – socialdemocratizzato o burocratizzato. Ma allora i partiti servivano?
Sì, rispondeva Tronti. Servono “tatticamente”. Sono “strumenti” del movimento delle masse proletarie in stato di rivoluzione permanente (a quel che riteneva l’operaismo, in specie quello da lui ispirato). I partiti hanno un ruolo tattico che non si può saltare e va spiegato. Per questo all’atto della rottura dei QR Panzieri disse che la linea di Tronti era “una scientifizzazione della politica di Togliatti”: una giustificazione del riformismo per la rivoluzione.
Fui pure testimone degli sviluppi di tale discussione. Accadde nel maggio 1964, quasi sessant’anni fa. Allora ci fu uno dei rarissimi convegni nazionali di “Classe operaia”, che si tenne a Piombino nella sede degli anarchici. Io ero del PSIUP, ma questo lì non disturbava nessuno. Giorgio Canestri, cui allora ero molto vicino, mi disse, un po’ ironicamente, che andavo a fare “il più”. Vidi così un Tronti molto vivace e dai capelli nerissimi. Aveva dieci anni più di me, che ne avevo ventitré appena compiuti. Gli interventi mi colpirono tutti. Conobbi allora pure Asor Rosa, al quale dissi di aver letto i suoi saggi su “Quaderni rossi” su letteratura e rivoluzione. “Come ti sono sembrati?”, mi chiese. Io gli dissi che mi erano piaciuti molto, ma che mi sembrava di cogliervi un fondo idealistico, hegeliano. Ridacchiò dicendomi che gli era già stato detto. Sentii pure gli interventi di Romolo Gobbi e di Romano Alquati, che dieci anni dopo avrei ritrovato come colleghi all’Università di Torino, che raccontavano di una FIAT – in cui nessuno scioperava – che sarebbe stata percorsa da mille forme di lotta sotterranee raccontate vivacemente, con un tale spontaneismo che Toni Negri intervenne per sottolineare il carattere decisivo del fare politica nei movimenti. E apprezzai molto Mario Tronti, che credeva in tutto ciò, ma lo connetteva a una complessa visione, in cui manifestava apprezzamento pure per Lelio Basso, che considerava “autenticamente marxista”, sebbene isolato.
Nell’ultimo saggio di Operai e capitale, Tronti, comunque, accentuava talmente la centralità operaia nella storia del capitalismo – come se Il Capitale di Marx avesse voluto dire La classe operaia (o, come si diceva allora, la “C.O.”) – che il capitalismo stesso avrebbe potuto essere inteso come sistema di “riproduzione della classe operaia”: era il Capitale a muoversi a calci sotto il perenne impulso della lotta operaia, impulso tanto più efficace quanto più forte fosse l’opposizione operaia al sistema, che così da essa sarebbe stato dislocato sempre più avanti (direi come la borghesia nel 1300 o 1400, che già sotto quel tardo Medioevo cresceva come un uovo nella gallina, in quel caso dalle uova “d’oro”). Di tanto in tanto qualche buon ostetrico accelerava la tendenza ad andare oltre il Capitale (per lui questi era stato Lenin, di cui forse in qualche momento sognò di essere emulo). Comunque su tale base – come ben presto Tronti teorizzò – anche nei partiti si doveva stare, sia pure dentro e contro, per dislocare il contesto sociale sempre più avanti. Così sin dal 1966 Tronti propose, senza smettere di una briciola – per allora – l’ideologia di cui ho detto, il rientro “tattico” nei partiti storici della sinistra, che per i suoi amici era il PCI (ma taluno di loro, come Asor Rosa, scelse il PSIUP, dove Dario Valori volle che entrasse nel Comitato Centrale).
