Il colore dell’inferno. La pena tra vendetta e giustizia – Umberto Curi – Bollati Boringhieri, Torino 2019

Il titolo dell’ultimo saggio di Umberto Curi è tratto da un asserto di Simone Weil, secondo la quale le pene inflitte dai tribunali sono sempre caratterizzate da una precisa tonalità: Il colore dell’inferno. Al di là della provocatoria citazione, resta pur condivisibile il fatto che il carcere ‒ punizione per antonomasia, a cui vengono condannati i colpevoli dei reati ritenuti più gravi ‒ costituisce di fatto un supplizio (un patire) che non rimedia al danno compiuto, ma in un certo senso rappresenta solo un male utilizzato per punire/segregare chi ha commesso del male. E questo non è solo un paradosso, una scelta denotata da irrazionalità, bensì una amara realtà che diviene ancora più ingiusta allorquando venga comminata ad un reo la pena capitale, con cui egli viene messo a morte per il fatto di aver procurato volontariamente la morte altrui.

Non sarà che risolversi a chiudere in prigione un soggetto rappresenta una sorta di sofisticata vendetta per interposta persona?, si/ci chiede Curi. Certo, le faide oggi sono quasi del tutto scomparse, ma possiamo vendicarci di chi ci ha danneggiato in modo indiretto, tramite l’intervento dei magistrati che puniscono al posto nostro i responsabili di questo o quell’atto criminoso. Siamo dunque ancora all’occhio per occhio e dente per dente? Comunque la si pensi, la risposta del nostro filosofo è netta ed inequivocabile: “la concezione della pena come «giusta retribuzione» affonda le sue radici, dal punto di vista storico e culturale, nella relazione indissolubile fra colpa e punizione, la cui accezione originaria è la vendetta a scopo ritorsivo”.

Altro che sanzioni penali prive di trattamenti contrari al senso di umanità o impiego di pene che dovrebbero tendere alla rieducazione del condannato, come recita la Costituzione. Ma non basta e Curi rincara la dose della sua critica osservando che, per quanto il diritto svolga, oggi come ieri, un ruolo insopprimibile all’interno di ogni società civile, resta il problema, non di poco conto, che venga ritenuta valida dai più soltanto una giustizia statale determinata ad infliggere ‒ manco fosse la dike di Zeus ‒ pene concepite quali mere punizioni; forse pure catartiche, ma giusto tali in quanto cause di afflizioni.

Non va scordato tuttavia un altro motivo che sta a base d’ogni tipo di pena: la valenza potremmo dire pedagogica e/o preventiva di essa, ovvero l’esempio educativo di quanti son costretti in galera; in parole povere: l’idea (non corroborata dai fatti) che la sola ipotesi infausta di finire in carcere farebbe passare a molti la voglia di commettere reati per timore di esso e ammaestrerebbe i giovani affinché ne stessero alla larga. Fermo sempre restando il carattere economicistico della pena (danno-rimborso), tramite la quale il reo ripaga la società con la privazione della libertà personale. Ma purtroppo, anziché sdebitarsi, il detenuto finisce per essere un debito: un costo per lo stato. Senza parlare dell’assurdità di tener rinchiuso un uomo senza fargli far nulla; come accade alla maggioranza di chi, specie in Italia, se ne sta in carcere a vegetare.

Insomma, conclude Curi, oggi: “i principali modelli di concezione della pena”, per varie ragioni, “appaiono fortemente in crisi”. Si sta facendo però strada la possibilità di concepire una nuova forma di giustizia: quella detta riparativa, che intende andare oltre la logica del castigo e si pone piuttosto: “come un modello di giustizia che coinvolge volontariamente il reo, la vittima e la comunità nella ricerca di soluzioni al conflitto”, allo scopo di favorire “la riparazione del danno”, nonché “la riconciliazione tra le parti”. Ciò nell’ottica di una pratica che ponga al centro non il colpevole quanto la vittima; non la sanzione afflittiva ma il risarcimento, l’operare restitutivo/oblativo da parte di chi ha causato un danno ad un singolo o alla comunità.

Per una pena che non abbia più quindi il colore dell’inferno, né quello di un moralistico purgatorio; e per una giustizia non più vincolata da norme formali/universalistiche ma che ha da venir concretamente realizzata attraverso condotte/risposte individuali attente in primis alle “necessità altrui”: alle giuste esigenze che sono insieme/inestricabilmente quelle della vittima e del colpevole.

Umberto Curi, Il colore dell’inferno. La pena tra vendetta e giustizia, Bollati Boringhieri, Torino 2019.

Francesco Roat

1 Commento

  1. Curi riprende quasi letteralmente la riflessione di Nietzsche su libertà dell’agire e responsabilità del reo e la conduce alle estreme conseguenze, con un esito, dunque, fortemente relativistico e, in ultima analisi, nichilistico. Ciò che a mio giudizio resta opinabile è, da un lato, ben lungi da ciò che Curi afferma, la non considerazione della vittima, a causa della negazione del ruolo risarcitorio della pena comminata al colpevole; dall’altro, la non considerazione del cogente ruolo arbitrale e astratto che la legge e la sanzione debbono avere. Declinare, infatti, la soluzione del conflitto tra reo e vittima in relazione a ogni singolo caso, prendendo avvio dalle concrete condizioni che hanno indotto al reato, significa a mio avviso affidarsi alla casualità e all’arbitrio, di fatto negando i diritti sia della vittima, sia del colpevole a una soluzione il più possibile equilibrata rispetto a situazioni simili.

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