L’inverno della democrazia

In realtà le nostre sconfitte
non provano nulla, se non che siamo troppo pochi
noi che lottiamo contro gli iniqui
e da chi sta a guardare aspettiamo
che almeno si vergogni!
Bertolt Brecht, “Contro i realisti”, Poesie e frammenti, in Poesie, Einaudi, Torino 1999, p. 1205.

A scanso di equivoci: il contenuto di questo intervento non è in alcun modo contrario all’esperienza del Governo Draghi. In diversi articoli apparsi nelle settimane scorse sulla stampa quotidiana si è cercato di attribuire la responsabilità della crisi di governo a vari personaggi (tutti in qualche misura corresponsabili), dimenticando che coloro che ci rappresentano in Parlamento non sono stati scelti da fantomatici “poteri forti”, ma votati dagli italiani il 4 marzo 2018. I seicento trenta deputati e i trecento quindici senatori che siedono in Parlamento sono pertanto lo specchio fedele dell’elettorato, fermo restando che, in entrambi i rami del Parlamento, ha votato poco meno del 73% degli aventi diritto.

L’intera vicenda della crisi politica che ha portato al nuovo Governo presieduto da Mario Draghi, sulla cui autorevolezza solo qualche sprovveduto penso possa nutrire qualche dubbio, è stata bene sintetizzata in un apprezzabile articolo[1] del professor Franco Livorsi, eminente studioso di Storia del pensiero politico contemporaneo, nel quale, a mio avviso, l’autore glissa sulla questione più importante, vale a dire sull’inverno della democrazia (italiana e non solo).

La stagione politica avviata nelle ultime elezioni nel nostro paese segue peraltro le tante stagioni autunnali che si sono succedute, quanto meno, a partire dall’inizio del nuovo secolo, caratterizzate dalla progressiva frammentazione e perdita di consenso delle forze della sinistra italiana,[2] unitamente all’avvento, a partire dalle elezioni del 2013, del “Nuovo populismo” rappresentato dal M5S. Poiché, e mi scuso per l’auto citazione, mi sono intrattenuto nei mesi scorsi sull’«Essenza del sistema parlamentare»[3], non starò qui a ripetermi. Vorrei tuttavia avanzare una riflessione di carattere più generale, a partire dall’esito infausto del referendum (consultivo e non vincolante) indetto il 23 giugno del 2016 dall’allora premier britannico David Cameron, con l’intento di confermare la permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea, e dalle elezioni dell’8 novembre di quello stesso anno che hanno portato Donald Trump alla Presidenza degli Stati Uniti. Unitamente all’esito delle elezioni del novembre scorso, esito che ha decretato la sua mancata rielezione (nonostante abbia ottenuto ben 74 milioni di voti, pari al 46,8%, nella consultazione elettorale che ha fatto registrare la più alta affluenza elettorale della storia degli Stati Uniti dal 1900).

Che cos’ha in comune l’esito degli appuntamenti elettorali di cui sopra, se non il passaggio dall’autunno all’inverno della democrazia? Cerchiamo di approfondire questo aspetto.

 E’ sufficiente un semplice sguardo alla cartografia riportata su Wikipedia sull’esito delle singole elezioni per verificare come gli elettori culturalmente, economicamente e socialmente integrati nelle democrazie occidentali abbiano votato: a) in maggioranza a favore del Remain nel referendum sulla Brexit del 2016 (con percentuali superiori al 52% fino a oltre l’80%), in Scozia, nell’Irlanda del Nord e in alcune aree della Grande Londra; b) per Hillary Clinton nel 2016 e Joe Biden negli Stati in cui hanno prevalso nelle ultime due elezioni presidenziali statunitensi; c) per i partiti della “sinistra” nelle due sole stagioni autunnali dell’Ulivo e, dopo quella esperienza, terminata grazie al “fuoco amico”, nelle elezioni successive solo più nelle regioni del Centro-Nord-Italia tradizionalmente orientate a favore del Partito Democratico. Non v’è dubbio, quindi, che in un clima di incertezza e di spaesamento dovuto a una serie di cambiamenti epocali avvenuti negli ultimi anni, le componenti più deboli e fragili della popolazione dei paesi cosiddetti “avanzati”, abbiano preferito affidare le loro sorti alle destre populiste piuttosto che al “realismo raziocinante” dei democratici e delle sinistre.

Azzardo un’ipotesi: in un contesto in cui, dalla reganconimics e dal thatcherismo degli anni ottanta, nel mainstream del pensiero economico è dominante l’ideologia individualista – unitamente al fatto che negli Stati Uniti essa si accompagna alla dottrina della “povertà come colpa” -, le componenti più deboli e fragili delle popolazioni dei paesi maggiormente industrializzati sono quelle che hanno maggiormente subito e/o sono state lasciate indifese a fronte degli effetti dei seguenti cambiamenti epocali: 1) la “globalizzazione non governata”; 2) le trasformazioni in atto nel processo produttivo, alle quali hanno fatto seguito la precarietà e l’individualizzazione del lavoro dovute all’«Industria 4.0», all’«economia della condivisone», all’«Internet delle cose», ovvero delle stampanti tridimensionali; 3) all’ampliamento delle disuguaglianze in tutte le loro declinazioni, di reddito, di ricchezza, territoriali, nelle condizioni di partenza, di età, di genere e sociali, disuguaglianze amplificate dalla finanziarizzazione dell’economia e dalla concentrazione del potere finanziario; 4) alla perdita di credibilità del ceto politico, improntato all’improvvisazione e alla sottovalutazione della competenza (l’«uno vale uno»; 5) al decadimento della formazione culturale dei giovani, imputabile allo svuotamento dei tradizionali canali formativi (famiglia, scuola, associazionismo).