Gli amici di Tronti che non lo seguirono, per i quali il momento politico partitico o statale era totalmente strumentale rispetto alla lotta diretta classe contro classe, formarono una tendenza che vede la storia sociale farsi da sé a livello molecolare, sotto la spinta del contrasto irriducibile tra lavoro salariato (o anche semplicemente servile) e Capitale, poco conta se privato o di Stato: il lavoratore agirebbe in modo tale da impedire il funzionamento dell’estorsione del plusvalore e profitto già durante il capitalismo. Per loro la struttura economico-sociale, intesa come operare delle forze sociali nella storia in prima persona, era ed è tutto, e la sovrastruttura, la politica politicante, i partiti, lo Stato, nulla: oppure un che di sempre marcio (a meno che non si pieghino ad essere un mero mezzo immediato dei movimenti proletari diffusi). Per Tronti – che nonostante le critiche di idealismo rivolte al gramscismo aveva un fondo idealistico (hegeliano) ed anche volontaristico (nietzscheano), trattenuto ma irriducibile – non poteva esserci nulla d’importante nelle forze politiche che non fosse la longa manus delle forze sociali; e, sotto il capitalismo, la longa manus sarebbe stata quella dell’operaio o lavoratore collettivo che, col suo antagonismo, muove il capitalismo stesso, provocandone sviluppo e crisi sempre più gravi sino al crollo. Ma non poteva neppure esservi antagonismo risolutivo senza quel gheriglio politico o della politica, che, in una visione che parta dai soggetti collettivi, doveva essere la classe politica, l’avanguardia politica solo apparentemente esterna, di una classe sociale, che sempre permea o permeerebbe la storia. Questa forza politica, questa soggettività pensante-volente, questo decisore collettivo, può sì avere un ruolo solo maieutico, essere cioè l’ostetrica della storia, ma se la donna (la classe che tutto fa) non deve morire di parto, l’ostetrica ci vuole, la sovrastruttura ci vuole, il partito di sinistra ci vuole, e forse pure il Welfare State, e ha un ruolo decisivo. Per lui Lenin era stato questo: il grande ostetrico del post-capitalismo proletario en marche. E infatti da senatore del PD nel 2017 commemorò in Senato, non so quanto capito e ascoltato, la rivoluzione di Lenin.
In Tronti c’era dunque un fondo idealistico di matrice hegeliana o hegeliano-attualistica (rinnegato, ma sempre risorgente), ma anche fortemente segnato dal volontarismo “nietzscheano” (non sul piano etico, ma della filosofia dell’essere come volontà). Perciò via via Tronti accentuò la centralità della tattica politica, scoprendo e teorizzando con grande forza il decisionismo di sinistra, una sorta di Carl Schmitt rimesso sui piedi, riletto e riproposto da sinistra, più o meno rovesciato nei fini come Marx aveva fatto con la dialettica di Hegel. Su ciò tenne pure un seminario a Torino, credo promosso da Norberto Bobbio, che allora era ordinario di “Filosofia della politica” nonché preside della Facoltà di Scienze Politiche, in cui muovevo i primi passi come docente. Il riferimento va al testo di Tronti Sull’autonomia del politico (1977). Ma testi specifici, su questo Schmitt riletto in chiave marxista di sinistra, sono nella raccolta di testi di Tronti Soggetti, crisi, potere (1980), numerosi e importanti[33].
Ma poi la Storia continuò ad essere sorprendente. Intanto, per la spinta della grande rivoluzione elettronica, cominciarono a sparire le grandi fabbriche. Sin dalla metà degli anni Settanta i trontiani “ortodossi” (o “eretici”, fate voi), elaborarono l’importante teoria dell’operaio “sociale”. Su ciò è da considerare soprattutto l’elaborazione di Antonio Negri.
Al tempo di Marx l’operaio tipico era stato “l’operaio professionale”, che ha un mestiere compiuto, una sorta di cultura delle mani importantissima (tanto da far ritenere a Marx totalmente possibile la dittatura del proletariato in senso stretto). Poi era arrivato il lavoro sempre più semplice e ripetitivo, come quello delle catene di montaggio, ossia l’“operaio massa”; questi poteva pure essere mezzo analfabeta, ma per fare poche mosse semplici e ripetute andava bene, e poteva benissimo passare dagli uliveti della Puglia o dalla Conca d’oro degli aranci della Sicilia in produzione. Ma poi era arrivata la rivoluzione elettronica. Il lavoratore era dappertutto e in nessun luogo, uomo in rivolta delle grandi periferie urbane, detto “operaio sociale”. Il capitale prova a asservirlo “ovunque”, così come esso è ormai “ovunque”, ma sarebbe ovunque anche la rivolta degli sfruttati (i quali col loro agire infrangono le leggi economiche del Capitale, come fossero in rivoluzione permanente), operai sociali o proletari puri che Antonio Negri e Michael Hardt poi chiameranno “moltitudini”[34]. Sull’operaio sociale, spesso in rivolta nelle periferie, e ieri a Parigi contro la riforma delle pensioni di Macron, specie dalla seconda metà degli anni Settanta del Novecento, puntava ora l’operaismo ex trontiano (o neo-trontiano), come l’Autonomia Operaia di Negri o l’anarchismo situazionistico di Faina, permeato dalla “vision” che ovviamente del tutto a prescindere da Faina ora si può vedere nel bellissimo film Joker (2019)[35], che certo lo avrebbe entusiasmato, come immagino possa aver entusiasmato Toni Negri. Si tratta però di vedere se non si tratti di jacqueries, come quelle furiose dei contadini poveri di secoli passati, troppo frantumati nel mondo del lavoro per potersi coagulare, se non tramite “profeti” redentivi, cioè “religiosi”. Comunque sarà il futuro a dircelo. Per ora i proletari senza grande fabbrica producono solo rivolte “selvagge”, che possono apparire rivoluzionarie, ma pure reazionarie, nel senso di suscitatrici di reazione di destra che poi non possono, se mai vogliano, sconfiggere. Su ciò lascerei per ora aperta la valutazione.
