III) Comunismo italiano, “autonomia del politico” e “spirito libero” nel pensiero di Mario Tronti

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Va notato che Mario Tronti, per quanto filosofo della politica “vero”, lo era suo malgrado. La sua vocazione permanente era quella del “capo rivoluzionario”, o del politico in senso forte: una vocazione però rimasta più o meno insoddisfatta, da “profeta” disarmato, come sono quasi sempre i “profeti”. Del resto egli stesso ha pure teorizzare la figura del profeta dentro la storia vera, in un importante articolo del 1996, Politica è profezia, espressamente dedicato “alle voci profetiche dei ‘monaci’ don Giuseppe Dossetti, padre Benedetto Calati, Pietro Ingrao”, parlando del “profeta” come di uno “che sta dentro la storia del proprio tempo con lo sguardo gettato nell’oltre”. (E questo mi piace da morire). Lì cita positivamente il filosofo religioso “cattolico” Sergio Quinzio, del Mysterium iniquitatis (1995[1]), che a sua volta citava il seguente passaggio (tratto da dove?) del mio amatissimo Dostoevskij: “Quali terribili sofferenze mi è costata – e mi costa tuttora – questa sete di credere, che tanto più fortemente si fa sentire nella mia anima quanto più forti mi appaiono gli argomenti contrari.” La profezia è l’immaginare non un’utopia, ma un’altra storia possibile, ora però impossibile. O, dice lì citando un passaggio del Leviatano di Hobbes: “I profeti non furono dotati di una mente più perfetta, ma di una più viva facoltà di immaginare. (…), è “una funzione straordinaria e temporanea, che viene da Dio per lo più agli uomini buoni, ma talvolta anche tristi.”[2]

A questo punto siamo in grado di cogliere pure il protagonista politico, che si sentiva appassionato e adeguato, pur essendo rimasto personaggio in politica non di primo piano (più o meno come Machiavelli dal 1513 al 1527 quando morì, anche se Machiavelli era stato almeno un leader della sua Repubblica Fiorentina, prima della sua caduta, dal 1498 al 1512; ma poi lui pure era diventato un “profeta disarmato”). E infatti, nello stesso saggio su politica e profezia, Tronti scrive: “ … tra destinazione e destino c’è il campo, libero, della decisione politica, perché la politica è decisione, tra ciò che ti è dato e ciò che puoi fare, tra quello a cui sei chiamato e quello che tu sai di dovere con-rispondere. (…) ‘Proprio destino’: che cosa vuol dire? Qual è il mio proprio destino? Ecco la domanda originaria. Ed ecco l’abbozzo di una risposta non provvisoria. ‘Proprio destino’, per me, è quello della mia parte, quello della parte cui appartengo, la sua determinatezza storica, la sua situazione nel mondo, e quindi il suo tempo-ora (…). Adsum, appunto lì io sto, quello io sono. (…) Ecco. Arriviamo al punto. La mia condizione non è quella del pensatore politico. È quella del politico pensante. (…) E qui c’è lo specifico di una posizione: non l’appartenenza a una corrente di pensiero, neppure il marxismo. Il marxismo viene dopo. Piuttosto l’appartenenza a un pezzo di mondo sociale. Movimento operaio: ecco il nome. Classe più organizzazione (…). Credo di non aver mai scritto una riga senza avere in mente, lì e ora, i bisogni, gli interessi, le motivazioni, le aspirazioni di quel mondo del lavoro moderno, come universo di civiltà alternativo a tutto ciò che è.”[3] Qui c’è una forte vocazione del “politico”, però subito risolta nel collettivo (ma per lui, e storicamente, anche Lenin era così: s’identificava, liberamente e per Tronti giustamente, col “suo” partito bolscevico).

Perciò Tronti, nel suo ultimo libro, Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero (2015), ha potuto trovare accenti alla Carl Schmitt, in Max Weber, ma subito cogliendo, per il proprio marxismo, una taratura non da singolo capo “carismatico”, ma di tipo collettivo. Cita, infatti, le seguenti parole di Max Weber (tratte da Il lavoro intellettuale come professione, del 1918[4]): “Il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile. (…) Ma colui il quale può accingersi a quest’impresa deve essere un capo, non solo, ma anche – in un senso molto sobrio della parola – un eroe. E anche chi non sia né l’uno né l’altro, deve foggiarsi quella tempra d’animo tale da poter reggere anche al crollo di tutte le speranze, e fin da ora, altrimenti non sarà nemmeno in grado di portare a compimento quel poco che oggi è possibile.” Ma di suo Tronti, in La linea di condotta (1966) aggiunge sin da Operai e capitale: “La figura dell’eroe, ‘nel senso molto sobrio della parola’, non è una figura nemica. C’è stata una forza storica – si chiamava Movimento operaio – che ha fatto un’operazione straordinaria, ha fatto dell’eroe un’entità collettiva, una forza organizzata, un soggetto sociale, una potenza politica, capace del grande gesto, la guida di un processo rivoluzionario.”[5] Qui si può cogliere in positivo l’eco pure dell’idea del Gramsci dei Quaderni, su Machiavelli, in cui diceva che il moderno Principe, machiavelliano, che fa lo Stato forzando la storia (nel 1500 lo Stato moderno, “borghese”, e ora, si sperava, “operaio”), nella nostra epoca è il partito politico[6] (lì soprattutto, ma non solo, nel senso di partito in senso leniniano).

Nel suo lavoro, anche da studioso, Tronti ha modo di approfondire tale impostazione, in cui la storia è in particolare quella della classe antagonistica o operaia, subito in correlazione con la sua mediazione politica (movimento operaio), come legame tra sé stessa (classe) e il movimento politico (partito), che rinvia al capo carismatico di Weber per i tempi eccezionali, ma che qui appunto concerne un movimento carismatico rivoluzionario collettivo, in relazione a vari momenti essenziali della storia. Il capo non è il capo partito, ma è il partito, o se si vuole il partito che ha al vertice il capo che si merita.

