Punto di forza assoluto di questa straordinaria esposizione l’aver saputo e potuto affiancare, nelle tre sedi deputate, altrettante irresistibili ostensioni temporanee al sontuoso patrimonio permanente dei luoghi: «a Varallo una Pinacoteca dentro un palazzo antico, a Vercelli dentro una struttura temporanea atterrata dentro una chiesa sconsacrata, a Novara un salone a capriate all’ultimo piano di un Broletto medioevale» (Giovanni Agosti, curatore, in catalogo).
Vercelli: alla struttura dell’Arca (l’antico tempio di S. Marco, di cui appena dopo inizieranno i restauri) riproposti i polittici di Gattinara e di Romagnano: ma anche le opere che non sia stato possibile ottenere sono a loro volta puntigliosamente elencate. Tornata la clamorosa ”Adorazione” di Sarasota (Florida) che aveva già figurato nella fondante proto-mostra del 1956 di cui si dirà; si aggiunti il “Compianto” da Budapest, la “Natività” dall’Assunta di Morbegno, il “Battesimo” casalese, e varie provenienze da collezioni private, oltre a disegni a carboncino e a matita, e a lavori di artisti correlabili. Nella chiesa umiliato/agostiniana di San Cristoforo (1515), la “Madonna degli Aranci” e le clamorose “Storie”, affrescate ciclicamente, della Maddalena e della Vergine con la Crocifissione (1529-34), in grado di competere con le spazialmente consimili prestazioni che il Tintoretto avrebbe fornito una ventina d’anni dopo nella “sua” Madonna dell’Orto veneziana.
All’Arengo di Novara è stato finalmente -però…momentaneamente!- rimpatriato da Lione, dove il Louvre l’ha dato in deposito, il formidabile “San Paolo nello studio”, dipinto per la chiesa milanese delle Grazie e sottratto dai Francesi nel 1797 (ma non fu necessario aspettare Napoleone: già un secolo e mezzo prima, a Casale Monferrato, un oscuro comandante militare francese collezionista, il de Covonges, aveva provveduto a impoverire la piccola ex-capitale di un ingente capitale artistico). Ma siamo ovviamente stati innanzitutto colpiti dal “Cristo e la Samaritana al pozzo” (1540), perla della Fondazione Cassa di Risparmio alessandrina: con disegni e numerosi pittori correlati anche qui, il “Battesimo” di S. Maria dei Miracoli a Milano, il ”Battista” da Busto Arsizio, e la “Cena” con l’epigono Giovan Battista della Cerva dall’altrettanto milanese S. Maria della Passione, con le opere della Cattedrale (“Sposalizio mistico di S. Caterina) e di S. Gaudenzio. In questa città, nei suoi ultimi anni di attività, il maestro avrebbe avuto tra gli allievi anche Bernardino Lanino, attraverso il quale si sarebbe giunti a quel Moncalvo manierista.
Si stende questa nota immediatamente a intervenuta chiusura (domenica 1° luglio) delle sezioni vercellese e novarese, con la notizia riepilogante che le due aree hanno toccato rispettivamente le 10.000 e 7.000 presenze, mentre continuerà fino al 16 settembre (e quindi sarà ancora visitabile per chi legga…) quella fondamentale di Varallo: per larga parte, del resto, stanzialmente presente, e valsa a sua volta oltre 14.000 ingressi. Sono numeri confortanti, ove si tenga conto della relativa perifericità della triplice offerta, rispetto a un pubblico itinerante aduso in prevalenza a orientarsi e muoversi privilegiando i centri maggiori, coi luoghi espositivi nazionali più correnti e consueti. E anche, ammettiamolo francamente, dei tempi che corrono…
Ma incisività tematica e culturale, ricchezza e profondità di concezione e allestimento, originalità radicale di apporto critico e scientifico (con un catalogo, una volta tanto, tanto reso abilmente leggibile quanto destinabile davvero a “restare”: e la raffinatezza di una sterminata campagna fotografica apposita, affidata con risultati straordinariamente omogenei a Mauro Magliani, con Barbara Piovan e Marco Furio Magliani), rigore e insieme intelligenza accogliente dell’offerta ne hanno comunque fatto, con tutta probabilità, la mostra dell’anno.