Tronti dal 1966 è sempre stato più lontano da tutto quest’antagonismo proletario teorizzato da ex compagni che lo hanno sempre rimpianto; è sempre più stato persuaso che se è vero che non c’è nulla nel “politico” (sia capo, élite, movimento politico o persino Stato) che non sottenda un mondo sociale corrispettivo tutto vivo ed operante anche senza di esso, è pure vero che senza “politico” adeguato “il sociale”, mondo operaio compreso, non va da nessuna parte. Il vero decisionista sa intendere quel che si fonde con i movimenti della società in cui si riconosce, e fare le sue scelte. [36]Ad esempio io sono stato colpito quando subito prima della formazione del secondo governo Conte lessi un’intervista di Tronti, mi pare all’”Espresso”, in cui diceva che il PD, imbarcandosi in tale avventura, stava compiendo un errore storico, valorizzando una forza per lui insensata come il Movimento Cinque Stelle. Io invece apprezzai la manovra di Renzi per fermare “l’irresistibile ascesa” di Salvini, ma mi colpì il modo di ragionare di Tronti, e oggi mi chiedo se non avesse ragione, e se l’eccesso di tatticismo, anche per ottima causa, non sia un grande inganno.
Al tempo stesso, però, “anche” Tronti doveva interrogarsi sul senso di tanta ansia palingenetica a lungo cercata nel soggetto collettivo. Ha seguitato a ritenere ottime le ragioni della rivolta anticapitalistica, da Lenin e compagni all’operaismo marxista del secolo scorso. Ma via via ha dovuto riconoscere che a vincere sinora è stato il Capitale e non il Lavoratore, il padronato e non il proletariato. Ha maledetto il mondo presente persino assai di più di quanto avesse fatto nel secolo scorso, pur riconoscendo che indietro non si può tornare. Il Capitale ha vinto creando “l’uomo nuovo”, che sarebbe “il borghese di massa”, tantoche ormai staremmo “dentro una storia nemica”. Le vecchie soluzioni sono tutte vinte e improponibili. Allora bisognerebbe opporre a questa sorta di mondo dell’uomo sempre più alienato, e che viaggia verso l’abisso, un uomo spirituale, che qua e là fa pensare all’antinomia che gli gnostici, nel mondo tardo antico, ponevano tra uomini “iliaci” (materiali) e “pneumatici” (spirituali”). La prima rivoluzione ritenuta latente, di cui la storia è o sarebbe per così dire incinta, sarebbe proprio la “rivoluzione spirituale”, neo-cristiana nel fondo, come spiegava in opera che sarebbe da discutere, Dello spirito libero (2015). La vera libertà non sarebbe quella partecipativa (almeno per ora), del vecchio per lui glorioso ma superato socialismo e comunismo, e neppure la libertà dal potere altrui, o indipendenza, di tipo liberista, ma pure liberale, bensì quella interiore, capace di svincolarsi dalla storia però sovrastandola. Marx mirava a un mondo senza plusvalore (non solo col plusvalore “allo Stato”), in cui tutto fosse di tutti, che come purtroppo per ora si è visto, “non è di questo mondo” (almeno “sin qui”), ma anche il Cristo mirava a uno status altro dal mondo dominante, a una libertà da questo mondo di tipo interiore.