Uno di tali momenti “clou” è Machiavelli stesso, in un saggio compreso nel libro di Tronti La politica al tramonto (1998), nel capitolo “Il Principe e l’Utopia”, in cui metteva a confronto il realismo politico rivoluzionario di Machiavelli, in cui il Capo lo è in specie come condottiero militare e con violenza e astuzia (ma per “fare lo Stato”), “capo” messo lì a confronto con l’umanesimo pacifistico erasmiano dell’Utopia di Thomas More, pubblicato nel 1516, solo tre anni dopo la stesura del Principe: un Principe qui considerato il “che fare?” leniniano del XVI secolo. L’utopia dice, anche suo malgrado, per negazione, quello che il realismo rivoluzionario, edificatore di quella cosetta che si chiama Stato moderno, fa, e per Machiavelli quello che i veri condottieri hanno sempre fatto: infatti – diceva Machiavelli – “’e romani “feciono quello che tutti e’ principi savi debbono fare (…), veggendo il discosto, gli inconvenienti, vi rimediorno sempre”.[7] Con guerra e violenza, quando erano necessarie. L’utopia lo nega, ma è come il guanto rovesciato del realismo politico.

Ancor più illuminante era, per Tronti, la lezione di Cromwell, che egli rapporta alla teoria dello Stato a lui opposta (assolutista, di Hobbes, importante per Cromwell – non so se espressamente o implicitamente – come Hegel per Marx e Lenin, almeno come filosofia implicita nella rivoluzione popolare), libro scritto da Tronti con A. Piazzi e M. Segatori, Stato e rivoluzione in Inghilterra. Teoria e pratica della prima rivoluzione inglese (1977). Il riferimento va naturalmente al grande movimento rivoluzionario calvinista, puritano, di cui Cromwell fu il capo, e che portò alla decapitazione di re Carlo I Stuart (1649) e all’unico decennio di repubblica dell’Inghilterra, retta da Cromwell con pugno forte e spirito progressivo, aperto alle libere opinioni “protestanti” in Parlamento e ad una stampa libera salvo che per i cattolici (in quanto ritenuti “intolleranti” e perciò da non tollerare), per quel periodo. Spiegando quelle strane corrispondenze tra pensiero assolutista e pensiero-prassi di tipo rivoluzionario, Tronti notava: “Non c’è pratica di governo senza teoria della sovranità. Non si arriva a Cromwell senza passare per Hobbes. E all’inverso. Non c’è teoria della sovranità senza comando sul diritto, senza il potere di fare le leggi. Non si arriva a Hobbes senza passare per Cromwell.” E qui citava un passaggio dal testo di Hobbes Dialogo fra un filosofo e uno studioso del diritto comune, in cui Hobbes diceva: “Non è la sapienza, ma l’autorità che crea la legge”[8]. In pratica lo stesso rapporto necessario che da Hegel porta a Marx (e Lenin) si avrebbe tra Hobbes e Cromwell, ma il nesso non è solo di successione, bensì d’interdipendenza, anche loro malgrado.

Va però notato via via uno spostamento sempre più forte nel pensiero di Tronti dal sociale al politico, dall’azione operaia diretta, alla lotta del “movimento” operaio per la conquista dello Stato; e, infine, dalla storia allo “spirito”. Si ha quasi inversione della relazione tra struttura e sovrastruttura, in un contesto che può ricordare pure la tesi di Gramsci per cui i problemi di struttura si pongono a livello della sovrastruttura. Il nucleo del ragionamento era già presente nella valorizzazione del Lenin che spostava la rivoluzione capitalistica, ancora lontana dall’essere compiuta in Russia, nelle mani del governo “operaio” (da Due tattiche del 1905, con l’obiettivo “giacobino marxista”, della “rivoluzione borghese senza borghesia”, alla Nuova Politica Economica del 1921, che prendendo atto della mancata rivoluzione a Occidente sarebbe tornato a Due tattiche, combinazione tra economia capitalistica e potere “operaio” nella Stato: lo Stato dei soviet che promuoveva, col potere “operaio”, lo sviluppo del capitalismo). Solo che, come sempre, Tronti cercava di ripensare Lenin nell’ottica dei paesi capitalistici avanzati, ma applicandovi uno schema che per lui non valeva più solo per paesi di capitalismo nascente come la Russia, ma pure dove il capitalismo è più sviluppato. Così nell’importante saggio Sull’autonomia del politico (1972), pieno di echi di Carl Schmitt ripensato dal punto di vista di Lenin, già spiegava – oltre a tutto mettendo ciò in corsivo – che “La classe operaia, sulla base della lotta dentro il rapporto di produzione, può vincere solo occasionalmente; strategicamente non vince, strategicamente è classe, in ogni caso, dominata.” Ma ancora una volta riemergeva il solito Lenin modello 1905 universalizzato, nel senso che il capitalismo, attraverso lo Stato, può essere governato dalla classe operaia. Qui viene in mente quanto mi era stato riferito da un giovinetto ventenne di Alessandria, che certo non aveva capito tutto ciò che quell’uscita sottendeva, presente alla discussione dell’agosto 1963 in cui i “trontiani” avevano rotto con i “Quaderni rossi”. Panzieri aveva detto che la linea proposta da Tronti, che connetteva pretesa attualità della rivoluzione operaia con il cosiddetto “punto di vista operaio” di una piccola avanguardia che avrebbe preteso di rappresentare carismaticamente la classe operaia , era la “scientificizzazione della strategia politica di Togliatti”, in cui “il politico” decide per la “sua” classe (il partito, o embrione di partito “proletario” si arroga il diritto di pensare-volere per il proletariato come vero interprete della sua volontà generale). Certo nel 1963/1966, il gruppo operaista credeva che pure la grande maggioranza dei lavoratori la pensasse a suo modo, ma esso si sentiva comunque l’incarnazione di tale volontà senza bisogno di ulteriori verifiche empiriche. Quando l’approccio fu portato alle estreme conseguenze, dal 1972 in poi, il “politicismo” sempre più sincronizzato con una sorta di togliattismo di sinistra, leninista-schmittiano, divenne il post-operaismo. Ma da un punto di vista politico-dottrinario il punto chiave è che per tal via alla fine il centro del “politico”, anche per fare il potere operaio, diventa lo Stato. In Tronti l’autonomia del politico, pur implicando sempre torsioni di tipo decisionistico, è soprattutto autonomia dello Stato, e dell’azione del “movimento operaio” – dimensione che comprende la classe operaia e il partito politico vero che vi si connette – nello Stato.