In questa pur capricciosa primavera perturbante, gli appassionati, e in particolare quelli dediti di preferenza alla pittura rinascimentale, hanno potuto oltretutto godere di una formidabile occasione parallela: la coincidenza cronologica e tematica con l’esposizione monosede Dürer e il Rinascimento tra Germania e Italia (Milano, Palazzo Reale, 21 febbraio-24 giugno). Resa ulteriormente solleticante dal fatto che i due grandi risultino strettamente coetanei (sebbene il tedesco sia stato purtroppo meno longevo) e i punti d’incontro/incrocio di vite e opere tutt’altro che carenti. Una volta tanto lo sforzo congiunto, potendo disporre di un milione e duecentomila euro splendidamente spesi, sostenuto da Regione Piemonte, Compagnia di San Paolo, Fondazione CRT e Banca Intesa San Paolo, è valso. «Niente noleggi, niente pacchetti: per una volta almeno niente Chagall, niente Mirò, niente Frida Kahlo, niente Tamara…» come liberatoriamente ha scritto lo stesso Agosti sulla “Domenica” del “Sole-24ore” del 25 marzo. E non c’è stato neppure di che preoccuparsi per l’eventuale impossibilità di toccare tutti i tre luoghi, a parte il fatto che in ciascuno già l’abituale consistenza delle opere permanenti giustificherebbe e sosterrebbe il viaggio in qualsiasi momento. Come ha ricordato ancora Agosti, tra le caratteristiche dell’iniziativa è l’aver potuto in ciascuna sede garantire un’esperienza completa dell’artista, facendo risultare anche la visione di una sola sezione altamente autonoma e significativa.
La mostra, a cura come il catalogo, sua e di Jacopo Stoppa, dichiaratamente
ispirati, sostenuti e consigliati dal riconosciuto magistero di Giovanni Romano, del quale è dichiarata l’amata primogenitura, e riprodotto in catalogo il saggio introduttivo dell’esposizione precedente (1982), è riuscita nello stesso tempo a… venire da lontano e a rimediare a un troppo lungo silenzio. In quell’occasione, a Torino, Romano, allora Sovrintendente, era riuscito a riunire in un’unica sala dell’Accademia Albertina gli ottanta cartoni gaudenziani che Carlo Alberto le aveva donato nel 1832: «non c’era neanche un quadro nel salone: eppure alla mostra non era mancato il successo».
A Gaudenzio la “sua” Varallo aveva già dedicato una primitiva mostra nel 1885 (quando le monografiche erano usanza piuttosto rara: Michelangelo a Firenze nel ’75, Rubens ad Anversa due anni dopo…). Poi oltre settant’anni senza ulteriori iniziative, fino a quella grande dispiegata a Vercelli nel 1956 dal giovane Giovanni Testori, su spinta di Roberto Longhi e avvalendosi della straordinaria presenza concomitante di Vittorio Viale come direttore del Museo Borgogna, che l’avrebbe ospitata, e di Luigi Mallè, suo stretto collaboratore ai Musei Civici di Torino e a sua volta loro futuro direttore. Nella sua sterminata carriera critica, Longhi non aveva potuto (o saputo? o voluto?) dedicare una particolare attenzione approfondita alla produzione piemontese, con rare e parziali eccezioni: ma ne era consapevole, e si era fatto mentore presso l’eccezionale discepolo dell’opportunità e dell’esigenza.