Tutto ciò m’interessa immensamente, e vi tornerò di certo, perché mi sembra un percorso misteriosamente omologo al mio (che vi sno arrivato in un cammino da Nietzsche e Marx, e Lenin, e Rosa Luxemburg e tutto l’operaismo marxista, e pure comunista, a Jung e oltre Jung, in un processo in cui la renovatio sociale ed ecologica deve legarsi alla religiosità “della” e “nella” vita). Di ciò ciascuno ha naturalmente il diritto di infischiarsi totalmente, magari esclamando “Roba da matti!” come su Facebook ha scritto un caro mio vecchio amico dopo avermi sentito parlare sul mio libro Psiche e eternità. Alla ricerca del dio perduto (2022)[37], in un sito di You Tube di Huffington Post; ma a me l’esclamazione polemica non ha fatto alcun male, e mi ha anzi divertito. Compagni e non compagni, ormai siamo in molti a pensarla così. C’è sempre una Grande Riforma, o rivoluzione, comunitaria ed ecologica da fare, ma la prima rivoluzione, pure per renderla possibile, è “in interiore homine”, è spirituale; non già per originale “pensata” mia o d’altri, ma perché, o anche perché, per andare oltre ci vuole uno spirito che percepisca la propria infinità, libertà e solidarietà “a monte” prima che a valle della Storia. Questo ci dice ora madama la Storia. “È la Storia, bellezza!”.
di Franco Livorsi
- M. CALISE, Mario Tronti, il pensiero di un’epoca, “Il Mattino”, 7 agosto 2023 e “Città Futura on-line”, 9 agosto 2023. ↑
- LENIN, Che fare? (1902), a cura di V. Strada, Einaudi, Torino, 1971. Si confronti con: R. LUXEMBURG, Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa (1904) in: Scritti politici, Introduzione e cura di L. Basso, Editori Riuniti, Roma, 1967. ↑
- R. LUXEMBURG, Lo sciopero generale – il partito – e i sindacati (1906), Edizioni “Avanti!”, Milano, 1919. Il testo è riportato pure, con alcune variazioni, nell’esemplare: R. LUXEMBURG, Scritti politici, cit. Pure prezioso è: R. LUXEMBURG, Scritti scelti, a cura di L. Amodio, Edizioni Avanti!, Milano, 1963. ↑
- Lo stesso Circolo da lui fondato a Genova all’inizio degli anni Sessanta si chiamava “Rosa Luxemburg”. ↑
- L’op. cit. di G. Preti fu edita da Einaudi a Torino nel 1957 ed è stata riproposta, con prefazione di S. Veca, da Bruno Mondadori, a Milano, nel 2007. L’op. decisiva di Dewey, del 1938, fu pubblicata da Einaudi, a Torino, nel 1949. ↑
- P. C. MASINI, Cafiero, Rizzoli, Milano, 1974. Un altro modo per cogliere “questo spirito” è vedere e meditare il bel film di Vittorio e Paolo Taviani San Michele aveva un gallo, del 1975. Secondo me Faina era uno come il protagonista di quel film. ↑
- Su Merli rinvio pure a: F. LIVORSI, Stefano Merli. Lo storico e il socialismo, “Il Ponte”; a. LI, n. 12, dicembre 1995, pp. 75-97. Si vedano i seguenti volumi di RANIERO PANZIERI, da Stefano Merli curati: Lettere 1940-1964, a cura sua e di Lucia Dotti, Marsilio, 1987, assolutamente centrale, per capire la tendenza, ma pure per capire Tronti; Scritti scelti. 1944-1956, Einaudi, 1982; Dopo Stalin. Una stagione della sinistra 1956-1959, Marsilio, 1986; Spontaneità e organizzazione. Gli anni dei Quaderni rossi 1959-1964, BSF, Pisa, 1994. ↑
- Il libro cit. di Aldo Agosti su Rodolfo Morandi comparve presso Laterza a Bari nel 1971. Si confronti pure con: F. LIVORSI, Morandi oggi, “Mondo nuovo”, XIII, n. 44, 14 novembre 1971. Sul PSIUP: A. AGOSTI, Il partito provvisorio. Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano, Laterza, 2013. Si vedano pure: F. LIVORSI, Dialogo sull’Italia repubblicana e sul PSIUP, “Città Futura on-line”, 13 e 19 settembre 2015; Una storia del Psiup, “Critica marxista”, n. 5, 2014, pp. 72-79. ↑
- L. LIBERTINI – R. PANZIERI, Sette tesi sul controllo operaio, “Mondo operaio”, n. 12, febbraio 1958. Furono criticate da esponenti comunisti, come Luciano Barca, sullo stesso mensile socialista. Anche Paolo Spriano su “l’unità” criticò tali posizioni. Il focus per i comunisti era la lotta contro il cosiddetto “regime” democristiano. ↑