Va però colta la radice leninista, anzi “leniniana”, del forte interesse di Tronti per Schmitt, ma pure l’idea che Cromwell stia a Hobbes come Lenin sta a Schmitt. Lenin non conosceva Schmitt, ma Schmitt sarebbe importante per intendere il decisionismo di Lenin e Lenin per comprendere come venga fuori quello di Schmitt. Schmitt era coscientemente l’anti-Lenin, ma il suo pensiero lo presupponeva, e sviluppandosi chiariva l’altro, antagonista[9]. Questo però stava a significare che quello che è il perno del marxismo ab ovo, la dipendenza almeno in ultima istanza della sovrastruttura (politica, idee e Stato) dalla struttura (rapporti economico-sociali) non stava più in piedi, se non come mero substrato, per cui “lo stesso materialismo storico risulta un prodotto del primo capitalismo” [10].

Non stupisce la grandissima considerazione che Tronti mostrerà, dal 1972 in poi, proprio per le svolte importanti nella sinistra portate da Togliatti – partito nuovo, di massa ma sempre d’avanguardia, comunista “in toto”, e egemonia nella cultura, e la volontà di essere movimento democratico e comunista – partecipando alla presentazione dell’importante raccolta di suoi scritti curata soprattutto da Giuseppe Vacca nella più preziosa collana di filosofi e pensatori della Bompiani nel 2015. Concorda con la definizione di Togliatti come totus politicus data da Benedetto Croce. Lì c’era il decisionismo da Machiavelli a Lenin a Schmitt, nella grande tradizione del realismo politico, da Tronti sempre apprezzata, specie dal 1972 alla morte[11]. Del resto Tronti, in Senato, pronunciò una vera orazione celebrando i novantacinque anni di Ingrao, comunista che sentiva molto affine pure come tipo umano.

È possibile che in tale quadro a metà degli anni Settanta Tronti – sempre in funzione neocomunista e anti-socialdemocratica – abbia aperto al compromesso storico. Questo non è mai criticato, e neppure Berlinguer è “espressamente” criticato, anche se la strategia di tal genere è certo vista da Tronti come tattica per portare il movimento operaio alla direzione dello Stato (e non come strategia).

Ma ben presto la “rivoluzione operaia” del nuovo biennio rosso (1968-1969), come già il ’19-20, si risolvette in disfatta, nel 1978 (morte di Moro, e tutto il resto subito prima e dopo). Di lì per Tronti data una vera disfatta storica della sinistra, nonostante un qualche impegno da militante, e a un certo punto da parlamentare del Partito Democratico della Sinistra e poi del Partito Democratico bersaniano, impegno vissuto più o meno ai margini e in modo alquanto defilato, e probabilmente disincantato. Accettava il solito ruolo dell’intellettuale di sinistra che dà credibilità al mondo comunista nell’una o nell’altra istituzione elettiva, magari tra i dubbi e qualche intimo conflitto.

La comprensione della disfatta graduale della sinistra (che in sostanza dalla morte di Moro del 1978 arriva all’avvento di Berlusconi del 1994 e poi, tra alti e bassi, si fa rovinosa), è complessa, e per Tronti giustamente e dichiaratamente inspiegabile con categorie storico materialistiche, presunte o effettivamente marxiste. Infatti egli diceva – mostrando quanto fosse diventato interno alla logica del PCI e della sinistra dei partiti di lunga data – che anche l’autunno caldo non aveva trovato una sinistra inadeguata. Lo osservava nel 1980 ne Il tempo della politica: “C’erano stati naturalmente ritardi, incomprensioni, reciproche diffidenze, ma si può dire che alla fine degli anni sessanta partiti e sindacato da una parte, nuove masse dall’altra erano in buona posizione per incontrarsi.”

La spiegazione del mancato sbocco democratico di sinistra era sempre individuata nell’interesse della borghesia a frenare lo sviluppo politico sociale del suo stesso sistema, per non farsi sopravanzare dalla classe lavoratrice (Lenin colpiva ancora). E infatti seguitava: “Tutte le vicende dei primi anni settanta sono internamente e violentemente investite da questa reazione di sistema. C’è un filo oggettivo che lega la strategia della tensione, la ripresa neofascista, le rivolte meridionaliste, le campagne fanfaniane, un filo oggettivo che funziona come progetto politico di far arretrare la situazione complessiva, di abbassare il livello e il terreno di lotta, di spingere indietro gli equilibri avanti recentemente raggiunti tra organizzazione di classe e movimenti di base, di chiudere sulla difensiva le forze che stavano cercando una strategia d’attacco.” Il disegno di reazione capitalistica all’avanzata del movimento operaio così, tramite l’accordo Moro-Berlinguer, pareva fallire. Ma poi fallì quello del movimento operaio: “ … è la vicenda del biennio speculare al 1968-1969, quello del 1977-1978”. Insomma il 1977-1978 sono l’anti-’68 e l’anti-’69 e aprono a un’epoca di disfatta storica della sinistra (non autoritaria come quella scatenatasi nel 1921, almeno per ora, ma ugualmente grave, e cui le proteste del “dalli al fascista” potrebbero persino servire).

In sostanza la sinistra fu sconfitta di nuovo, come nel primo dopoguerra dal fascismo (se non peggio). Il grande tema delle ragioni della mancata risposta della sinistra a quella manovra controrivoluzionaria, forse sfumate in Tronti per il rifiuto del comunista – pur ex contestatore – di attaccare il proprio quartier generale, resta senza risposta.