In poche parole, a seguito di tutto ciò, le classi medio-basse sono state lasciate in uno stato di insicurezza e precarietà, in preda ad un sentimento (oserei dire risentimento) di “ingiustizia sociale”, totalmente in balìa della disinformazione dei social, facili prede degli hackeraggi interessati, nonché dei populisti esagitati del “first” (american, european, italian). Sole, in altri termini, in presenza di una palese crisi del sistema della rappresentanza democratica in diversi paesi del mondo, in un momento in cui si profilano all’orizzonte le grandi sfide che l’umanità sarà chiamata ad affrontare nei prossimi anni: dai cambiamenti climatici, all’esaurimento delle risorse e alla scarsità dell’acqua, il bene primario della vita sulla Terra. I segnali del disagio sociale provenienti dalle recenti vicende seguite alle elezioni statunitensi e le manifestazioni politiche in vari paesi, unitamente al clima di intimidazione verso chi si occupa dell’informazione libera, lasciano presagire una lunga stagione di inverno democratico.

di Bruno Soro
Alessandria, 21 febbraio 2021

  1. F. Livorsi, Da Conte a Draghi: l’Italia nuovamente in cammino, disponibile sul sito

    (https://www.cittafutura.al.it/sito/conte-draghi-litalia-nuovamente-cammino/)

  2. Per verificare questa mia osservazione è sufficiente fare riferimento alla cartografia riportata nella voce di Wikipedia relativa all’esito delle Elezioni politiche della Repubblica Italiana dal 2006 al 2018. (https://it.wikipedia.org/wiki/Elezioni_politiche_italiane#Elezioni_politiche_della_Repubblica_Italiana).
  3. B. Soro, L’essenza del sistema parlamentare, Panorama di Novi, 2 ottobre 2020.

2 Commenti

  1. Semplicemente non sono d’accordo. Dare la colpa all’elettorato (italiano o americano) per esiti che non si comprendono o non si condividono, non mi pare il modo migliore per interpretare la fase che stiamo vivendo. Se siamo arrivati a questo punto, con queste migliaia di miliardi di debito pubblico, con lo smantellamento del sistema industriale, con una divaricazione fra chi detiene molto (pochi) e chi ha poco (moltissimi), le ragioni sono da ricercare in troppe furbizie del recente passato. Ho provato a scriverlo più volte ma, evidentemente, non è stato percepito il messaggio.

  2. Mi pare che concordiamo al 100%. Veramente! Non ho affrontato il tema dell'”inverno della democrazia”, di cui pure nei tre articoli ultimi e connessi ho parlato, perchè l’avevo già fatto tante tante volte. Mica possiamo sempre tornare sulle stesse cose! Ci penso da anni. Nel 2014 ho persino pubblicato, da Moretti & Vitali un romanzo-saggio a sfondo distopico temendo sviluppi catastrofici da parte di un presidente americano capitalista e cinico … tra cinquant’anni. Ma si sa che si parla sempre, esagerando, per il presente: “Kali Yuga. Il crepuscolo del nostro mondo”.
    E l’Italia, specie dal 2017, è per me motivo di sconforto. Ero anzi quasi deciso a non parlare più di politica attuale, prima della crisi del “Conte due”: governo che mi pareva totalmente inadeguato non in assoluto, ma rispetto all’emergenza e possibilità economiche, tanto che da molto tempo preferivo riflettere su socialismo e post-socialismo, con piccoli saggi filosofico politici e per un tempo in cui saremo morti (e che pubblicherò). Tuttavia ho avuto la lieta sorpresa di vedere che “anche da noi”, nonostante la crisi epocale, qualcosa si muove. Il governo Draghi è figlio della crisi della democrazia, ma anche della reazione a tale crisi. Qualcuno si è mosso, e non al di là del sistema ma dal cuore del sistema. E mi è parso bello che le forze politiche, pur in grande e epocale crisi, “al dunque” si siano accordate. Quasi tutte. Giustamente borbottando, ma era il minimo. Il Paese in crisi, e fazioso come pochi altri al mondo, però non stupido, invece di fare come altri che fanno follie stile Brexit oppure vedono gente che incendia automobili nelle grandi periferie, ha preferito “farsi furbo”: ha accettato di mettere in campo il meglio che ha. Qualcuno, anche sbagliando, ha aperto la strada. Mattarella ha messo in campo quanto di meglio abbiamo, in Italia e in Europa. L’85% ha detto sì. No bad! C’é almeno qualche ragione per sperare.

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