Ma siamo uomini o riformisti?

L’indignazione per la “deriva grillina” corre fra le file dei “riformisti” del PD ed ex PD: come osano i vetero-marxisti della CGIL, nostalgici della lotta di classe, mettere in discussione il luminoso Jobs Act renziano e raccogliere firme per abrogarlo? Notare che, curiosamente, in questo improbabile gran sciocchezzaio “riformista” i grillini, campioni della democrazia liquida, vengono accostati ai marxisti… perché come a Carnevale ogni scherzo vale.

Sotto accusa dunque Giuseppe Conte, leader dei Cinque Stelle, che sarebbe responsabile di “avere cavalcato strumentalmente” il referendum della CGIL avendo addirittura posto la sua firma il Primo Maggio. Non so se abbia cavalcato, probabile, ma così funziona la politica. Sta di fatto che ha fatto una cosa giusta e firmare il primo maggio è sicuramente un modo per dare il giusto rilievo alla campagna. E la segretaria del PD Schlein rea di avere sottoscritto lei stessa i referendum, peraltro senza intaccare la forte carica di ambiguità che da sempre avvolge il PD: sostegno al referendum ma però… come questione di coscienza, come se ci trovassimo di fronte a un tema da diritto civile, come l’aborto o il matrimonio gay, temi importantissimi ma naturalmente molto trasversali, e non di fronte a una questione programmatica del massimo rilievo, il tema del Lavoro, sul quale un partito non può avere due posizioni differenti e contrapposte e il “ma anche” non vale. Stai con i lavoratori o con i padroni? Una domanda a cui il PD da sempre non è in grado programmaticamente di rispondere perché se dovesse dare una risposta si romperebbe il giocattolo, e nessuno, nemmeno la giovane segretaria che ha vinto le primarie ma non ha vinto il partito, vuole rompere il giocattolo: il partito dovrebbe votare il proprio scioglimento e dividersi in due. Perché il PD è un partito che da sempre si libra giulivo sulla schiuma ideologica neoliberale, questo inafferrabile e avvolgente aerosol culturale che annebbia la visione della realtà. Una bolla di sapone totalizzante per cui il “lavoro è una merce” come le altre e si compra sul mercato, il c.d. “mercato del lavoro” naturalmente col principio del massimo ribasso, che ormai fa i morti a grappolo, nelle centrali idrolettriche (dove mai era successo niente del genere), nei cantieri Esselunga di Firenze, nella manutenzione ferroviaria di RFI, o nei tombini di Palermo, dunque se sei lavoratore non vali niente perché meno costi e meglio è (il presidente Mattarella si è recentemente opposto a questa affermazione, sostenendo giustamente che “il lavoro non è una merce” ma sarà conseguente negli atti o sarà l’ennesima grida manzoniana, cioè presidenziale?). Perché per essere conseguente occorre rompere il paradigma austeritario imposto dalla governance europea, che dopo un periodo di sospensione pandemica, sta tornando.

Luciano Gallino: “Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità”

La gigantesca melassa neoliberale delle magnifiche sorti e progressive del mercato, dicevamo, che piace a un pezzo grosso del PD piemontese come Valle che rivendica orgogliosamente il Jobs Act (cioè stare organicamente dalla parte dei padroni) come un fattore di progresso. Opporsi al Jobs Act sarebbe addirittura un’abiura, rovesciando grottescamente le parti fra Galileo e i suoi inquisitori. Un quadro dove il debole diventa dipinto come il prepotente e viceversa, il neoliberismo come il luminoso sistema progressivo, eliocentrico, mentre il socialismo è il passato, come il sistema tolemaico, il vecchiume, e qui metti la foto di una vecchia centrale sovietica, scrostata e desolante.