Un punto chiave per Tronti, cui su ciò plaudo, sembra sia stato il fatto che la sinistra contrastò invece di assumere come primo problema la riforma dello Stato, che nella sostanza il capitalismo “reale” (o anche le forze politiche veramente egemoniche che l’incarnano), secondo Tronti non vorrebbe (e infatti dopo tanto rumor arriva sempre il nulla), perché nella sostanza la “nostra” borghesia, o la borghesia generale, “il sistema”, preferisce che le contraddizioni – per quanto durando senza essere risolte rendano marcio il sistema specie politico – non esplodano. Il capitalismo si salva accettando che lo Stato funzioni male, lasciando che le situazioni marciscano pur di durare, evitando così la drammatizzazione della crisi, che ci sarebbe se ci fosse una vera democrazia dell’alternativa tra blocchi storici opposti. Il capitalismo “vero”, o chi per esso (qui era la Democrazia Cristiana in primis, come forza egemone intrasistemica, e poi quel che il convento della “borghesia”, dominante e ormai “egemone”, ha passato da Berlusconi a Giorgia Meloni), preferisce un lento declino a contraddizioni che si farebbero per esso dirompenti, tali da metterlo in ginocchio, se i nodi venissero al pettine (spiegava già in modo antelucano nel citato saggio del 1972 Sull’autonomia del politico). Questo “quieta non movere” pur di durare, anche facendo marcire tutto, non era fatto per diabolico proposito di non funzionare lo Stato per frenare il “movimento operaio”, ma come reazione del ceto dominante quasi naturale (come d’istinto). La necessità spinge avanti un ceto politico dominante, intrasistemico, che si limita di continuo a mediare senza risolvere i problemi, anche a costo, come accade, di farli incancrenire peggiorando a poco a poco il sistema.

Questo però spingeva Tronti ad una conclusione che io pure, forse con diversa risposta (ma non tanto), ho ribadito sin dal 1989 innumerevoli volte: la riforma che dia vera governabilità allo Stato è il vero interesse del mondo dei lavoratori (che però la sinistra non vuol mai capire, per tante ragioni: in parte attinenti ad una sorta di paura antistorica del “Duce”; un po’ per vera e propria ignoranza storico-politica e soprattutto istituzionale, tanto più grave quando i dilettanti allo sbando non capiscono neanche di essere tali; in parte per corta visuale di gruppi dirigenti figli di due tristi tramonti, l’uno comunista e l’altro democristiano, con capi di calibro sempre più piccolo. (Se si guarda l’iter che da Togliatti di scalino in scalino arriva alla Schlein, nella filiera che dal PCI porta al PD d’oggi, la cosa si vede a occhio nudo). Ma, come diceva su ciò Tronti addirittura nel 1972, si tratta di “arrivare a prendere in mano questo processo di ammodernamento della macchina statale, di arrivare addirittura a gestire non, come si dice nel gergo, le riforme in generale, ma in particolare quel tipo di riforma specifica che è la riforma capitalistica dello Stato.”[12] (Sembra “di destra”, e invece è l’interesse primario della sinistra).

E ancora, in: Fare società con la politica (2008) notava: “Credo sia venuto il tempo di lavorare a proporre noi, da sinistra, la grande riforma costituzionale. Il nostro modello dovremmo farlo girare intorno al perno di un decisionismo senza presidenzialismo.”[13] (Com’è noto – aggiungo io – Renzi presidente del Consiglio e segretario del PD, sia pure con alcuni pasticcetti e soprattutto con un eccesso di nociva personalizzazione dello scontro, ci provò, nel 2016, ma invano. Sembra che da tempo immemorabile sia la sinistra a non volere alcuna forma di modifica profonda dello Stato: a lungo con ottime ragioni per temerlo, ma dallo scacco dell’ultima vera strategia della sinistra, dal 1979 almeno, credo io, per dabbenaggine autolesionistica, talora favorita dal cinismo semicriminale di avversari “moderati”).

Tutto il ciclo si conclude dunque, anche per Tronti, con una storica disfatta, diversamente dalla Rivoluzione francese, che aveva lasciato almeno il nuovo diritto. Qui invece non solo dopo Lenin era arrivato il dispotismo di Stato di Stalin e poi la sclerosi burocratica dell’URSS, ma dopo il Sessantotto e l’autunno caldo, e la morte di Moro, tra alti e bassi, è arrivata una disfatta epocale. Lo scriveva già nel saggio Über das geistige in der politik [“Sull’intellettuale in politica”](1992), quando non era ancora arrivato Berlusconi), chiedendosi: “E poi la regina di tutte le domande: il proletariato storico, la classe operaia moderna, poteva farcela a cambiare il mondo? A cambiare l’uomo: poiché era questo il fine, lo scopo finale (Endziel), del progetto e del percorso rivoluzionario. Il socialismo era un mezzo, una lunga transizione a questo.”[14] Già osava l’amara constatazione storica, con riferimento attualizzato alla Fenomenologia dello spirito di Hegel del 1807: “La tumultuosa fenomenologia dello spirito c’è stata, ma la Storia finisce qui. L’Assoluto ha raggiunto sé stesso, il Moderno borghese ha vinto. L’uomo dell’economia politica capitalistica, descritto da Smith, “l’individuo borghese”, l’”homo oeconomicus”, ha dimostrato di essere “l’uomo di natura”, “l’essere naturale”[15], che però non si può accettare, anche a costo di andare al di là della natura (scoprendoci, nel fondo, “spirito”). A me viene in mente André Gide, che nel romanzo I falsari ricordava che “in fondo si può evadere solo verso l’alto”[16].