E il commovente nucleo idealmente originario dell’odierna mostra si trova proprio –ed è tuttora accessibile, nonostante la chiusura ufficiale dell’esposizione in quanto tale, in due saloni del magnifico Borgogna vercellese. Nella prima, di fronte alla neorecuperata Adorazione del Bambino con i SS. Francesco e Antonio di Gerolamo Giovenone e Bernardino Lanino (emula del precedente di Gaudenzio esposto all’Arca, proprio quello riottenuto dal Ringling Museum di Sarasota…), si trova in permanenza una piccola Circoncisione a sanguigna, già di proprietà personale di Testori, che al termine della mostra ’56 la donò in ricordo al Museo, e la cui visione emoziona radicalmente. Emozione che raddoppia nell’ultima delle sale, temporaneamente dedicate a una straordinaria retrospettiva fotografica proprio di quell’occasione espositiva ormai mitizzabile: nelle immagini sono ritratte le visite del sen. Luigi Einaudi, da un anno allora non più Presidente della Repubblica, e di altri illustri ospiti, ma anche delle maestranze di una fabbrica, del pari guidate alla comprensione personalmente da Viale e Mallè. Fanno venire un’infinita nostalgia dell’Italia povera e in risalita, ma semplicemente dignitosa nella sua volonterosa eleganza: e per chi non facesse in tempo a visitarla, ne è almeno raccomandabile il catalogo, appena pubblicato dallo stesso Museo: Rinascimento vercellese attraverso l’obiettivo fotografico di Boeri, Masoero e Giachetti.
Qualsiasi normale studente liceale di storia dell’arte sa (o dovrebbe sapere…) bene come nel primo quarantennio del Cinquecento, in Italia, alla faccia della terribile crisi politica – scandita dalla battaglia di Pavia del 1525 e culminata nel sacco di Roma due anni dopo!- si accumulino più opere decisive di quante ne siano mai fiorite in qualsiasi altro tempo e paese, il nostro compreso. Sono attivi contemporaneamente, tra gli altri, citando alla rinfusa, Leonardo a fine carriera e Tiziano che la inizia, Michelangelo e Raffaello, Bellini e Carpaccio, Giorgione e Lotto, Perugino (cui Gaudenzio si rifà direttamente) e Pinturicchio, Luini e Andrea del Sarto, Rosso e Pontormo.
Un affollamento anche qualitativo forse mai più ripetuto in qualsivoglia altro ambito artistico di qualsiasi disciplina espressiva. Questa concomitanza pone fatalmente in secondo piano, tanto agli occhi dei contemporanei che nella tradizione storiografica, la pittura del nostro nord-ovest, ad eccezione della piazza milanese. Ecco la ragione per cui, nella prima parte della sua carriera, come ha scritto Armando Besio, Gaudenzio «lavorò spesso in località fuori mano, tra risaie e prealpi, per un pubblico non illustre, e perciò la sua fama non è pari al suo talento».
Ma già nel 1590 Giovanni Paolo Lomazzo, a sua volta allievo di uno degli ultimi seguaci e collaboratori di Ferrari, il citato Giovan Battista della Cerva, a mezzo secolo dalla morte del maestro, ne L’Idea del tempio della pittura, mostrava la consapevolezza di considerarlo -dopo le lusinghiere ma tiepide espressioni del di poco posteriore Vasari- uno dei sette “governatori del tempio”: pilastri del suo simbolico edificio ideale cinquecentesco, insieme a Leonardo, Raffaello, Mantegna, Tiziano e Michelangelo. (In più vi figura solo il raffaellesco Polidoro da Caravaggio, anch’egli già suffragato da Vasari: Caldara di cognome, ma la cui fama sarebbe stata oscurata pochi decenni dopo dall’omonimia invalsa con l’altro Michelangelo, ahimé per lui il Merisi. Qui invece Longhi avrebbe fatto in tempo a rendersi garante dell’uno e dell’altro: a Caravaggio dedicando… la vita, e al quasi omonimo e antecedente Polidoro il suo ultimo articolo per «Paragone Arte», comparso postumo qualche settimana dopo la sua morte: n. 245, luglio 1970).