- F. LIVORSI, Lenin in Italia. Le componenti della sinistra di fronte alla concezione leninista della classe e dello Stato, “Classe”, XIII, n. 44, 14 novembre 1971, pp. 325-389. Da confrontare, per coglierne l’origine, con i miei articoli “antelucani” in proposito: Gli scritti di Lenin sul socialismo italiano, “L’idea socialista”, n. 3, 3 novembre 1962; Attualità di Lenin, ivi, n. 4. 1970. ↑
- Per tutti questi aspetti sono da vedere: S. MERLI, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale: il caso italiano, La Nuova Italia, Firenze, 1972/1973, due volumi; G. PROCACCI, La lotta di classe in Italia agli inizi del secolo XX, Editori Riuniti, Roma (che nella parte centrale ricostruisce lo sciopero generale nazionale del 1905, il primo del genere in Italia); A. RIOSA, Il sindacalismo rivoluzionario in Italia e la lotta politica nel Partito socialista dell’età giolittiana, De Donato, Bari, 1976; R. DE FELICE, D’Annunzio politico. 1918-1938, Laterza, 1978: Mussolini il rivoluzionario. 1883-1920, Einaudi, 1965. ↑
- L’opera fu edita da Einaudi nel 1966. Ripubblicata con aggiornamenti nel 1972 e poi presso Derive-Approdi, Roma, 2006. ↑
- L’opera, a cura di A, Caracciolo e G. Scalia, fu edita da Feltrinelli, A Milano, nel 1959. ↑
- A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, Edizione dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Einaudi, 1975, quattro volumi. ↑
- A. SCHIAVONE, Sinistra! Un manifesto, Einaudi, 2023. ↑
- F. LIVORSI, Il Rosso e il Verde. L’idea della liberazione sociale, ecologica e spirituale dal XIX al XXI secolo, Golem Edizioni, Torino, 2021. ↑
- Per me era stato importante: A. NEGRI, Marx oltre Marx, Manifestolibri, Roma, 2003, ma pure, per ragioni che emergeranno, Pipe-line: lettere da Rebibbia, Einaudi, 1983. Poi ho letto, e recensito sul “Pensiero politico”, il libro di A. NEGRI e M. HARDT Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano, 2002; Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine mondiale, ivi, 2004, e tutta quanta la fluviale autobiografia, che è pure una storia personalizzata del marxismo di sinistra dagli anni Sessanta a oggi: Storia di un comunista, Ponte alle Grazie, Milano, 2015; Guerra ed esilio. Storia di un comunista, ivi 2017. Mi è parso notevole pure: Dall’operaio massa all’operaio sociale. Intervista sull’operaismo, a cura di P. Pozzi e R. Tomassini, Multhipla, Milano, 1979. Ho sempre letto tutto con partecipe dissenso sul piano della linea politica, ma con fortissimo interesse filosofico e teorico-politico. ↑
- V. FOA, Il Cavallo e la Torre, Riflessioni di una vita, Einaudi, 1991. ↑
- Editori Riuniti, Roma, 1972 e poi 1977. ↑
- Al proposito rinvio ai miei contributi: A. BORDIGA, Scritti scelti, Feltrinelli, Milano, 1974; Bordiga. Il pensiero e l’azione politica, Editori Riuniti, 1976; Scienza e politica in Amadeo Bordiga. La critica dell’opportunismo, il settarismo e il determinismo, “Il Risorgimento”, Milano, LVII, a.2/3, 2005, pp. 263-302. ↑
- L. GEYMONAT, Scienza e realismo, Feltrinelli, 1977; E. BELLONE – L. GEYMONAT, G. GIORELLO, S. TAGLIAGAMBE, Attualità del materialismo dialettico, Editori Riuniti, 1974. ↑
- L. ALTHUSSER, Per Marx (1965), Editori Riuniti, Roma, 1972; con E. BALIBAR, Leggere il Capitale (1965), Feltrinelli, 1972; Lenin e la filosofia (1969), Jaca Book, Milano, 1969. ↑
- L. COLLETTI, Il marxismo e Hegel, Laterza, 1969; con C. NAPOLEONI, Il futuro del capitalismo. Crollo o sviluppo?, Laterza, 1970. ↑
- E. BERNSTEIN, I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia (1899), a cura di L. Colletti, Laterza, 1968. Ma si veda: F. LIVORSI, Turati. Cinquant’anni di socialismo in Italia, Rizzoli, Milano, 1984.Il saggio citato di Rosa Luxemburg contro Bernstein è pressoché integralmente pubblicato nei suoi citati Scritti scelti, a cura di L. Amodio. ↑
- R. MONDOLFO, Sulle orme di Marx (1919), Cappelli, Bologna, 1923; Da Ardigò a Gramsci, Nuova Accademia, Milano, 1962; Umanismo di Marx. Studi filosofici 1908-1966, a cura di Norberto Bobbio, Einaudi, 1968.Rodolfo Mondolfo è discusso, in rispettosa polemica, anche sull’”Ordine Nuovo” di Gramsci nel 1919-1920. È interessante notare che – come direttore dell’Enciclopedia italiana, la Treccani – Giovanni Gentile in pieno regime fascista affiderà al sempre socialista Rodolfo Mondolfo voci sul marxismo.