Perciò nel suo ultimo libro, in certo modo testamento, Dello spirito libero (2015), diceva: “Dall’aristocratica Prussia [dell’Hegel delle lezioni di filosofia della storia, che aveva visto il culmine della storia nello Stato prussiano] il primato viene consegnato all’Inghilterra capitalistica e al suo dinamico figlio illegittimo, che scalpita al di là dell’Oceano [gli Stati Uniti] .”[17]

Si è, o sarebbe, inverata l’ipotesi catastrofica che Marx e Engels avevano pur fatto nel Manifesto del partito comunista del 1848: “… ancora una volta le lotte operaie avevano imposto al capitalismo lo sviluppo, ma questa volta con un risultato originale: la rovina non è stata solo di una classe, ma di tutte e due le classi in lotta. Marx era stato buon profeta.”[18] Ormai il grido di Zarathustra adatto a questi tempi non è “Dio è morto”, ma “il popolo è morto”. E perciò, già nel richiamato Politica e destino, del 2001, subito domandava: “Perché credete che ci sia il populismo? Ma, perché non c’è più popolo.”[19]

Tuttavia ciò ha comportato, nel nostro mondo, l’opposto della proletarizzazione: la “borghesizzazione”. In fondo è quello che il mio ex collega a Scienze Politiche a Torino, il politologo Luca Ricolfi, chiama ora “La società signorile di massa”, con i due terzi che sono diventati piccoli borghesi[20]: il che però in Tronti suscita un orrore che direi neo-marcusiano[21] , e che io totalmente condivido.

Non si sottrae alle conseguenze, che hanno strani punti di contato con il Bordiga specie vecchio, che credo Tronti non conoscesse quasi, a partire dalla critica della democrazia, che egli chiama “reale” (come Breznev diceva “reale” il socialismo sovietico: quello che c’era nella storia “vera”). Lo dice proprio in una relazione del 2005 espressamente intitolata Per la critica della democrazia politica, in cui segnalava l’omologazione avvenuta, in quest’età di secolarizzazione, con il piccolo borghese soddisfatto, “ultimo uomo” per Nietzsche.[22]

A questo punto la spiritualità diventa rivoluzionaria perché la “materia umana” si è rivelata o è diventata, sciaguratamente borghese. Insomma, pare che sia proprio solo la scoperta della dimensione spirituale a poter contrastare questa morta gora. Si tratta di costruire, quante più persone possibile, una sorta di fortezza interiore, che chiama “spirito libero”, contro quest’ estrema decadenza del capitalismo, che degenera sempre più per non morire (più o meno come aveva fatto il “socialismo reale”, quando dopo Kruscev dal 1964 aveva deciso di durare tal quale per non morire, marcendo a poco a poco). Oggi la “democrazia reale”, col suo Stato, marcio ma irriformato, forse non solo in Italia, ma ovunque, pure in America, sarebbe a questo punto.

Ma per ora a ciò si oppone e si può e deve opporre solo una coscienza interiore irriducibile, nella sua differenza ontologica, che si può persino serenamente, per quanto tragicamente, sottrarre all’abbraccio ormai letale di un sistema sempre più marcio. Lo spirito profondo dell’uomo e nell’uomo – proprio in quanto è irriducibile a uno stato del mondo non solo marcio, ma sempre più marcio – risulta essere la vera resistenza contro un mondo borghese in totale decadenza. Lo spirito è assunto come una sorta di antistoria, ma come resistenza a una storia fattasi troppo marcia. Tanto che in una specie di piccola-intervista in forma di film, parlando di questo ultimo suo libro, Dello spirito libero, Tronti – che pure in tanti scritti negli ultimi anni ha citato con totale assenso testi di San Paolo e Sant’Agostino, di Eckhart e infine pure di Rodano, Enzo Bianchi e Quinzio – negava di essersi convertito, e diceva che tale libro, Dello spirito libero, “è dieci volte più sovversivo di Operai e capitale. Qui il conflitto è col mondo e uomo che questa società ha prodotto. È la civiltà occidentale che è messa in questione.”[23]

Su ciò è interessante l’intervento del 2016 Lo spirito che disordina il mondo, in cui spiega che non si tratta di consolarsi col ritorno alla religione storica, come fanno tanti politici, né tantomeno a fondamentalismi religiosi, islamici e non. Piuttosto, dopo aver citato positivamente la filosofa mistico-libertaria Simone Weil, dice che la “espressione ‘sentire religioso’ mi piace di più perché evoca una disposizione dell’animo umano”. Si tratta, anche per lui, di spiritualizzare la vita contro la decadenza borghese dilagante: “ … e confesso che a volte mi sembra questa l’ultima e definitiva frontiera della resistenza nei confronti dell’aggressione proveniente dal mondo esterno. Io infatti considero il mondo ‘di fuori’ un mondo nemico. Dunque bisogna stare attenti a considerare la spiritualità come una sorta di ‘benessere interiore’, insomma la cura di sé per trovare l’armonia con il mondo. (…) Ecco: io contrappongo a tutto questo un’altra cosa, molto netta: stare in pace con sé, oggi, vuol dire entrare in guerra con il mondo.”[24]

Perciò nel libro Dello spirito libero, che in certo modo è pure stato il suo testamento politico filosofico, Tronti scriveva: “Che cos’è dunque, per me, spiritualità? È fondamentalmente interiorità, è il mondo interiore dello spirito umano, declinato in forma duale, al femminile e al maschile, come due modi differenti di essere, complementari e conflittuali. È coltivazione di sé, non per sé, ma contro il mondo. Non fuga mundi, come non è stata mai nemmeno per il monachesimo, ma presenza nel mondo, inattaccabile dall’esterno. Una sorta di vallum, eretto a difesa, entro cui si può dire: ecco voi qui, con le vostre idee, non mi prenderete, e da cui si può ripartire per sortite d’attacco agli assedianti. La guerra è ormai guerriglia. Anche la guerra del pensiero, l’unica che valga la pena di combattere.”[25] E al proposito, nello stesso testo cita San Paolo, in quel caso quello della “Seconda lettera ai corinzi”, che diceva: “Per questo non ci scoraggiamo, ma se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno.”[26] E richiama, su ciò, anche uno stupendo aforisma, che io pienamente sottoscrivo, del mistico tedesco Angelus Silesius, del XVII secolo, il quale diceva che “Due occhi ha l’anima, uno guarda nel tempo. Ma l’altro si rivolge dritto all’eternità.”[27]

