Ridurre gli adempimenti burocratici, eliminare “lacci e lacciuoli” è sicuramente positivo se all’interno di un quadro di vera semplificazione e riconversione…meno se fine a se stessa, cioè con la possibilità di lasciare mano libera a chi si muove sul delicato mercato del “green” senza scrupoli particolari.
Alcuni passaggi del “piano”, approvato anche in Senato, fanno sorgere più di un dubbio. Sono bastate poche righe inserite nell’articolo 40 del decreto convertito in legge, per aggiungere le aree naturali protette tra le zone in cui sarà possibile impiantare nuove infrastrutture di telecomunicazione, con procedure caratterizzate da una semplice segnalazione ed una riduzione dell’iter autorizzativo da 6 mesi a 90 giorni. Si tratta di strutture per lo più fisse montate ad altezza compresa tra 15 e 50 metri, che richiedono per la loro installazione la posa di cavi e il trasporto di materiali tramite mezzi pesanti. In sostanza, per giungere nei luoghi prestabiliti, si dovranno attraversare, quindi compromettere, territori vergini dal punto di vista naturale. In tal modo vincoli paesaggistici e ambientali verrebbero quasi del tutto azzerati. Ancora una volta siamo di fronte al confronto tra “costi e benefici” con – sullo sfondo – una malintesa intenzione di arrivare ad una trasformazione tecnologica con una idea di “protezione” del tutto nuova. Oltretutto, anche nel caso in cui fosse veramente necessario violare i nostri “polmoni verdi” per ampliare ulteriormente la rete di telecomunicazioni in zone oltretutto poco abitate, il tema avrebbe dovuto generare un dibattito pubblico e una discussione politica. Nulla di tutto ció. L’impatto rilevante di tali infrastrutture nell’ambiente svilisce ogni impegno profuso in molteplici attività per la tutela del paesaggio, peraltro prevista dalla Costituzione. Materia che da decenni è oggetto di numerosi regolamenti a livello locale per la ritessitura / riequilibrio del paesaggio agrario, perfino prescrivendo una rigida selezione delle specie arboree ammesse.
Il pool di esperti, di altissimo livello, provenienti da Università di valore, da centri Studi nazionali e internazionali e, soprattutto, dai Centri di Analisi e Sviluppo delle aziende private, è arrivato ad una serie di proposte, condivise dalla stragrande maggioranza del Parlamento italiano, con tanto di imprimatur della Commissione Europea, che sarà difficile mettere in discussione. Ma – ci permettiamo – è l’obiettivo finale che stride, che non convince… “Rinascita” e “resilienza” hanno significati ben chiari, difficilmente mistificabili, specie in periodi di drammatici cambiamenti (climatici e sociali) come quelli che stiamo vivendo. “Rinascita” presuppone un nuovo modo di vivere, terre nuove, aria nuova, gente nuova, idee nuove, soprattutto una rinascita complessiva che permetta a tutti gli elementi della nostra Terra, minerali, vegetali, animali, di potersi realizzare al meglio e, almeno in prospettiva, di poter anelare a qualcosa di più vivibile dell’attuale nostra Terra. Segnata da contraddizioni, da zone ricche (poche) e da molte aree periferiche e abbandonate, con il problema – in prospettiva – di carenza di energia, di necessità di uscita dalla schiavitù del petrolio, con meno acqua pulita e con campi sempre più difficili da coltivare. Proprio in questo “quadro” dovrebbe inserirsi il termine “resilienza” che, secondo l’etimo latino, ci propone un passaggio di lato, un salto in altro ambito, un evitare la strada vecchia per una nuova praticabile. “Resilire” (da un usatissimo re-salio) che, come tutti gli esseri viventi dotati di raziocinio, dopo aver provato un percorso poco gradevole e alla fine auto-distruttivo, semplicemente “saltano altrove”. E questo salto, però, deve tendere al meglio, alle migliori soluzioni possibili che, ormai, non possono che essere globali. Il PNRR è questo?
Ma di cosa stiamo trattando?
Il Governo ha trasmesso il 25 aprile 2021 al Parlamento il testo definitivo del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).
Il Piano si inserisce all’interno del programma Next Generation EU (NGEU), un pacchetto rilevante da 750 miliardi di euro concordato dall’Unione Europea in risposta alla crisi pandemica.