E nel 1932, nella sua pionieristica Storia dell’arte italiana, oggi tanto inevitabilmente superata quanto ingiustamente obsoleta, in ancora totale egemonia crociana, Guido Edoardo Mottini, paragonandolo a Luini, da lui considerato il più” gran lombardo” del ‘500, avrebbe definito Gaudenzio «un esuberante, un decoratore dalla fantasia inesauribile, un turbinoso animatore di folle che ribollono attorno al Calvario o nella grotta luminosa del Presepio. […] Si compiace del realismo crudo e del fasto pomposo. […]». Riconoscendo comunque che «per la ricchezza pittoresca dei particolari, il realismo vivace e gustoso, il senso lieto o magnifico della vita, egli non ha forse pari tra gli artisti dell’Italia settentrionale (esclusi i Veneti)». Ed elogiandone l’opera a Varallo, Saronno e Vercelli.
Ma al di là dell’affascinante concatenazione delle mostre, e delle lontane quanto fruttuose contrapposizioni fra Giovanni Testori e Anna Maria Brizio, che si sottendevano a quelle anteriori tra Longhi e i Venturi padre e figlio, in un’epoca in cui in Italia la cultura contava o almeno era convinta di contare, la cui rievocazione analitica non sarebbe qui appropriata, è entusiasmante constatare anche come Agosti e Stoppa, discepoli a loro volta del non accademico Testori, abbiamo privilegiato l’ottica pedagogico-formativa. Coinvolgendo programmaticamente i propri dottorandi e giovani ricercatori della Statale milanese in una magnifica opera di schedatura, documentazione, analisi e sistemazione, che è riuscita nel miracolo di non mortificare il risvolto scientifico a vantaggio di quello divulgativo, e viceversa.
«Lo scopo del progetto è far capire al maggior numero di persone la grandezza di Gaudenzio Ferrari» sintetizzavano. Raramente obiettivo fu più appieno raggiunto: rigore accademico e grande pubblico insieme, come ha autorevolmente asseverato Davide Dall’Ombra, non a caso studioso sistematico del rapporto Longhi-Testori, su “Alias” del “manifesto” il 6 maggio.
Nella riapertura intervenuta a Varallo il 7 luglio, dopo tre giorni di riallestimento, e che resterà fino al 16 settembre, non saranno più visibili le opere che la scadenza originaria ha obbligato a restituire ai prestatori: la Crocifissione proveniente dal Szépművészeti Múzeum di Budapest, il Noli me tangere di Bramantino dallo Sforzesco di Milano, la Sacra allegoria dello Städel Museum di Francoforte, l’Angelo del Civico d’Arte antica di Palazzo Madama di Torino, le Cinque scene della Passione di Cristo del Fitzwilliam di Cambridge e la Presentazione di Gesù al tempio del Louvre, mentre sarà in parte disallestito il polittico del Duomo di Vercelli.
Ma se questo scritto inducesse qualche visitatore ritardatario a recuperare l’occasione, anche il suo piccolo scopo sarà raggiunto. Perché è giusto che il cerchio si chiuda a Varallo, dove tutto si è aperto: risalendo le rampe dell’eterno Gran Teatro Montano dell’altrettanto immortale libro di Testori (1965), rinforzato poi dal bellissimo Il Gran Teatro Montano del Sacro Monte di Varallo -film e libro- magistralmente realizzati da Elisabetta Sgarbi per Bompiani dieci anni fa. [Me li lasciò in dono dopo la sua memorabile partecipazione a “Ring!”, la sera del sabato 2 ottobre 2010: ignari lei, io e chiunque altro, avendo commesso l’errore di lasciarli al book shop del Comunale con altri volumi per ritirarlo il giorno dopo a fine manifestazione, che l’amianto se li sarebbe divorati, con tutto il resto, Teatro compreso, nella fulmineo coprifuoco intervenuto la mattina successiva, e che di fatto è tuttora in corso…].
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