In ciò si connetteva a tutti i movimenti collettivi “contro”, com’è nella quintessenza dello spirito libero, notando appunto, in Dello spirito libero: “Dietro questo discorso c’è, sullo sfondo, una figura un po’ hegeliana e un po’ nietzscheana, che inviterei a frequentare, come si frequenta un amico in un mondo nemico. È il Freigeist, lo spirito libero, una figura novecentesca, che ha trovato un suo seguito nel principio-speranza di Bloch, nella coscienza del proletariato del giovane Lukàcs, nel comunismo teologico di Benjamin, in quello escatologico di Taubes, in quello della fine della storia di Kojève. E aggiungerei nel soldato bolscevico che, baionetta in canna, assalta il Palazzo d’inverno, nel partigiano condannato a morte della Resistenza che scrive la sua ultima lettera, nell’operaio di fabbrica taylorista che salta la scocca sulla catena di montaggio, nella donna che pronuncia la parola impronunciabile: rivoluzione femminile. La spiritualità è libertà. Libertà politica. Perché la libertà o è libertà dello spirito, o è solo un’altra forma di oppressione. Oppressione politica.”[28]

In questi riferimenti è molto presente un approccio che Tronti ha desunto da una famosa pagina di Angelus Novus di Walter Benjamin: il guardare al futuro dal punto di vista del passato, ma per andare oltre[29] (il che non so se sia marxista nel senso di Marx – ed io sospetto di no[30] – ma non è importante). Tronti, in Per la critica della democrazia politica (2005), lo semplifica con efficacia notando: “Ora io, come sapete, mi muovo dentro un impianto che chiamo autoironicamente neoclassico, nel senso che mi metto nel Novecento, pianto i piedi in quel secolo e poi da lì guardo indietro e in avanti e da lì non mi muovo e non intendo muovermi (p. 604).”[31]

Questa famosissima immagine del Walter Benjamin, di Angelus novus, elaborta ripensando molto liberamente un piccolo quadro di Klee, sull’angelo della storia che guarda agli oppressi di tutte le generazioni del passato mente un forte vento lo spinge al futuro, è ripresa e concettualizzata pure da Tronti. E sicuramente è ben nota al regista romano Nanni Moretti, che quasi certamente conosceva Tronti nell’ambiente culturale comunista della capitale, e a mio parere “di fatto” ritorna nell’apologo del finale del bel suo recente bel film “civile” e “politico” Il sol dell’avvenire, qui discusso con competenza e ampiamente dal mio amico Giuseppe Rinaldi, ma senza apprezzamento di questo punto “conclusivo”, che pare a me decisivo. Moretti, molto legato all’idea di un PCI marxista inteso soprattutto come un vivaio di fede e impegno per il riscatto da parte del mondo del popolo proletario romano degli anni Cinquanta, constata la fine di quel mondo, travolto sotto le macerie dell’involuzione burocratico-imperialista sovietica, evidentemente del 1991 (nella sua metafora sin dai fatti d’Ungheria del 1956, in cui il cingolato sovietico soffocò nel sangue un “paese fratello” ribelle). Il vero quadro comunista motivato ne è così sconvolto che vorrebbe impiccarsi, e così avrebbe dovuto finire il film. Ma il regista, del film nel film (Nanni Moretti stesso), alla fine s’inventa un altro finale, una conclusione che non c’era stata nella Storia vera, ma avrebbe potuto esserci, se il PCI per tempo (nella metafora sin dal primo irrompere del burocratismo imperiale sovietico a Budapest nel ‘56), si fosse ribellato rompendo con Mosca. Non accadde, certo per molti motivi storici. Ma ogni scenario sul “poter essere stato” guarda naturalmente al futuro, come a dire che quel che si dovrebbe fare è “di nuovo” una comunità di popolo coesa e moralmente motivata, senza i pesi morti del burocratismo liberticida che avevano inquinato e rovinato il passato.[32] Io non lo credo possibile, perché il futuro non è mai passato riveduto e corretto, e credo che imbarcandosi su tale strada sia troppo facile cadere nel “nostalgismo”, anche riveduto e corretto, che non paga. Però trovo che l’idea che solo una nuova comunità popolare variegata e alternativa a un mondo imbarbarito, riunificatrice delle anime del socialismo, nato col “sol dell’avvenire” dell’Inno dei lavoratori[33] di Filippo Turati del 1886, potrebbe “salvarci”, non sia da buttare, e in tale chiave pure l’Angelus novus benjaminiano può avere molto valore.

Nell’approccio del Tronti in questione gli spiriti liberi del passato parlano a quelli liberi del futuro, in quanto sono stati tutti contro il loro tempo, e non del e nel loro tempo. Pone perciò non già accordo, come il filosofo Max Scheler, tra spirito e vita, ma, come Klages, contrasto (come nota in: Con le spalle al futuro. Per un altro dizionario politico, già nel 1992).[34] Il tutto in Tronti si accompagna non alla riscoperta della religione “storica”, ma della religiosità. In ciò si sente concorde con l’identità tra lo spirito universalmente umano e Cristo teorizzata da San Paolo nella Lettera ai Galati, che fondava il dogma cristiano del corpo mistico, in cui nell’universalmente umano-divino spariscono tutte le differenze, come dice ne Il sorriso di Sara, nel 1992[35], con echi pure antiprotestanti (e gli Ugonotti? E i Puritani di Cromwell?) e controriformisti, che probabilmente portano all’ultimo Diego Fusaro (il cui La fine del cristianesimo, recentissimo, rimpiange Ratzinger[36]) : echi che non mi piacciono affatto, sia per la visione sovrindividuale della fede (“non sono più io, ma Cristo”) che per una trascendenza che è più e prima dell’immanenza, da cui pure per Tronti emana. Molto di tutto ciò mi piace, ma io sottolineerei con molta più forza il fatto che pure il Christus deve scaturire nelle individualità e non inghiottirle. Tuttavia mi ritrovo totalmente nell’istanza della religiosità in interiore homine, che trovo fondamentale, laddove Tronti dice: “Non si tratta più di ridefinire la rivoluzione, in termini puramente razionali e naturali. Non si può più fare critica della politica senza decifrare e decidere il segno che ha la crisi della politica. Occorre cominciare a pensare, a cercare, una fondazione totalmente diversa. Si è verificata una chiusura, o un’assenza di uscita, nella condizione attuale del mondo della storia, al punto che la rivoluzione in senso alto non è più rivoluzione contro la società feudale o contro la società borghese, ‘ma diventa il rovesciamento del segno della storia’.””[37] In ciò si connetteva a idee forti del grande studioso della stessa economia marxiana, Claudio Napoleoni, alla fine del suo percorso.