La realtà, al di là di quello che dicono i propagandisti mainstream come il solito Cottarelli è che la condizione del lavoro in Italia è tragica come mai lo era stata nella storia recente, i dati sull’occupazione che piacciono al governo (ma anche a larga parte del PD come il citato piemontese Valle) che vengono portati ad esempio essendo del tutto fuorvianti: non si possono paragonare i livelli degli anni ‘70 e forse dei primi anni ‘80, quando fra i primi segnali di crisi si sentivano ancora i benefici del boom economico, delle recenti lotte sociali, del ’68, e tante famiglie erano ancora monoreddito, mentre oggi dilaga il lavoro povero e tanti sono costretti a lavorare in condizioni di grandissima precarietà e sotto-occupazione pur di portare qualcosa a casa (principalmente le donne e i giovani, ma non solo).

Ma pure questo atto minimo di coerenza con sé stessi è visto da soi-disant “riformisti” cioè i renziani dentro e fuori il PD come un atto di ritorno al passato “comunista” o peggio ancora, non bisogna rifare il PDS! Peccato che l’attuale PD abbia molti meno voti del PDS (che sicuramente era stato fatto male, ma non per i motivi addotti da lor signori).

Il Jobs Act del PD (ché nonostante l’oltranzismo di Renzi non si può dire che sia del solo Renzi quando larga parte del PD la condivide e lo considera positivo tutt’oggi) è la legge che ha cancellato l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e fatto strame del diritto del lavoro in Italia, reso i lavoratori, concretamente più poveri e più ricattabili, senza più speranza di sentirsi parte attiva e integrante della repubblica fondata sul lavoro. Che infatti non vanno più a votare in massa, e quei pochi che ci vanno votano la destra.

Una legge negativa che partiva dunque da un presupposto inaccettabile, umiliare il movimento operaio e sindacale cancellando l’art.18 dello statuto dei lavoratori. E Berlusconi? Berlusconi non lo ha fatto. Berlusconi si è fermato. E questo, signori, va ricordato a suo merito. Perché il diritto del lavoro in Italia non è stato cancellato da Berlusconi, lo hanno fatto gli ex comunisti.

Devo fare dunque una piccola digressione su Berlusconi.

Vorrei far notare ad amici e compagni che Berlusconi non ha mai chiesto di scrivere “semplicemente Silvio” sulla scheda (perché nonostante tutto, da buon cumenda milanese, al suo cognome ci teneva) come fa la “Giorgia” nazionale (che giustamente non stimava, e anche questo va a suo merito, come non voleva La Russa alla presidenza del Senato) e non ha mai abrogato l’art.18 dello Statuto dei Lavoratori come invece ha fatto Renzi coi suoi “riformisti” del PD. Certo voleva farlo, ma noi siamo andati in piazza e lui che voleva essere amato da tutti, si è fermato.

A capo di quella piazza c’era, come noto, il capo della CGIL – ed ex comunista “migliorista” – Sergio Cofferati, e quella grande manifestazione al Circo Massimo e di fronte a cui Berlusconi si è fermato è stato l’ultimo atto della lotta di classe in Italia. Dopo è finito tutto e la schiuma culturale neoliberale, così soffice come la carte igienica della pubblicità, ma così potente, ha avvolto ogni cosa. Lo stesso Cofferati non aveva le idee chiare su come portare avanti quelle rivendicazioni e si è fatto abbindolare da D’Alema e Fassino acconciandosi a fare male il sindaco di Bologna anziché prendere le redini di quella battaglia e condurla da qualche parte. Oggi Cofferati se ne torna mestamente nel PD.

Berlusconi, inoltre, non ha mai espresso il disprezzo verso i poveri e gli ultimi, come oggi fanno la Meloni e quelli che comunque sono i suoi figliocci politici (e questo naturalmente va a suo grave carico perché li ha allevati lui quando gli facevano comodo) perché era paternalista e voleva essere amato da tutti. Finirà che nella prospettiva storica Berlusconi sarà considerato un supplente certamente inadeguato al ruolo (ne avevo già scritto qui) ma non il peggiore?