Come è noto, il Piano italiano prevede investimenti pari a 191,5 miliardi di euro, finanziati attraverso il Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza, lo strumento chiave del NGEU (Next Generation ecc.). Ulteriori 30,6 miliardi sono parte di un Fondo complementare, finanziato attraverso lo scostamento pluriennale di bilancio approvato nel Consiglio dei ministri del 15 aprile 2021.
Il totale degli investimenti previsti è pertanto di ben 222,1 miliardi di euro.
Il Piano include inoltre un corposo pacchetto di riforme che dovrebbero interessare, tra gli altri,gli ambiti della pubblica amministrazione, della giustizia, della semplificazione normativa e della concorrenza.
Si tratta, indubbiamente, di un intervento epocale, che intende riparare i danni economici e sociali della crisi pandemica, contribuire a risolvere le debolezze strutturali dell’economia italiana, e accompagnare il Paese su un percorso di transizione ecologica e ambientale. A cui sarebbe da aggiungere il profilo più rilevante, quello dell’uscita dalla stagnazione e dello sviluppo, possibilmente, compatibile. I recenti dati del Prodotto Interno Lordo nazionale parlano chiaro: dallo 0,2 medio annuo del periodo 2016 – inizio pandemia si è passati, secondo i dati di metà 2021, ad un più 5,6 per cento.Con un paniere di riferimento invariato e senza alcuna variazione o pressione di sorta per riconversioni produttive, trasformazioni ecologicamente sostenibili favorendo il più possibile l’inclusione e tutte le parità di diritti possibili. In sostanza un “lasciate fare a noi che abbiamo le informazioni e sappiamo che fare….poi vi spiegheremo”. E pensare che sulla carta il piano si presenta non solo ambizioso ma concettualmente rilevante.
Infatti ha – sulla carta – come principali beneficiari le donne, i giovani e il Mezzogiorno e, pertanto, dovrebbe contribuire in modo sostanziale a favorire l’inclusione sociale – appunto – e a ridurre i divari territoriali.
I dati in dettaglio sono ormai di dominio pubblico: il 27 per cento del Piano è dedicato alla digitalizzazione, il 40 per cento agli investimenti per il contrasto al cambiamento climatico, e più del 10 per cento alla coesione sociale. Citando due intrattenitori anticonformisti per il tempo loro (1) verrebbe da commentare con un “Bene , bravo, sette più”.
La prima mission è quella di maggiore pertinenza, per i nostri interessi. “Digitalizzazione, Innovazione, Competitività, Cultura”, infatti, stanzia complessivamente 49,2 miliardi – di cui 40,7 miliardi dal Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza e 8,5 miliardi dal Fondo. I suoi obiettivi sono – per espressa dichiarazione del Ministero di competenza – “promuovere la trasformazione digitale del Paese, sostenere l’innovazione del sistema produttivo, e investire in due settori chiave per l’Italia, turismo e cultura”.
In modo particolare, proprio sulla base di quanto espresso nell’articolo 40 citato in apertura, gli investimenti previsti nel piano assicureranno la fornitura di banda ultra-larga e connessioni veloci in tutto il Paese.
In particolare, porteranno la connettività a 1 Gbps in rete fissa a circa 8,5 milioni di famiglie e a 9.000 edifici scolastici che ancora ne sono privi, e assicureranno connettività adeguata ai 12.000 punti di erogazione del Servizio Sanitario Nazionale. Ma non sarà una operazione indolore per l’insieme del territorio, per cui sarà quanto mai opportuna una verifica dettagliata dei progetti esecutivi nei loro passaggi autorizzativi.
Oltretutto sulla base del citato PNRR verrà avviato anche un Piano Italia 5G per il potenziamento della connettività mobile in aree a fallimento di mercato (2) Per far sì che i fondi stanziati attraverso il Piano siano complementari e non sostitutivi rispetto agli interventi in capo agli operatori privati (evitando il cosiddetto “spiazzamento”), è stata prevista un’apposita consultazione, affidata anche in questo caso a Infratel, che l’ha avviata a partire dallo scorso 10 giugno 2021 (3) Tra l’altro, per chi avesse la memoria corta, si ricorda che il Piano prevede incentivi per l’adozione di tecnologie innovative e competenze digitali nel settore privato, “rafforzando” (sic) le infrastrutture digitali della pubblica amministrazione, ad esempio facilitando la migrazione al cloud.