Ma nonostante tanti echi cristiani e cattolici in questi libri – con espliciti riferimenti specie alle Lettere di San Paolo (il più detestato da Nietzsche), al Sant’Agostino del De vera religione e soprattutto della Città di Dio[38], alla Controriforma stessa (riferimenti talora discutibili), a Enzo Bianchi ed a Rodano – sono fortissimi gli echi di Nietzsche, che pare essere il filosofo più riscoperto del suo ultimo periodo, specie in riferimento alla fase della filosofia dello “spirito libero” in Nietzsche, da Umano troppo umano (1878) alla prima parte del Così parlò Zarathusta (1883).[39] E infatti in Umano troppo umano (1878), qui citato in In Dello spirito libero, Nietzsche diceva, con apprezzamento di Tronti: “Si chiama spirito libero colui che pensa diversamente da come, in base alla sua origine, al suo ambiente, al suo stato e ufficio o in base alle opinioni dominanti del tempo, ci si aspetterebbe che egli pensasse.”[40] Nietzsche lo contrapponeva non solo al pensiero dominante, ma anche ai “dotti”, dicendo: “Lo spirito libero è diffamato, specie dai dotti”, i quali si distinguono dagli altri per la loro “esattezza e diligenza di formiche”, “pratici dell’intelletto, che credono di stare con i piedi per terra nelle cose del mondo”, ma in realtà “rassomigliano a quei viaggiatori che fanno la conoscenza di paesi e popoli dal treno”.[41]

L’approccio però guarda sempre a un oltre dello spirito, anche religioso, tanto che sulla scorta di Hölderlin, ma pure di Schelling e di Cacciari – e come io pure vengo facendo nella seconda parte della mia Trilogia, il romanzo “in uscita” Nietzsche dopo la follia. Romanzo dionisiaco[42] – a quel che ora ho notato pure Tronti proponeva l’unione tra Cristo e Dioniso, osservando, in Über das Geistige in der Politik (Con le spalle al futuro, 1992): “Cacciari: ‘La mitologia schellinghiana rappresenta essenzialmente un theoreîn tragico (…). Ma il dio del narrare-sapere mitologico, della sapienza che da lontano fa segno, è Dioniso, anzi la trinità dionisiaca, che Schelling – dice Cacciari – ‘chiaramente interpreta come preparatio evangelica’. Cristo fratello di Dioniso, come canta Hölderlin … .”[43] Non è tanto questione di nomi quanto di ritrovamento del divino non al di là o al di sopra della vita, ma nella vita, come Vivente della e nella vita, e svelabile nella mente umana. Dobbiamo spiritualizzare la materia e materializzare la vita, anche per sacralizzare e salvare la terra, e trovare l’eterno nel tempo e viceversa. Qui è il messaggio del mio Nietzsche dopo la follia. Romanzo dionisiaco, che sta venendo alla luce. Ma qui a parlare non è più Tronti, ma sono io. E con ciò?

Perciò, nel libro Dello spirito libero Tronti poteva felicemente affermare, connettendosi a Nietzsche ma rettificandone felicemente il pensiero: “Lo spirito libero è come il regno di Dio. Non si può dire: eccolo qui o eccolo lì. Non attira l’attenzione. Non si può dire: verrà alla fine dei tempi, o tornerà nella terra degli uomini. Lo spirito libero è in mezzo a voi. È Dio in noi. Fuga dagli ultimi uomini. Ma senza bisogno di un oltre uomo (p. 293).[44]” Parole sante.