Sul piano internazionale il maggior esponente di questo marxismo a sfondo idealistico, detto anche “marxismo occidentale”, è stato Karl Korsch, che dopo il 1930 rinnegò il marxismo. Si vedano soprattutto: K. KORSCH, Marxismo e filosofia (1930), Pgreco, Milano, 2012; Karl Marx (1938), Laterza, 1971. ↑
- N. BADALONI, Il marxismo come storicismo, Feltrinelli, 1962. ↑
- P. P. PASOLINI, Le ceneri di Gramsci, Garzanti, Milano, 1957. ↑
- K. MARX, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica. Grundrisse (sono quaderni preparatori del Capitale, scritti nel 1857-1858, ma editi postumi a Mosca nel 1939-1941), a cura di G. Backhaus, Einaudi, 1976, due volumi. Si confronti con: K. MARX, Scritti inediti di economia politica, tradotti e curati da M. Tronti, Editori Riuniti, Roma, 1963. ↑
- L’opera, a cura di G. Giorgetti, è uscita presso gli Editori Riuniti, a Roma, nel 1963. ↑
- A. NEGRI, Pipe-line: lettere da Rebibbia, Einaudi, 1983. ↑
- Dario Lanzardo, sia pure dando un titolo fuorviante rispetto all’operaismo, per suggestione di quegli anni, curò pure una bella raccolta di testi di RANIERO PANZIERI, La ripresa del marxismo-leninismo in Italia, Sapere, Milano, 1972. ↑
- Il riferimento è ad alcune paginette stampate di un giornalino del 1965 intitolato “Unità operaia”. ↑
- M. TRONTI, Sull’autonomia del politico, Feltrinelli, 1977; Soggetti, crisi, potere. Antologia di scritti e interventi, a cura di A. De Martinis e A. Piazzi, Cappelli, Bologna, 1980. Ma va soprattutto letto e studiato: M. TRONTI, Il demone della politica. Antologia di scritti. 1958-2015, a cura di M. Cavalleri, M. Filippi e M. H. Marcat, Il Mulino, Bologna, 2017. ↑
- Per la comprensione profonda e dall’interno di tutta questa problematica trovo prezioso: A. NEGRI, Dall’operaio massa all’operaio sociale, a cura di P. Pozzi e R. Tomassini, Multhipla, Milano, 1979. Ma si veda: A. NEGRI – M. HARDT, Moltitudine: guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, 2004. ↑
- T. PHILLIPS, Joker, film del 2019. ↑
- Anche Vittorio Foa era arrivato a tale conclusione, su cui nel ricordato Il Cavallo e la Torre ci sono pagine straordinarie. ↑
-
F. LIVORSI, Psiche e eternità. Alla ricerca del dio perduto, Moretti & Vitali, 2022. ↑
Molto interessante, Franco. Potresti aggiungere, nella chiusa, anche il Claudio Napoleoni del “solo un Dio può salvarci” (citazione sicuramente inesatta perché fatta a memoria senza controllare). Ovviamente non condivido tutto, ma val molto la pena di far circolare il tuo testo