Dunque nel mondo delle bolle di sapone neoliberale, così leggere e così potenti, oggi definirsi riformisti vuol dire l’esatto opposto di quello che voleva dire in passato quella gloriosa parola, dall’illuminismo francese ed europeo al secondo dopo guerra: migliorare costantemente la situazione sociale a vantaggio di tutti, sostenere il progresso e la scienza, eliminare progressivamente le ingiustizie e le disuguaglianze. Oggi il “riformismo” è una bieca rivendicazione contro la necessità della lotta di classe e della partecipazione attiva del mondo del lavoro, cancellando di fatto il significato e il fondamento della nostra Costituzione repubblicana scolpito (da Amintore Fanfani) nell’art.1. Ma può esistere il Jobs Act, che cancella la dignità dei lavoratori, nella Repubblica fondata sul Lavoro?

Dai prezzemolini renziani e calendiani vengono citati e utilizzati a sproposito i poveri Matteotti e Rosselli, per i quali il riformismo si fondava sulla lotta di classe in democrazia, (e dunque contro l’idea leninista della dittatura del partito unico) ed era un fattore fondamentale del progresso democratico. Ma se i riformisti di oggi sono quelli che difendono il jobs act raccontando fanfaluche, allora vuol dire che la parola riformismo è diventata una minaccia. Un tempo, ancora non lontano, la parola riforma voleva dire più benessere per tutti. Oggi quando un capo di governo annuncia di voler fare le riforme, la povera gente comincia a dire le preghiere.

Sulla necessità democratica della lotta di classe. Percepisco già l’orrore di chi, per sbaglio, si trovasse a leggere questo mio articoletto: ma guarda un po’ questo vetero marxista ci vuole rispolverare un vecchio arnese di modernariato, totalmente inservibile, come la lotta di classe, uno che, direbbe Renzi, vuole mettere il gettone nello smartphone. Che patetico, poveretto! Qui giova allora ricordare agli smemorati che tutte le contro-rivoluzioni, quella di Stalin come quella neoliberale di oggi, reprimono la lotta di classe e la sostituiscono con altri aggeggi più consoni ai loro scopi: la lotta fra potenze, la “geopolitica”, il militarismo, il consumismo, l’avversione per gli immigrati. Certo il consumismo è un metodo molto più raffinato. I metodi di Stalin, ancora oggi utilizzati dal suo emulo Putin, erano molto spicci e incivili: vai nel gulag e nella migliore delle ipotesi muori di freddo. I metodi del neoliberismo sono molto più sofisticati: la schiuma della cultura usa-e-getta che trasforma il tutto in niente, particolato leggero mosso da un moto browniano, che non tocca mai terra, come le fibre di amianto (che appunto uccidono). Negli ultimi tempi con una torsione perbenista.

Oggi il neo-perbenismo neoliberale punta il dito contro il conflitto sociale, la lotta di classe (orrore!) come la visione di una centrale atomica sovietica coi muri scrostati, nell’angosciante Zona contaminata di un film di Tarkovsky si trovano probabilmente anche delle inquietanti repliche della lotta di classe, insieme ai telefoni a gettoni che squillano a vuoto, qualcosa di sinistro e ridicolo insieme. Loro sì che sono uomini di mondo (e non hanno fatto nemmeno il militare a Cuneo).

Questo capovolgimento della realtà che per contrasto fa subito venire in mente la vera satira di Antonio De Curtis (in arte Totò) che capovolge la realtà allo scopo di evidenziare meglio la condizione dell’uomo comune di fronte alle angherie del potere, coi suoi sempiterni caporali, ci fa dire parafrasando il Principe della risata: siamo uomini o riformisti?

Filippo Boatti

8 maggio 2024

2 Commenti

  1. La cancellazione dell’articolo 18 è stata una cattiveria e una punizione per il grande sostegno dei lavoratori alla manifestazione di Sergio Cofferati. Ciò che non avevano il coraggio di fare i D.S. è stato fatto dal PD di Renzi, nella fase di ammirazione da parte del partito che vedeva in lui il grande innovatore. Un innamoramento che ha disvelato la ‘mutazione genetica’ della sinistra.
    Grazia Ivaldi
    8 maggio 2024

  2. Condivido in toto il contenuto dell’articolo . Una critica al riformismo formulata in modo rigoroso ed allo stesso tempo ironico. Bravo Filippo Boatti. Ed ora che Elly ha firmato il referendum cosa faranno i cacicchi e caporioni che si erano appecorati al diktat renziano?

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