Per leggere il saggio  completo su Mario Tronti

  1. S. Quinzio, Mysterium iniquitatis, Adelphi, 1995.
  2. M. Tronti, “Politica è profezia”, “Baillame”, n. 20, 1996, e in: Il demone della politica, cit., pp. 485-498, ma v. qui p. 490. L’op. cit. di S. Quinzio comparve da Adelphi, Milano, 1995. Per T. Hobbes, v. il cit. suo Leviatano. La materia, la forma e la potenza di uno Stato ecclesiastico e civile (1651), a cura di R. Giammanco, UTET, Torino, 1955, due volumi.
  3. M. Tronti, “Politica e profezia” (2001), in: Il demone della politica, cit., pp. 573-574.
  4. Max Weber, Il lavoro intellettuale come professione (1918), Einaudi, Torino, 1977, p. 121.
  5. M. Tronti, “La linea di condotta” (1966), cit, in: Il demone della politica, cit., p. 218.
  6. A. Gramsci, Quaderni del carcere, ed. dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 1975, quattro volumi. Fa parte dei quaderni su Machiavelli e lo Stato moderno.
  7. M.Tronti, La politica al tramonto, Einaudi, 1998, e ora nel Demone della politica, cit., nel capitolo Il Principe e l’Utopia, pp. 535-548. Si vedano in particolare p. 535 e p. 547.
  8. M. Tronti con A. Piazzi e M. Segatori, Stato e rivoluzione in Inghilterra. Teoria e pratica della prima rivoluzione inglese, Il Saggiatore, Milano, 1977, qui riportato nel saggio di Tronti Hobbes e Cromwell, pp. 333-368. Citava pure un passaggio dal testo di Hobbes Dialogo fra un filosofo e uno studioso del diritto comune (1666), e in “Opere politiche”, a cura di N. Bobbio, UTET, Torino, 1959, in cui Hobbes diceva: “Non è la sapienza, ma l’autorità che crea la legge” (p. 356).
  9. C. Schmitt, La dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe (1921), Laterza, Roma-Bari, 1975. Su questo pensatore è fondamentale: Carlo Galli, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Il Mulino, Bologna, 1996.
  10. M. Tronti, “Sull’autonomia del politico” (1972), in Il demone della politica, pp. 285-312, qui p. 293.
  11. P. Togliatti, La politica nel pensiero e nell’azione. Scritti e discorsi 1917-1964, a cura di M. Ciliberto e G. Vacca, Bompiani, Milano, 2015. Ma si veda, su You Tube, del 2015: Presentazione del volume “Palmiro Togliatti”, presso Treccani La Cultura.it.
  12. M. Tronti, Sull’autonomia del politico (1972), cit., qui p. 297.
  13. M. Tronti, “Fare società con la politica” (2008), poi in: AA.VV., Non si può accettare, Ediesse, Roma, 2009, e in Il demone della politica, cit., pp. 623-635, ma v. qui p. p. 629.
  14. M. Tronti, “Il sorriso di Sara”, in: Con le spalle al futuro. Per un altro dizionario politico, Editori Riuniti, 1992, e in Il demone della politica, cit., pp. 435-454, ma qui p. 437.
  15. M. Tronti, “Über das geistige in der Politik” (1992), in: Il demone della politica, cit., p. 453
  16. A. Gide, I falsari (1925), Bompiani, Milano, 1958.
  17. M. Tronti, Dello spirito libero. Frammenti di una vita, Il Saggiatore, Milano, 2015, p. 13.
  18. Ivi. 315.
  19. M. Tronti, “Politica e destino” (2001), cit., in Il demone della politica, cit., pp. 576-577.
  20. L. Ricolfi, La società signorile di massa, La nave di Teseo, Milano, 2019.
  21. H. Marcuse, L’uomo a una dimensione (1964), Einaudi, Torino, 1967.
  22. M. Tronti, “Per la critica della democrazia politica”, in: AA.VV., Guerra e democrazia, a cura di M. Tari, Manifestolibri, 2005, e in: Il demone della politica, cit., pp. 601-610.
  23. La mia parola messa a nudo. Video-intervista a Mario Tronti, “Youtube”, s.d.
  24. M. Tronti, “Lo spirito che disordina il mondo” (2006), in: AA.VV., Politica e Spiritualità, “Adista”, n. 6, gennaio 2007, e in: Il demone della politica, cit., pp. 611-622, ma v. p. 618.
  25. M. Tronti, Dello spirito libero, cit., p. 226.
  26. Ivi, p. 171.
  27. Ivi, p. 292.
  28. M. Tronti, Dello spirito libero, cit., pp. 231-232.
  29. W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, con un saggio di F. Desideri, Einaudi, 2014. Ivi, nelle sue “Tesi sulla filosofia della storia”, in un passaggio famoso Benjamin scriveva: “C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.”
  30. Marx rimproverava i rivoluzionari del 1848 a Parigi di pensarla come repubblicani di epoche anteriori invece che incentrando l’azione sull’emergente proletariato (e sul socialismo), in: Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 (1850), a cura di G. Giorgetti, Editori Riuniti, 1962, e, soprattutto, insegnava a vedere il presente dal punto di vista del futuro, considerando sempre il presente come morituro, spiegando la sua dialettica nel fondamentale Poscritto del 1873 alla seconda edizione del primo libro del Capitale, I, ivi, 1962.
  31. M. Tronti, Per la critica della democrazia politica, cit., ne “Il demone della politica”, cit., pp. 601-610, ma v. p. 604.
  32. Mi riferisco al bel film di Nanni Moretti Il sol dell’avvenire, del 2023, ampiamente discusso da Giuseppe Rinaldi, in Nanni Moretti e la morte del cinema, qui il 21 settembre 2023.
  33. Filippo Turati, che a quel tempo oltre che giovane avvocato ventinovenne socialista, era poeta, compose l’Inno dei lavoratori all’inizio del 1886, su invito dell’operaio-leader Costantino Lazzari, per il suo piccolo Partito Operaio Italiano. L’Inno, famosissimo, col motivo della “libera bandiera” su cui splende “il sol dell’avvenire”, fu subito musicato da Zenone Mattei. Rinvio pure al mio libro: Turati. Cinquant’anni di socialismo in Italia, Rizzoli, Milano, 1984.
  34. M. Tronti, “Über das Geistige in der Politik” (1992), in: Con le spalle al futuro. Per un altro dizionario politico, Editori Riuniti, Roma, 1992, e in: Il demone della politica, cit., pp. 435-454, ma 445.
  35. M. Tronti, “Il sorriso di Sara”, nel 1992, cit., in: Il demone della politica, cit., pp. 455-484.
  36. D. Fusaro, La fine del cristianesimo, Piemme, 2023, recentissimo, rimpiange Ratzinger.
  37. M. Tronti, “Il sorriso di Sara”, in Il demone della politica, cit., pp. 477-478.
  38. A. Agostino, De vera religione – La vera religione (389/391), a cura di M. Vanini, con testo latino a fronte, Mursia, Milano, 2012; La città di Dio (413/426), a cura di L. Alici, con testo latino a fronte, Bompiani, Milano, 2001.
  39. Tra le innumerevoli edizioni di questo gruppo di opere, si vedano nell’edizione delle “Opere complete” del filosofo, a cura di G. Colli e M. Montinari, pubblicata in italiano da Adelphi.
  40. M. Tronti, Dello spirito libero, cit., p. 265.
  41. Ivi, pp. 267-268.
  42. Vengo pubblicando una trilogia, Psiche e eternità, di cui alla fine del 2022 è uscito Psiche e eternità. Alla ricerca del dio perduto, Moretti & Vitali; all’inizio del 2024 uscirà la seconda, Nietzsche dopo la follia. Romanzo dionisiaco, e più oltre, in forma poetico-poematica, uscirà il terzo: Il dio nella vita. Lo svelamento dell’Essere dopo la “morte di Dio”. Cogliere in queste settimane tutte queste assonanze con il vecchio Tronti per me è stato un piacere.
  43. M. Tronti, “Über das Geistige in der Politik (Con le spalle al futuro)”, 1992 e in Il demone della politica, cit., pp. 435-454, ma 442.
  44. M. Tronti, Dello spirito libero, 2015, cit., p. 293.

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