Per turismo e cultura, saranno finanziati interventi di valorizzazione dei siti storici e di miglioramento delle strutture turistico-ricettive. Par di capire soprattutto “più uffici per il Turismo e più soldi ai ristoranti / bar / hotel ecc. ” (con condizioni agevolate di accesso al credito).
Altrettanto stuzzicante la seconda “mission” che, per la cronaca, riporta un altisonante titolo: “Rivoluzione Verde e Transizione Ecologica”, con stanziamento complessivo di 68,6 miliardi – di cui 59,3 miliardi dal Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza e 9,3 miliardi dal Fondo.
Interessante la rilettura di uno dei passaggi di commento di questa “rivoluzione verde”: “suoi obiettivi sono migliorare la sostenibilità e la resilienza del sistema economico e assicurare una transizione ambientale equa e inclusiva”. Dovrebbe stanziare investimenti per l’economia circolare e la gestione dei rifiuti, per raggiungere target ambiziosi come il “65 per cento di riciclo dei rifiuti plastici e il 100 per cento di recupero nel settore tessile”.
Il Piano, secondo la comunicazione ufficiale pemetterà di “ stanziare risorse per il rinnovo del trasporto pubblico locale, con l’acquisto di bus a bassa emissione, e per il rinnovo di parte della flotta di treni per il trasporto regionale con mezzi a propulsione alternativa. “
Il tutto combinato con rilevanti incentivi fiscali tesi ad incrementare l’efficienza energetica di edifici privati e pubblici. Le misure consentiranno la ristrutturazione di circa 50.000 edifici l’anno, presumibilmente mantenendo l’obiettivo del salto di due punti nella valutazione complessiva finale degli interventi posti in essere.
La terza missione, “Infrastrutture per una Mobilità Sostenibile”, stanzia complessivamente 31,4 miliardi – di cui 25,1 miliardi dal Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza e 6,3 miliardi dal Fondo.
Il suo obiettivo primario è lo sviluppo razionale di un’infrastruttura di trasporto moderna, sostenibile e estesa a tutte le aree del Paese. Un obiettivo che vorremmo tutti che fosse realizzato ma….lo scetticismo permane.
Tra l’altro, trattando di grande viabilità su medie – lunghe percorrenze, il Piano prevede un importante investimento nei trasporti ferroviari ad alta velocità. Con buona pace di chi si è occupato per anni di grande viabilità. La pochissima resilienza insita in un tratto passeggeri con – prevedibilmente – pochi partecipanti, un enorme consumo di carburante diretto o indiretto.
La “quarta mission”, “Istruzione e Ricerca”, andrà a stanziare complessivamente 31,9 miliardi di euro – di cui 30,9 miliardi dal Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza e 1 miliardo dal Fondo.
Il suo obiettivo è rafforzare il sistema educativo, le competenze digitali e tecnico-scientifiche, la ricerca e il trasferimento tecnologico. Il tutto sempre all’insegna dei computer, dei loro miracoli e della necessità di chi ha già fatto dieci anni fa questa svolta tecnologica
La “quinta missione”, “Inclusione e Coesione”, stanzia complessivamente 22,4 miliardi – di cui 19,8 miliardi dal Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza e 2,6 miliardi dal Fondo.
Il suo obiettivo è facilitare la partecipazione al mercato del lavoro, anche attraverso la formazione, rafforzare le politiche attive del lavoro e favorire l’inclusione sociale. Mentre la sesta mission, “Salute”, impegna complessivamente 18,5 miliardi, di cui 15,6 dal Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza e 2,9 miliardi dal Fondo.
L’obiettivo principale sarà: ” rafforzare la prevenzione e i servizi sanitari sul territorio, modernizzare e digitalizzare il sistema sanitario e garantire equità di accesso alle cure.
Belle parole a cui devono seguire i fatti, pena una ulteriore dicotomia fra mondo della politica e gli “spettatori” sempre più spettatori. Vedremo gli sviluppi prossimi.
…
(1) – si tratta del duo “Cochi e Renato” affermatosi a inizio anni Settanta e poi, con alterne fortune, ancora attivo fino al nuovo secolo.
(2) – ovvero quelle zone del Paese in cui gli operatori non hanno interesse a investire e ai quali, come da copione, viene dedicata la maggior parte delle risorse stanziate (1 miliardo).
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